Miliband: la mia sinistra nell’epoca della responsabilità

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Marc Stears, lo studioso di Oxford vecchio compagno di università, mi ha detto che Miliband si sente “abbastanza sicuro” ed è “in una disposizione d’animo profondamente riflessiva”. “È bello vederlo così”, precisa. “Quel che più mi colpisce è la sua calma. Sa che adesso il partito è saldamente schierato con lui. Miliband ha il dono di saper prevedere gli effetti a medio e lungo termine, e questo lo aiuta nei momenti difficili. Credo senta che la gente adesso lo sta ascoltando di più e che il contesto in cui si trova è cambiato”.

“Ho pensato molto, Jason”, mi conferma Miliband mentre passeggiamo intorno alla sua bella casa di Londra nord e ci addentriamo nel piccolo giardino. È una di quelle luminose mattine di settembre così rare in Gran Bretagna, c’è una luce diffusa e tutto è reso più bello dalla consapevolezza che le giornate si stanno inesorabilmente accorciando. Il giardino è incolto, l’erba è umida sotto i piedi nel sole di prima mattina. Tom Baldwin, il suo solerte e attentissimo responsabile della comunicazione, ci porge le sedie e ci porta un caffè. Miliband indossa una camicia casual grigio-blu e ha un accenno di cipria sul volto (per il nostro fotografo, credo). I suoi folti capelli scuri screziati di grigio sono pettinati all’indietro.

È come l’avevo visto l’ultima volta, e la sua conversazione ha un che di incalzante e utopico. È pieno di idee e grandi astrazioni. I dettagli di politica spicciola possono attendere.
Ai blocchi di partenza della nuova stagione autunnale il leader laburista, che oggi ha 42 anni, non smette di spiegare dove ritiene che il partito sia arrivato sotto la sua guida e invita a lasciare da parte l’autocompiacimento (“Non torneremo al governo solo dicendo che intendiamo finire quello che avevamo iniziato”, puntualizza. “E non vogliamo nemmeno starcene lì ad aspettare la disfatta dei Tory.”). La mattina del nostro incontro Miliband sta affinando e rivedendo un intervento sull’economia – le bozze del discorso sono tutte sparpagliate su un tavolo – che dovrà tenere la stessa settimana. Ma esordisce parlandomi delle letture che ha fatto con il suo nuovo Kindle, spiegandomi che la convenienza e facilità di utilizzo del dispositivo lo hanno deliziato. “Ho letto The Fear Index, sai, di Robert Harris, Skios di Michael Frayn, che parla della Grecia. E poi un paio di libri più impegnativi: The New Few di Ferdinand Mount, How Much Is Enough? di Robert ed Edward Skidelsky e anche What Money Can’t Buy: the Moral Limits of Markets di [Michael] Sandel”.

Gli ultimi tre titoli appartengono alla stessa famiglia: con approccio deliberativo e quasi filosofico, tutti e tre mettono in discussione la moralità del modello di capitalismo pigliatutto e dominato dalla logica di mercato che ha generato sia in Gran Bretagna che negli Stati Uniti livelli record di diseguaglianza, degrado ambientale e disagio esistenziale acuto.
“Siamo passati dall’avere un’economia di mercato all’essere una società di mercato”, scrive Sandel in What Money Can’t Buy, che può essere letto come un atto di accusa agli ultimi 30 anni di consenso economico e politico (a questo proposito Miliband puntualizza con entusiasmo che il filosofo politico di Harvard parteciperà alla conferenza del Partito Laburista a Manchester).

“Per come la vedo io, ho due compiti, due in particolare. Il primo è stilare l’agenda politica di un’economia che operi a vantaggio dei lavoratori: come riformiamo l’economia – e per riforma intendo un mutamento che interessi qualsiasi ambito, dalle banche alle competenze alla tendenza al breve termine e molto altro ancora – come la cambiamo? La teoria che avevo formulato, quella dei “predatori-produttori” [nel suo intervento dell’anno scorso alla conferenza del Partito Laburista a Liverpool, ndr], oggi non sembra più così campata in aria. Parecchi che all’epoca non impazzirono per quella distinzione oggi ammettono che c’era una parte di verità in essa, quindi ecco il primo compito. Ma io credo che ce ne sia anche un altro ancora più importante. E comunque di certo non andrò alla conferenza del Partito Laburista di quest’anno a dire solo “Predatori-produttori, avevo ragione”. Non mi interessa. Piuttosto mi preme sollevare un altro interrogativo: “Che tipo di Paese possiamo essere?”. Credo sia questo che la gente non ottiene da [David] Cameron. Il governo non è solo sconclusionato, non è solo ingiusto, non è solo rappresentativo della gente sbagliata. È anche un problema più ampio di visione di dove sta andando la Gran Bretagna”.

Fa riferimento alle Olimpiadi di Londra e all’euforia che molti di noi hanno provato nel corso di quei giorni ad agosto, quando a tratti sembrava che l’intero Paese fosse in preda a una specie di socialità estatica, come se noi stessi non riuscissimo a credere che stesse andando tutto così bene. C’era la gioia e c’era anche il sollievo, uniti a una rinnovata consapevolezza di che tipo di Paese sia la Gran Bretagna e di che tipo di Paese abbia il potenziale per essere. “Ecco perché le Olimpiadi hanno rappresentato un momento così cruciale per la mia generazione”, spiega. “C’era un ragazzo – il direttore commerciale di uno dei team sportivi – che ho incontrato per caso a un evento e mi ha detto “Per la prima volta ho avuto una percezione del futuro della Gran Bretagna che mi sembrava avesse senso”.

Questo è successo dopo la cerimonia di apertura di Danny Boyle. E io non penso dipendesse solo da Danny Boyle, penso dipendesse dall’avere la sensazione di un Paese che fa cerchio, che si riunisce, il che è un aspetto davvero fondamentale per una nazione”.
Come possono fare i politici a cogliere questo elettrizzante senso di possibilità e a tradurlo in qualcosa che abbia un valore duraturo? Come si fa a trasformare la riorganizzazione del capitalismo in un progetto collaborativo, patriottico e che aggiunga identità a una nazione? “Credo che questo sia proprio il modo giusto di leggere la questione”, commenta Miliband, spingendosi in avanti sulla sedia. “Le Olimpiadi sono state un momento cruciale per me. Sono state cruciali soprattutto per il Paese in generale, ma anche per me, perché per la prima volta in vita mia penso di aver colto il senso di ciò di cui mi parlava mio padre [l’intellettuale marxista Ralph Miliband, ndr] in riferimento allo spirito del tempo di guerra, di quando era in Marina. È chiaro che non ci possano essere Olimpiadi permanenti, ma credo ci si debba comunque chiedere “che tipo di Paese ci sentiamo”. Sentiamo di avere dei doveri gli uni nei confronti degli altri? La gente pensa che i vantaggi e gli oneri dell’esistenza siano equamente distribuiti? Sono interrogativi in parte di carattere economico, ma vanno anche molto più a fondo”.

Fa una pausa, come se non riuscisse a tradurre i suoi pensieri nelle parole che desidera. “Che istituzioni abbiamo in comune? L’NHS? La BBC? È molto interessante che le Olimpiadi siano state quel che sono state esclusivamente perché – o almeno in gran parte perché – potevamo contare su un canale di informazione libero che è riuscito a promuovere il discorso nazionale…

“Credo che una delle agende politiche più importanti per il nostro Paese sia quella che riguarda la salute mentale. Siamo una nazione stressata. Esiste di tutto, dalla depressione allo stress in generale, e la salute mentale è peraltro circondata da un grande tabù… Il tipo di economia che abbiamo definisce il tipo di società che siamo. Se sei un Paese in cui la gente è costretta a fare due o tre lavori, lavora 50/60 ore a settimana, non riesce a vedere i propri figli, tutto ciò fa di te un Paese che non è a suo agio con se stesso e in cui la popolazione non ha accesso al benessere di cui ha bisogno”.

A questo punto Miliband elenca tre sfide principali che si è autoimposto nell’immediato. “Primo, c’è bisogno di un Paese in cui tutti sentano di avere voce in capitolo. Non è possibile che una nazione abbia il senso di un progetto condiviso se c’è gente tagliata fuori… giovani che non hanno un lavoro e che non hanno nessuna possibilità di ottenerlo, per dire. Questa è la prima cosa.

Secondo punto, la gente deve avere la percezione che il Paese si muova all’unisono, che vantaggi e oneri siano equamente distribuiti. Quando hai amministratori delegati che si pagano mille, anche duemila volte lo stipendio dei loro dipendenti meno retribuiti, non hai un Paese unito. E l’aspetto più interessante è che anche la destra sta sostenendo questa stessa linea di pensiero”.
Forse ti riferisci alla destra più ponderata e cerebrale… “Sì, la destra più ponderata. Ad oggi Cameron è tagliato fuori da quel progetto politico. Poteva essere lui nel 2006, 2007 ma ora non si tratta più solo di Cameron”.

Ma anche Cameron denuncia le iniquità del “capitalismo clientelare”. Ha una sua posizione riformista sulla crisi e sulle sue conseguenze.
“Lo so, ma non ci crede, no?”
Secondo Ferdy Mount sì.
“Sono cugini [Mount e Cameron, ndr]”, interviene Tom Baldwin.
“In ogni caso, guarda” – riprende Miliband – “se Cameron ci credesse davvero, non taglierebbe le tasse ai milionari per poi aumentarle a tutti gli altri e dire che il Paese è unito. E qui veniamo al secondo punto. Terzo punto, a mio avviso esistono dei settori fondamentali di vita in comune: l’NHS, l’istruzione locale, la grande distribuzione locale, la BBC. Sono tutti settori da alimentare, e non credo ci sia bisogno di essere un conservatore per capirlo. In questo risiede la principale correttezza della logica del Blue Labour: ci sono aspetti che dobbiamo conservare e altri che dobbiamo modificare. Questo è il mio progetto”.

Miliband parla diffusamente ma senza dettagli; la sua conversazione è fluente ma non sempre articolata. Sa quel che pensa ma non sempre sa come dirlo, di qui la sua predilezione per le generalizzazioni vaghe e le affermazioni sentenziose. Parte del problema deriva dal fatto che sta cercando un nuovo stile di linguaggio per riferirsi al presente e al prossimo futuro, sta studiando un tono convincente per parlare di riforma economica e politica. I concetti economici con cui ha a che fare sono inevitabilmente complessi; il suo obiettivo, secondo Stears, è quello di “creare un nuovo paradigma”. Miliband ha fiuto per il cambiamento e riesce a capire a fondo cosa andrebbe fatto. L’“andrebbe fatto” implica il “può essere fatto”. Miliband è consapevole di non poter ritornare ai metodi del vecchio Labour, nemmeno mascherati da nuovo Labour: stiamo parlando della logica del tassa-e-spendi, con lo Stato centralizzato in veste di motore della (re)distribuzione e del controllo. Il rischio insito nella sua agenda di “capitalismo responsabile” è però che possa andare a finire come l’utopia della Big Society dei Tory, che si traduca in un’opportunità sprecata per non averla sufficientemente ponderata, dettagliata, o anche solo compresa in pieno. Durante l’ultima campagna elettorale si è detto che la retorica della Big Society non ha funzionato bene nella realtà quotidiana. Il nuovo capitalismo responsabile riuscirebbe a fare meglio?
In The New Few, saggio sull’avvento di un’oligarchia rapace che fa parte della società britannica ma opera egoisticamente senza tenere in minima considerazione il contesto sociale in cui è inserita, Ferdinand Mount cita alcuni passi di un discorso tenuto da Miliband a giugno del 2011, in cui parlava degli effetti corrosivi dell’ineguaglianza e di quanto la cultura dell’irresponsabilità aziendale ci abbia danneggiati tutti.
Ho chiesto a Mount come pensa che Miliband si stia configurando come leader. Mi ha risposto per email dicendo di non aver seguito i suoi interventi recenti. “Non ho un’opinione significativa rispetto a Ed Miliband, non sono andato molto oltre il continuare a pensarlo come uno che ha fottuto suo fratello”, mi ha scritto. “Per quanto riguarda il fatto che il mio libro sia stato ripreso dalla sinistra, la maggior parte delle mail di ammiratori che ricevo arrivano da ex direttori di aziende FTSE-100, che mi dicono che sì, ahimè, in quelle pagine c’è molto di vero rispetto a quanto sta accadendo al giorno d’oggi. La verità è, o almeno dovrebbe essere, che una campagna per recuperare trasparenza e affidabilità nel settore degli affari dovrebbe essere un progetto trasversale a tutti i partiti. Dopotutto è stato David Cameron, credo, a coniare la definizione più adatta a questa situazione, “capitalismo clientelare”. Quel che è forse più importante, inoltre, gran parte di questa riforma dovrà essere autogenerata (vedi, per es., la “primavera degli azionisti”) e non indotta da un governo di qualsivoglia partito, anche se il governo dovrà svolgere un’incisiva funzione di supporto”.

Miliband sta lavorando alle prime bozze del suo intervento alla prossima conferenza, in cui elaborerà e svilupperà il tema fulcro della sua leadership: come può un partito di centrosinistra perseguire la giustizia sociale in un momento in cui il vecchio modello di redistribuzione statale tassa-e-trasferisci non è più affidabile (ammesso che mai lo sia stato) e la base fiscale si è dimostrata tutt’altro che resistente oltre che dipendente in misura eccessiva dai servizi finanziari e dall’inflazione nei prezzi delle case?
A suo avviso il discorso che ha fatto alla conferenza dell’anno scorso – in cui ha contrapposto il capitalismo “responsabile” a quello “predatorio”, ma poi non è riuscito a spiegare bene cosa voleva dire – è stato frainteso perché “in anticipo sui tempi”. Alcune delle persone a lui più vicine pensano che, malgrado l’intervento fosse portatore di un messaggio centrale potente e che tuttora ha una vasta eco, sia stato scritto male, mal cadenzato e mal espresso, e che avesse un tono sbagliato. “Troppe persone ci avevano messo mano”, mi ha rivelato un interno. “Quest’anno Ed ci sta lavorando in prima persona ed è in contatto con Marc [Stears] per evitare di ripetere gli stessi errori”.

Ho chiesto a Stears di questo aspetto e del ruolo che egli ha nelle posizioni intellettuali e politiche di Miliband. “Faccio un po’ da cassa di risonanza”, mi ha risposto. “È tutta una questione di comprensione. L’intervento dell’anno scorso non è stato molto preparato. E adesso Ed sente la necessità di una specie di riscatto, di approfondimento. Prima ha dovuto puntualizzare a che genere di capitalismo aspira… i dettagli politici vengono dopo.
Sta fondando un nuovo paradigma, qualcosa di ben diverso dal punto a cui si trova ora la coalizione e da quello a cui era arrivato il Nuovo Labour. Ma prima deve spiegare il suo progetto”.

Malgrado non usi queste parole, Miliband vede il suo come un progetto di controegemonia, un qualcosa paragonabile per ambizioni alle modalità con cui la nuova destra della Thatcher spuntò dai margini fino ad acquisire il controllo del Partito Conservatore alla fine degli anni Settanta e reinventò la nazione. Una volta Margaret Thatcher ha detto: “I profeti del Vecchio Testamento non hanno mai detto “Fratelli, vogliamo il consenso”. Hanno detto “Questa è la mia fede. Questo è ciò in cui credo con tutto me stesso. Se anche tu ci credi, vieni con me”.

Il milibandismo, come il thatcherismo, aspira ad essere profondamente disgregante, a rompere il consenso. Ma il suo progetto è stato sufficientemente approfondito? Ha dalla sua parte un insieme coerente di idee? Quali sono i suoi principali testi di riferimento, quali i suoi paladini e le sue voci intellettuali? “Questo è quello in cui crediamo”, diceva la Thatcher, sventolando una copia de La costituzione della libertà di Friedrich Hayek. Miliband potrebbe avere quella stessa sicurezza nell’usare la prima persona plurale, potrebbe parlare di un Noi inclusivo? Il milibandismo in quanto ideologia può affermare di essere qualcosa di più che non un’inclinazione alla giustizia, un paio di solidi principi retorici e un’aspirazione alla riforma del capitalismo?

In un recente articolo per New Statesman, Neil O’Brien, direttore di Policy Exchange tra i più interessanti giovani pensatori di destra, ha suggerito l’ipotesi che Miliband sia combattuto tra “pragmatismo e radicalismo” e che da questo dipenda la sua generale mancanza di chiarezza e coerenza. Nel frattempo, scriveva O’Brien, i ministri ombra del Labour “accumulano impegni di spesa” sull’assistenza ai minori, sui crediti d’imposta, sull’Education Maintenance Allowance (EMA), sulle rette universitarie, sulla Disability Living Allowance e così via.

Ma non è così che la vede Miliband. Prima di tutto, egli è consapevole del fatto che il conservatorismo fiscale è e sarà all’ordine del giorno e che il Partito Laburista non avrà troppi soldi da spendere nell’eventualità vincesse le elezioni del 2015. A gennaio Ed Balls, cancelliere ombra con cui Miliband ha un rapporto burrascoso, ha per l’appunto precisato: “Il punto di partenza per me è che temo dovremo mantenere tutti i tagli [Tory]”. In un suo discorso, pochi giorni dopo, Miliband ha ribadito la stessa posizione.

Questo ha notevolmente irritato i vertici delle unioni laburiste e molti commentatori di sinistra convinti che la missione del Partito Laburista sia quella di ridurre i più gravi eccessi del capitalismo puntando sulla logica del tassa-e-spendi per tutelare i più poveri e vulnerabili. Len McCluskey, segretario generale del sindacato Unite, a tal proposito ha scritto: “L’improvvisa adesione di Ed Balls alla linea dell’austerità e al congelamento degli stipendi nel pubblico impiego rappresenta una vittoria dello screditato blairismo a spese del nucleo di sostenitori del partito. L’accaduto mette inoltre in discussione l’intera linea che Ed Miliband ha stabilito, e forse la sua stessa leadership”.

Da allora sia Balls che Miliband si sono pronunciati poco sull’argomento. “Ma la nostra posizione non è cambiata”, afferma oggi Miliband. “Guarda, confermiamo assolutamente tutto quel che abbiamo detto all’inizio dell’anno, e ti ribadisco che ciò che io ed Ed volevamo dire è che il prossimo governo laburista si insedierà in circostanze molto diverse e dovrà fronteggiare una situazione e prospettive ben diverse dall’ultimo che l’ha preceduto. E se arrivassimo dicendo “Beh, possiamo fare semplicemente come già ha fatto l’ultimo governo laburista” sarebbe un atteggiamento politicamente folle, perché così facendo non vinceremmo le elezioni e nemmeno meriteremmo di vincerle.

“Non possiamo dire “Oh, vogliamo riprendere da dove era stato lasciato, sapete, l’elettorato aveva torto e noi ragione, grazie tante…”. Non è realistico. Ed Balls non arriverà alla conferenza del Partito Laburista uscendosene con un “Ci rifaremo al vecchio modello di crescita economica e useremo tantissimi soldi per spendere… miliardi di sterline”. Non è realistico e nemmeno credibile”.

Non vi preoccupa l’eventualità che possa esserci un’altra battuta d’arresto da parte dei sindacati e che ciò vi costringa un’altra volta a ritrattare?
“Guarda, stiamo cercando di delineare un nuovo indirizzo. Abbiamo imparato che una politica di tasse e contributi è importante come strumento di equità ma non è sufficiente, e che il prossimo governo laburista vi potrà fare ricorso molto meno… ecco perché le regole dell’economia sono straordinariamente importanti”.

Quindi la nuova ortodossia laburista è il conservatorismo fiscale? “Aspetta”, risponde lui, “non mi piace il termine “conservatorismo fiscale”, la gente potrebbe pensare “Che significa?”. Lascia che la metta a modo mio: la mia opinione è che il prossimo governo laburista sarà molto più condizionato rispetto alle possibilità di spesa. Perciò è necessaria una nuova agenda relativa alle modalità con cui modificheremo la nostra economia… Si tratta di accettare una verità assoluta, rappresentata dai vincoli ben più rigidi che contraddistinguono oggi il panorama fiscale”.

Sono vincoli talmente pesanti, spiega, che probabilmente il Partito Laburista non potrà reintrodurre l’EMA, il che farà infuriare molti giovani sostenitori. “Non posso fare promesse sull’EMA. Non possiamo sentirci dire che ci sono meno soldi da spendere e che bisogna essere realisti riguardo al contesto economico e poi spargere al vento promesse su promesse. Ecco perché sia il discorso di Ed [sulla disciplina fiscale] a gennaio che il mio intervento sono stati così importanti”.

Miliband sostiene che i rapporti tra lui e il cancelliere ombra siano, contrariamente a quanto si riporta, “buoni”. Si dice che Balls sia scettico nei confronti dell’altisonante retorica di Miliband sul capitalismo responsabile e che sia un riformista moderato più che radicale: lui non crede che il modello economico sia compromesso, in sé. Ripara l’alternatore, cambia l’olio, sostituisci le candele e la macchina sarà pronta per ripartire. Miliband invece porterebbe tutta l’auto a rottamare. “È un completo nonsense”, [commenta riguardo a quel che si dice di lui e Balls].

Però, quale che fosse la motivazione, non ti fidavi abbastanza di lui per nominarlo cancelliere ombra la prima volta che ne hai avuto l’opportunità.
“Si fanno le scelte che si fanno. Adesso lavoriamo insieme da 18 mesi. All’epoca tutti dicevano che sarebbe stata una replica di Blair e Brown e tutta quella roba lì. Ma è un completo nonsense, onestamente. Ha dimostrato di avere ragione riguardo all’austerità”.
Alcuni sostengono che Balls sia un personaggio intimidatorio sia dal punto di vista fisico che da quello intellettuale, e che tu sia guardingo nei suoi confronti. È vero? Scuote la testa. “Per gli oppositori Tory lo è, e questo per noi rappresenta un jolly”.

Miliband riconosce che il modello del vecchio Labour di stabilire i destinatari dei servizi pubblici non possa essere recuperato. “C’è uno schema secondo cui si decidono diversi target a livello centralizzato e da lì si parte per far funzionare i servizi pubblici. È il modello Brown, leggermente esasperato. Il secondo modello recita: se non funziona, appaltalo. Dallo in outsourcing. Ma ha i suoi problemi di frammentazione. Prendi quel che sta facendo [Michael] Gove nell’istruzione. Lui è un grande accentratore, al momento. Sta cercando di gestire 1500 accademie attraverso il governo centrale. La risposta dei laburisti non potrà essere semplicemente il ribattere che tutti i poteri delle accademie debbano essere risucchiati un’altra volta dalle autorità locali. Il mio obiettivo è quello di garantire una maggiore autonomia a tutte le scuole – in termini di corso di studio, di modalità operative – ma allo stesso tempo dev’esserci un qualche coordinamento locale”.

Per quanto riguarda le nuove scuole libere, “Giudicheremo ciascuna sulla base di quello che fa. Ma il problema con le scuole libere è che togli a Tizio per dare a Caio, così ci sono ragazzi nel mio stesso collegio elettorale le cui scuole non verranno ristrutturate. I Tory e Gove non sembrano considerare le scuole uno strumento della comunità locale… Puntano solo ad avere scuole che spuntino dappertutto come supermercati e credono che quest’alchimia competitiva migliorerà il sistema dell’istruzione. Non condivido affatto questa posizione”.

Se i laburisti puntano a una minore redistribuzione a livello di governo, un loro obiettivo è invece predistribuire benessere tramite l’estensione del salario sufficiente per vivere e facendo in modo che più persone abbiano accesso al mondo del lavoro così da diminuire il peso a carico del welfare, migliorando la formazione e l’acquisizione di competenze, promuovendo la politica dell’industria e incoraggiando l’assunzione di responsabilità a ogni livello della gerarchia sociale. “La redistribuzione messa in atto dall’ultimo governo laburista faceva affidamento su introiti che il prossimo non avrà a disposizione”, intende sostenere Miliband nel suo intervento del 6 settembre. “L’opzione di limitarsi ad aumentare i crediti d’imposta come è stato fatto in passato per noi non sarà valida”.

Si potrebbe obiettare a Miliband il fatto che pur facendo ampio riferimento all’urgenza di una nuova politica economica, le sue parole non convincono affatto per quel che riguarda il tema della riforma del servizio pubblico. Analogamente, se davvero egli ha intenzione di riformare il capitalismo britannico così radicalmente come dice, di sicuro non potrà farlo attraverso la lotta di classe e la mera condanna di sinistra. Dovrà piuttosto stringere alleanze con gli altri gruppi della società civile, i verdi, i sindacati e soprattutto gli imprenditori.

Gli ho chiesto se i laburisti introdurranno leggi per costringere le aziende a pagare salari sufficienti per vivere. “Si può usare l’approvvigionamento governativo”, risponde. “Mi interessa molto. I consigli laburisti stanno iniziando a farlo. Ne diremo di più nelle prossime settimane, diremo in che modo i consigli laburisti stanno collaborando con noi e con London Citizens per iniziare a pagare un salario sufficiente per vivere. Si può fare molto a questo proposito”.

Una vecchia aspirazione liberale è quella di trasferire la pressione fiscale dal reddito guadagnato a quello non guadagnato, ovvero dai salari al patrimonio. In un’epoca in cui il capitale è così mobile e i veri ricchi così dediti all’evasione fiscale, in cui la plutocrazia internazionale prospera felicemente a Londra ignara delle lotte portate avanti dai poveri che la circondano e senza dare praticamente nessun contributo alla società, sicuramente uno dei compiti del laburismo è quello di considerare in maniera più approfondita l’ipotesi di tassare il patrimonio e i beni statici, ovvero quei beni che non si muovono, come la terra, le ville e i tralicci di telefonia mobile.

La sconcertante risposta di Miliband è che non andrà “a ruota libera sulla politica fiscale”. E non appoggia la recente proposta avanzata da Nick Clegg di una tassa patrimoniale una tantum. Durante la corsa per la leadership laburista nell’estate del 2010, intervistato da me, Miliband ha dichiarato che “non avrebbe mai potuto lavorare con Clegg”. Resta di questa posizione? “Non mi faccio tirare in questo gioco”, risponde. “Alle prossime elezioni voglio una maggioranza laburista. Ma ho sempre detto che la saggezza non è proprietà esclusiva di un partito, ecco perché ho fatto riferimento anche a Beveridge, Keynes…”

E Cable? “Non credo che Vince si metterebbe nella stessa categoria di Beveridge e Keynes. Forse Matthew Oakeshott [il leader dei Liberal Democratici, ndr]”. Ride. Che ci dici riguardo alla voce secondo cui Cable ti avrebbe inviato un messaggio di supporto dopo il tuo discorso della conferenza dell’altr’anno? “Non mi sembra che si trattasse di un messaggio poi così elogiativo. Ma prendiamo la questione di Murdoch o quella della riforma dei distretti elettorali. Se i liberaldemocratici sono della nostra stessa posizione è importante, lavoreremo con loro.

Quel che è accaduto loro è un vero danno per il Paese. Credo che abbiano fatto un errore terribile, tragico [a unirsi alla coalizione]. Mi ricordo di aver assistito ai negoziati per la coalizione, quelli falliti, e di aver detto loro “Ma vi rendete conto di cosa significa appoggiare il piano di deficit dei Tory?” Mi hanno guardato un po’ assenti. Non ci avevano pensato davvero fino in fondo”.

“Essere leader di un’opposizione senza speranza è un affare sconfortante”, scriveva Disraeli, “e c’è poca differenza quando la tua linea non è associata a una possibilità di potere futuro”. Miliband è consapevole del fatto che l’opinione pubblica britannica non prova attaccamento nei confronti del governo di coalizione e dei suoi ministri e che ha iniziato addirittura a metterne in dubbio le competenze di base, ma sa anche che non c’è particolare affetto nei confronti di nessun politico, fatta eccezione per l’anticonformista sindaco di Londra, Boris Johnson. Miliband potrebbe essere stato incoraggiato dal modo in cui la folla ha contestato George Osborne durante una cerimonia di premiazione delle Paralimpiadi la sera del 3 settembre. Al momento per lui l’opposizione non si sente né sconfortata né senza speranze. Al contrario, è affascinato dalla prospettiva di una futura presa di potere e di quel che ne potrebbe derivare.

“La verità, nella politica moderna, è che l’unico modo per poter restare convinti a lungo termine di aver fatto la cosa giusta è fare quel che si crede”, precisa. “Qual è la lezione fondamentale che ho appreso dal mio lavoro? Seguire l’istinto”.
È quello che ti ha tenuto su quando le cose andavano male?
“Justine, e insieme a lei il mio istinto. La mia famiglia è la cosa più importante della mia vita e quindi è sempre l’aspetto da cui ripartire quando si cade”.
Perché la politica può essere brutale, vero?

“Sì, ma credo che la cosa che più si impara sia essere… Zen, forse? Non so se Zen sia l’aggettivo giusto, ma di sicuro sono uno stoico. Sappiamo bene che non è una passeggiata… Ma sono un tipo ottimista. So bene che il giudizio popolare può pendere da una parte o dall’altra. Ma credo di dover solo continuare a fare ciò che ritengo giusto e a delineare la mia agenda. Io credo che sia l’agenda politica giusta per il Paese. La amplieremo e dettaglieremo nei mesi a venire”.

A parte Justine, chi sono i più stretti alleati di Miliband? Di chi si fida? In chi ha fiducia? “È insolito perché non credo che sia poi così intimo di nessuno”, commenta Neal Lawson di Compass, che discute regolarmente di politica con il leader laburista e il suo team. “È abbastanza vicino a Stewart [Lord Wood, che siede nel governo ombra in qualità di ministro senza portafoglio] e a Marc [Stears], ma non c’è nessun Mandelson, Campbell o Gould. Quel che ha è una grande fiducia in se stesso, oltre alla capacità di gestire persone e situazioni che gli è valsa la leadership. Ma è abbastanza? È un politico valido quanto lo abbiamo ritenuto e dobbiamo appoggiarlo, ma mi piacerebbe che mostrasse uno stile di leadership più coerente, strategico e a lungo termine.

Bisogna dargli credito per il modo in cui si è contrapposto a Murdoch e per tutta la teoria del capitalismo responsabile. Questo, insieme alla sconclusionatezza Tory, gli ha fatto guadagnare punti, non sta più solo vivendo alla giornata. Ma ha bisogno di creare un’organizzazione interna al partito, attraverso le unioni, nella società civile, delineando un’alleanza progressista di forze che gli garantiscano una maggiore spinta politica… In più, non sono sicuro che abbia una vera teoria del cambiamento politico”.

Che ce l’abbia o no, lo aspetta una grande opportunità. L’audacia e l’incrollabile fiducia in se stesso lo hanno portato lontano e quanti in passato lo calunniavano e ridicolizzavano sono stati costretti a fermarsi e a riflettere, addirittura a iniziare a stare a sentire quel che ha da dire. I liberalsocialisti disaffezionati del Partito Liberaldemocratico hanno cominciato a riallinearsi tra le fila dei laburisti. Miliband è riuscito a tenere insieme il suo partito quando molti si aspettavano che si frammentasse, malgrado la coalizione di forze nel partito e intorno ad esso resti fragile (prova ne è il modo in cui i sindacati e la sinistra si sono mobilitati contro lui e Balls a gennaio).

In virtù della sua capacità di gestire le persone, Miliband è pragmatico e flessibile. Ha un’ottima intelligenza pratica, o emotiva, così importante in un politico. E il suo pensiero si sta facendo sempre più eterodosso. Sta creando legami sorprendenti e si mantiene intellettualmente aperto, come ha dimostrato chiedendo a Jon Cruddas di guidare la policy review del partito.

Sul tema del welfare e dei contributi, insiste sul fatto che una qualche forma di contributo da parte dei beneficiari debba rimpiazzare quello che Liam Byrne, ex responsabile della policy review del Partito Laburista, ha chiamato in un controverso intervento “supporto non guadagnato”(gira voce che Byrne abbia ricevuto una “tirata d’orecchi” per essersi pronunciato sui mali della dipendenza dal welfare, ma quando glielo faccio notare Miliband deglutisce e replica di “avere sempre moltissimo tempo da dedicare a Liam”).

“Credo che abbiamo bisogno di una società in cui la gente dia il suo contributo”, riprende. “Si può costruire una società valida solo a partire da individui che si mostrino responsabili. È un principio importante ai vertici ma anche altrove. Chi si trova ai vertici però ha una responsabilità particolare perché contribuisce a definire l’etica di un Paese”.

Successivamente precisa: “La maggior parte della gente nel mondo degli affari sta facendo la cosa giusta. Ma ci sono anche alcuni che sbagliano e non smetterò mai di ribadirlo. Allo stesso tempo, credo sia importante che parliamo in ugual modo di chi riceve contributi”.
Miliband è consapevole della gravità della crisi e accetta la tesi gramsciana secondo cui ci troviamo scomodamente in bilico tra il vecchio ordine che sta morendo e il nuovo che fa fatica a nascere. Cosa accade nell’interregno? “Quel che è successo con i Tory è grave”, commenta Miliband. “Onestamente, è grave. C’è l’aspetto dell’incompetenza, quello del fallimento del loro piano e c’è anche il problema di chi rappresentano. L’ho visto nello sguardo di Cameron quando l’ho provocato dopo il Budget [in seguito all’annuncio dei tagli nella fascia più alta di imposta sul reddito]. Improvvisamente si stava chiedendo dentro di sé: “Perché l’ho fatto?”

Non gli piace che il milibandismo venga etichettato come un progetto a base statale: “La gente si è disaffezionata a un mercato fuori controllo ma di certo non apprezza neanche l’idea di uno Stato lontano”. Miliband parla di reciprocità, localismo, devolution e decentramento dei poteri. Intende investire nell’economia verde perché “oggi il futuro dell’economia è verde”. Per questo motivo, resta scettico riguardo alla costruzione di una terza pista a Heathrow. “Registriamo un consenso trasversale a tutti i partiti in merito alla necessità di ridurre dell’80 per cento entro il 2050 le nostre emissioni di carbonio. Cosa significa per la nostra aeronautica? Semplicemente che non ci si può espandere in maniera sconsiderata. La coalizione barcolla come un marinaio ubriaco sulla questione delle piste e degli aeroporti. Dov’è in tutto questo il dibattito sulla sostenibilità ambientale?”
Quel che è chiaro è che Miliband ha una sua direzione in testa, ma le sue idee restano tutt’altro che delineate. Ha l’istinto del cambiamento ma non un piano per attuarlo. La sua politica è in corso di ripensamento e ridefinizione. Tutto è in divenire, come dev’essere a metà mandato di un Parlamento che dura in carica cinque anni e dopo una pesante sconfitta elettorale. Al ritorno dalle vacanze, ha l’entusiasmo di un giovane preside, che vola sulle ali della propria ambizione, entusiasta dei libri che ha letto, pronto all’inizio di un nuovo anno scolastico.

Ed, che in passato era un rosso convinto, oggi sta iniziando a indossare i panni blu del conservatorismo fiscale (pardon, della responsabilità). Sta spingendo i principali pensatori del Blue Labour a fare cerchio intorno a lui: Cruddas, Stears, Jonathan Rutherford. Della vecchia banda manca solo Maurice Glasman, che in passato egli aveva osannato ma che forse è ancora in quarantena dopo l’attacco sferrato a gennaio allo stile di leadership di Miliband dalle pagine del New Statesman.

Ma è possibile che Ed sia tanto blu quanto rosso? È possibile, come si chiede O’Brien, che sia tanto pragmatico quanto radicale? Il paradosso è questo: Miliband è convinto di poter rifondare il capitalismo nell’esatto momento in cui non ci sono soldi da spendere, non attraverso la redistribuzione bensì attraverso la predistribuzione e l’approvvigionamento, non tramite il metodo usurato e comprovato del tassa-e-spendi su base statale ma tramite… cosa esattamente? Questa resta la Grande Incognita.
“Penso che questo sia il momento del centrosinistra”, conclude ottimisticamente mentre mi sto preparando ad andarmene. “Perché mai si dovrebbe pensare che sia il momento del centrodestra? Forse per la questione della responsabilità fiscale, ed è appunto questo il motivo per cui dobbiamo restare saldi su quel punto. A mio avviso è il momento del centrosinistra perché la gente crede che ci sia qualcosa di iniquo e ingiusto nella nostra società. Bisogna ridurre all’obbedienza gli interessi personali, bisogna cambiare il modo in cui funziona l’economia. È questa la nostra occasione”.

Miliband ci ha spiegato qual è la sua fede, in cosa crede con tutto se stesso. L’economia è il metodo, l’obiettivo è cambiare la cultura, addirittura l’anima di una nazione. Ma sarà in grado di riformare il capitalismo nel suo Paese mentre ovunque prevale la globalizzazione? E ancora, quel che è meglio e definitivo chiedersi, saranno abbastanza quelli che lo seguiranno?

© New Statesman

 

(Traduzione di Chiara Rizzo)

 

  1. Let’s hope the present incumbents’ (the coalition) toxic influence on the country doesn’t have much longer to run. A new (not New) Labour party is needed to regenerate the manufacturing industry as well as make the banking industry more accountable.

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