Rouhani e Raisi
in una sfida all’ultimo respiro

Da Reset Dialogues on Civilizations

La folla canta slogan al ritmo di canzoni pop, giovani con bandane viola e verdi sventolano cartelli, noti artisti si alternano al microfono con appelli al voto: è un comizio elettorale di Hasan Rouhani, presidente della Repubblica islamica dell’Iran, in un campo sportivo di Tehran. Scene simili si ripetono in tutto il paese in diversi contesti; folle altrettanto numerose si raccolgono per il suo diretto avversario. Venerdì 19 maggio gli iraniani sono chiamati alle urne per rieleggere il presidente della repubblica, oltre che per rinnovare i consigli municipali di alcune grandi città (primo tra tutti quello di Tehran, metropoli di oltre 15 milioni di abitanti circondata da un’impressionante estensione di suburbi). La campagna elettorale è intensa, anche se breve (ufficialmente dura venti giorni): giocata sui social network ma anche sui volantinaggi vecchio stile, e su decine di comizi che attirano grandi folle in tutto il paese.

Sono elezioni importanti. È vero che nell’architettura istituzionale della Repubblica Islamica il presidente della repubblica ha poteri limitati; è pure vero che i candidati devono passare il vaglio di un organismo come il Consiglio dei Guardiani, consesso di teologi che ha un potere di veto al di fuori da ogni scrutinio pubblico. Eppure sarebbe un errore pensare che il voto popolare in Iran non conti: lo scontro politico è reale, le urne riservano spesso sorprese. La campagna in corso lo dimostra.

Colpi di scena

La corsa elettorale è cominciata con sei candidature, ma la vera battaglia è quella che oppone il presidente uscente Hasan Rouhani, 68 anni, al principale candidato conservatore, Ebrahim Raisi, 57enne. Entrambi esponenti del clero, entrambi interni al sistema della Repubblica islamica, rappresentano due ipotesi politiche opposte.

Da un lato c’è il moderato che quattro anni fa ha acceso grandi speranze negli iraniani promettendo di far uscire il paese dall’isolamento, chiudere la controversia sul programma nucleare, liberare l’Iran dalle sanzioni internazionali che ne soffocavano l’economia, ristabilire un clima di libertà sociali: quanto abbia realizzato di tutto ciò è tema di campagna elettorale, ma resta l’opzione delle aperture e della diplomazia.

Dall’altro c’è un hojjatol-eslām (figura superiore al mullah, inferiore all’ayatollah) ultraconservatore, fedele alleato della Guida suprema che l’anno scorso lo ha promosso “custode” della Astan Quds Razavi, la più ricca fondazione religiosa dell’intero mondo islamico (responsabile anche del santuario dell’Imam Reza a Mashad, cioè uno dei più importanti luoghi di culto sciiti). Raisi, 57 anni, è stato procuratore generale di Tehran e ha presieduto il comitato speciale che nel 1988 ha ordinato esecuzioni di massa di detenuti politici. La sua candidatura è espressione delle correnti più oltranziste del sistema iraniano, quelle a volte definite “principalist”, un altro modo per dire “fondamentalisti”.

Altri candidati sono scesi in campo. Tra i conservatori Mohammad Baqr Qalibaf, cinquantenne sindaco di Tehran, ex comandante di polizia e ufficiale delle Guardie della Rivoluzione. Due volte sconfitto alle presidenziali, e circondato da polemiche per lo spazio accordato ai palazzinari nella sua gestione di Tehran (con annessi scandali e corruzione), Qalibaf non aveva molte chances: il suo ruolo era piuttosto attirare l’elettorato conservatore “moderno”, urbano, quello che frequenta i shopping mall della capitale. Lunedì si è ritirato, facendo appello a votare per Raisi.

Sul fronte opposto ha avuto un ruolo di spicco Eshaq Jahangiri, esponente riformista: oggi primo vicepresidente nel governo Rouhani, è stato ministro nell’amministrazione di Mohammad Khatami, il presidente che tra il 1998 e il 2004 ha avviato la prima apertura politica e sociale nell’Iran post-rivoluzione. Nei dibattiti tv tra i candidati Jehangiri è stato un oratore convincente anche per gli elettori più disincantati e ha difeso il bilancio del suo governo. Martedì anche lui si è fatto da parte, come previsto, chiedendo di votare Rouhani.

La libertà e il lavoro

Il moderato e l’ultraconservatore: tra questi due candidati potranno scegliere i 56 milioni di elettori iraniani, su una popolazione che sfiora gli 80 milioni di persone di cui due terzi sotto i 35 anni. Anche se forse l’avversario più temibile, per il presidente Rouhani, sarà il non voto.

Su cosa si gioca la campagna elettorale? “Dipende a quale strato sociale guardi”, osserva l’economista e commentatore politico Saeed Leylaz, che incontro a Tehran: “Mantenere un clima di libertà e apertura sociale è importante, soprattutto per la popolazione urbana. Ma la questione dirimente per tutti è l’economia, e su questo vediamo lo scontro politico più forte”.

Le libertà contano. L’amministrazione Rouhani ha portato un clima di relativa apertura nella società iraniana: relativa, perché la magistratura o la tv di stato e le forze di sicurezza restano poteri autonomi e roccaforti conservatrici. Molti critici e dissidenti restano in galera. I diritti di minoranze religiose come i Ba’hai sono sotto attacco. La censura non è mai venuta meno, né l’oscuramento di siti internet. Molti però danno credito al presidente e al suo governo di essersi battuti per contrastare la repressione, garantire alcune libertà, denunciare gli arresti, alleggerire la pressione sui media e sulla cultura. Non per nulla cineasti come Asghar Farhadi (l’autore di “Una separazione”) hanno fatto appello a votare per il presidente uscente.

Rouhani dunque ha l’appoggio di un ampio spettro di società civile, dei moderati, delle correnti riformiste e perfino di molti conservatori, spaventati dai toni estremi dei suoi avversari. Un sostegno importante è arrivato dall’ex presidente Mohammad Khatami, colui che ha avviato le prime aperture politiche e sociali e continua a godere di grande ascolto tra gli iraniani: “Voteremo Rouhani per la libertà d’espressione, …la certezza del diritto, i diritti umani e per la giustizia economica e sociale”, ha detto l’ex presidente in un video diffuso lunedì sui social media.

Il messaggio di Khatami ha avuto ampia diffusione, anche se non è stato neppure citato dalla stampa e dalla tv ufficiale. Infatti per ordine della magistratura, che ha una sezione speciale per i media, da alcuni anni è vietato perfino mostrare l’immagine dell’ex presidente riformista. Paradosso iraniano: la tv di stato ha censurato perfino il video ufficiale della campagna di Rouhani, cioè del presidente in carica: e i fotogrammi tagliati sono proprio quelli in cui si vede il volto di Khatami sullo schermo di un telefonino. Divieto che il presidente Rouhani ha denunciato: “Su che base impedite che siano pubblicate le foto dei nostri dirigenti? Quale legge vi autorizza? Gli iraniani vogliono che le restrizioni abbiano fine”, ha detto pochi giorni fa durante un comizio.

Altri slogan risuonano negli incontri elettorali del presidente uscente: “no alla polizia morale”, sì alla “parità di diritti”. La settimana scorsa un centinaio di note femministe e attiviste sociali ha firmato una dichiarazione per chiedere al prossimo presidente di difendere i diritti delle donne, riformare le leggi discriminatorie (ad esempio quelle del diritto di famiglia), garantire l’accesso a spazi pubblici come gli stadi, mettere più donne nei posti di governo. Le firmatarie di simili appelli non si attendono molto dai conservatori: di fatto si rivolgevano proprio a Rouhani, criticato per aver parlato ben poco di questi temi nella sua campagna, ma pur sempre l’unico interlocutore possibile.

“Non si tratta di scegliere il meno peggio”, commenta una nota sociologa femminista, incontrata la settimana scorsa a margine della Fiera del Libro di Tehran: “Rouhani è la migliore opzione che abbiamo, l’unica garanzia di mantenere qualche apertura e non ripiombare nell’isolamento e nella repressione che abbiamo conosciuto negli anni di Ahmadi Nejad. Il suo vero problema è dare lavoro ai giovani”.

Una nazione impoverita

Già, gli iraniani vivono tempi duri. Le classi medie sono impoverite: “Il potere d’acquisto è sceso del 23 per cento rispetto al 2010”, fa notare Saeed Leylaz, “e se guardi gli impiegati pubblici o gli insegnanti è addirittura crollato. I generi di prima necessità sono rincarati rispetto a dieci anni fa e i consumi sono scesi”. L’amministrazione Rouhani ha fatto del suo meglio, continua l’economista, “è riuscita a fermare l’inflazione intorno al 10 per cento, dopo che negli ultimi due anni di Ahmadi Nejad aveva superato il 40, ma questo non basta a recuperare il potere d’acquisto precedente”. Inoltre la disoccupazione è alta: si attesta sul 13 per cento della forza lavoro nel suo insieme, ma per i giovani sale al 24 per cento e ha raggiunto anche il 30. “Negli ultimi quattro anni si calcola un deficit di 3 milioni di posti di lavoro”, spiega Leylaz, “e altri dieci milioni di giovani entreranno nel mercato del lavoro nei prossimi 5 anni: nel migliore dei casi 4 milioni troveranno lavoro, ma gli altri?”.

“La disoccupazione colpisce in modo sproporzionato i giovani e le donne anche perché la partecipazione delle donne al mercato del lavoro continua a salire” osserva Ali-Reza Mahjub, deputato riformista che incontro nel “transatlantico” del Majlis, il parlamento iraniano: eletto nel suburbio operaio di Eslamshahr alle porte di Tehran, Mahjub è uno storico leader della “Casa del lavoratore”, una delle istituzioni rivoluzionarie (cioè governativa) poi diventata una sorta di corrente laburista della “sinistra islamica”. “Si crea un po’ di lavoro nei servizi, ma l’industria perde più posti di quanti ne crei”, dice. Anche il deputato di Eslamshahr difende il governo Rouhani (il cui ministro del lavoro e del welfare appartiene proprio alla corrente laburista): ha esteso la copertura sanitaria, ha ottimizzato i sussidi e le varie misure di redistribuzione. “Ma per dare ai cittadini una vita normale non basta il welfare, serve il lavoro: altrimenti andremo al disastro sociale”.

Oggi i lavoratori iraniani vivono in povertà. Paradossale, dopo 38 anni da una rivoluzione che si voleva dalla parte dei “diseredati”.

La situazione è critica e lo riconosce anche la Guida suprema, che ha dedicato all’economia gran parte del suo discorso di Nowroz (il capodanno persiano, 21 marzo). Ha parlato di disoccupazione, mancanza di investimenti: “Senza un’economia forte non raggiungeremo né la dignità né la sicurezza”, ha detto l’ayatollah Khamenei.

“Per risolvere i mali dell’economia però bisogna affrontare i nodi politici”, dice Leylaz. Riassume: l’Iran soffre di crollo degli investimenti, corruzione, clientelismo. Il fatto è che l’economia iraniana è dominata da fondazioni religiose o legate alle Guardie della rivoluzione, che sono un potere allo stesso tempo militare, politico ed economico. Quando si dice che il settore pubblico fa tra il 65 e il 70 per cento dell’economia iraniana, spiega l’economista, bisogna sapere che “le aziende di stato sono circa un quarto del totale. Il resto è questo apparato semi-statale”, che costituisce un sistema di potere a sé, favorito dalla burocrazia, dalle normative, dalle banche.

Nel suo discorso di Nowroz, la Guida suprema citava tra i mali dell’economia anche il contrabbando: si stima che 15 miliardi di dollari di merci ogni anno siano importate per canali ufficiosi da “gang criminali”, diceva (senza dire però quello che in Iran è sulla bocca di tutti: il contrabbando passa per i porti, che sono sotto il controllo Guardie della rivoluzione, e difficilmente questo potrebbe avvenire senza qualche complicità).

È ben questa l’eredità dell’amministrazione Ahmadi Nejad. In quegli anni, osserva Leylaz, l’Iran ha beneficiato di un alto reddito da petrolio (gli idrocarburi sono la prima fonte di entrate dello stato), ma ha investito ben poco nel sistema produttivo e l’economia è cresciuta di un asfittico 2,2 per cento. Invece sono cresciute rendite speculative, che non hanno generato investimenti. Ricchezze che “finiscono piuttosto in banche estere, in oro, o in spese ostentatorie”.

Nel 2016 l’economia iraniana ha ripreso a crescere (6,4 per cento) e le stime della Banca mondiale per quest’anno superano il 7 per cento, in gran parte grazie alla ripresa dell’export di petrolio. Ma per consolidare una ripresa Rouhani ha bisogno di tempo.

Lo avrà? In Iran è in corso uno scontro di potere che ha per oggetto il controllo del sistema economico: anche questo oggi precipita nelle elezioni presidenziali. Nel suo primo mandato il governo Rouhani ha bloccato alcuni progetti attribuiti senza appalto a società delle Guardie rivoluzionarie. Giorni fa il presidente tuonava: “Perché le fondazioni non devono pagare tasse, come ogni altra azienda?” Lo scontro è durissimo, le previsioni incerte.

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