Come e perché si è interrotta
la marcia trionfale dei diritti

Proponiamo di seguito l’intervento di Giuliano Amato che ha aperto, il 17 aprile scorso, il ciclo di incontri “Per una cittadinanza inclusiva“, svoltosi a Milano presso la Fondazione Giangiacomo Feltrinelli.

Desidero innanzitutto ringraziare gli organizzatori per avermi affidato la responsabilità di aprire questo ciclo di incontri sulla cittadinanza, le cui sacrosante finalità corrispondono perfettamente agli obiettivi di Reset Dialogues on Civilizations, l’associazione volta a promuovere il dialogo tra le culture alla cui costruzione ho partecipato anch’io personalmente negli ultimi anni.

Non è inutile ricordare che in tempi lontanissimi il genere umano pare contasse appena poche decine di esemplari che vivevano nell’Africa centrale, nelle zone dell’odierno Kenya. Per ragioni tuttora ignote, i nostri antenati decisero a un certo punto di abbandonare quelle terre, spostandosi verso nord, per popolare l’Asia e l’Europa e raggiungere il continente americano attraverso l’Alaska. Quando iniziarono il loro cammino erano tutti uguali. Solo in seguito andarono sviluppandosi differenti modi di vivere, che rispondevano anche ai differenti contesti climatici e ambientali che di volta in volta incontravano. Dal nomadismo si passò alle comunità stanziali; si formarono tribù, popoli e comunità sempre più diverse l’una dall’altra; i modi di scambiarsi segnali fonetici si moltiplicarono in lingue e dialetti. Il modo di leggere la natura, i cieli, le divinità andò a sua volta differenziandosi, dando vita alle differenti religioni. Anche i tratti somatici di differenziarono.

Questa non è certamente l’unica historia sullo sviluppo dell’umanità. Al suo centro è però qualcosa di fondamentale importanza, che non è mai stato messo in dubbio, neppure nel periodo più sciagurato della storia della scienza, nella prima parte del secolo XX, quando prese piede l’idea che gli esseri umani si suddividessero in razze, con caratteristiche fisiche e mentali diverse. Neppure la teoria razzista – che, per inciso, ha avuto le sue cattedre nelle università italiane fino agli anni Cinquanta – è riuscita infatti a dimostrare che le differenze tra gli esseri umani siano riconducibili ad altro che a fattori esterni alla natura umana come tale, quali le circostanze climatiche o il semplice corso degli eventi. Questo è un memento che dovremmo sempre ripetere a noi stessi ogniqualvolta ci troviamo alle prese con persone provenienti da altre parti del mondo. Sono indiscutibilmente persone diverse da noi, per mille ragioni, ma si tratta comunque di ragioni che è stata la storia a conformare e che, se gli esseri umani lo vogliono, la storia è in condizioni di revocare o di rendere ininfluenti ai fini della convivenza.

La differenziazione cui porta la storia è spesso molto capillare. Anche nelle aree più omogenee dal punto di vista delle caratteristiche degli esseri umani, si sono originate numerose enclave con forme di governo, attribuzioni di diritti e obblighi, forme di regolamentazione della vita individuale e collettiva affatto peculiari, del tutto diverse da quelle degli altri, persino da quelle del villaggio accanto, dove, tra l’altro, si parla spesso un dialetto diverso. Questa differenziazione è particolarmente evidente in Europa. Ha quindi ragione Gian Antonio Stella quando, con una particolare sensibilità per i luoghi comuni della sua regione, sostiene in modo dissacrante che il veneto (in quanto lingua) in realtà non esiste perché ci sono almeno 28 diversi dialetti: a Vicenza non si parla lo stesso veneto che si parla a Padova, a Verona se ne parla uno ancora diverso e così via. Questo è il frutto del progressivo consolidarsi di quella antica frammentazione che si era generata durante il medioevo, quando il tessuto connettivo del latino aveva perso quota.

Data questa estrema differenziazione, l’unificazione dello stato nazione è un’operazione di portata storica formidabile. Comporta infatti il riconoscimento di un unico status, degli stessi diritti e degli stessi obblighi a chiunque viva all’interno di un territorio ben più vasto di quello delle comunità preesistenti, indipendentemente dalla parte specifica di esso in cui si trova. Questa operazione di equalizzazione e inclusione ha avuto luogo per esempio in Francia, e poi in Germania e in Italia. Pensate a un paese come l’Italia, dove un terùn è ancora oggi un terùn, anche se è venuto al nord, ha generato figli e nipoti, in cui neanche dall’accento ormai si potrebbe dire, a volte dai cognomi, che hanno origini meridionali. E quindi il processo di integrazione è avvenuto attraverso le generazioni.

Con la formazione degli stati nazionali la cittadinanza è diventata fortemente inclusiva. Al contempo però si è generato un processo opposto. Ciascuno stato è diverso dall’altro, ogni comune identità nazionale esclude le altre: se sei francese non sei tedesco, se sei tedesco non sei francese. Viene così a ripresentarsi quella distinzione tra i cittadini e gli altri, già tipica dell’antica Grecia. La cittadinanza è inclusiva per tutti coloro che ci rientrano, ma è esclusiva per coloro che non ci rientrano. Fino a quando ciascuno sta nel proprio spazio e i movimenti sono relativamente limitati, ciò non genera problemi particolari. Ma quando le migrazioni per ragioni economiche si intensificano, la differenza tra cittadini e altri diventa anche una differenza nei diritti e negli obblighi. Lo sanno bene gli italiani che si sono trovati in Svizzera, in Belgio, in Germania per motivi di lavoro. Questi lavoratori immigrati sono rimasti praticamente esclusi dal riconoscimento dei diritti sociali, diritti che proprio in quel periodo si andava estendendo per i cittadini. Cominciava allora ad emergere un fenomeno divenuto poi gigantesco nel nostro tempo: crescendo la presenza di “altri” al loro interno, le comunità si devono confrontare con le pretese che questi altri hanno di condividere diritti che, in principio, stanno all’interno della cittadinanza e che quindi, in principio, non spettano ai non cittadini.

Occorre tuttavia osservare che gli stati non sono tutti uguali fra loro. Gli stati nazione europei sono tendenzialmente monoetnici e monoreligiosi. Ciò è legato alla loro storia: sono sorti dopo Westfalia, quindi secondo la regola cuius regio eius religio: l’inclusione cui hanno dato luogo riguardava sostanzialmente solo coloro che condividevano alcune caratteristiche fondamentali. Coloro che invece non le condividevano e rifiutavano questa logica, se ne sono andati: si tratta dei famosi pellegrini del Mayflower, alla ricerca di un paese dove chiunque fosse libero di avere una religione e di esercitarne tutti i diritti senza che lo stato potesse interferire. Costoro hanno dato vita a nuove formazioni statuali, senza, ab origine, una connotazione omogenea, anzi fatte appunto interamente da diversi.

Per spiegare agli studenti dei miei corsi sull’immigrazione queste differenze nei caratteri dello stato, ricorrevo spesso a un’analogia con l’albero. Gli stati nazionali europei hanno tendenzialmente un tronco unitario; l’inserimento di rami provenienti da altri alberi provoca uno scossone nel suo sviluppo e si presenta come un innesto. Paesi come gli Stati Uniti e il Canada sono invece interamente costituiti da rami provenienti da altri alberi, rami che si raccolgono e intrecciano fino a formare un tronco molto più flessibile di quanto non sia quello dei paesi europei.

Messi in luce i benefici della cittadinanza statale, per la parte in cui essa è stata equalizzante ed inclusiva, non si può non passare ai guai derivanti dalla statalizzazione delle differenze sono segnati da tutto il sangue di cui gli stati europei si sono resi responsabili nel ventesimo secolo. È proprio questo sangue ad aver generato la spinta verso l’Europa. L’architettura dell’Europa integrata realizza un sogno, quello dei diversi che stanno insieme. I diversi chiamati a stare insieme sono in primo luogo coloro che più a lungo si sono fronteggiati. Proprio per questo l’Europa integrata è principalmente il sogno dei francesi e dei tedeschi – al riguardo basta leggere il lavoro di Heinrich Mann Europe, État suprême pubblicato dalla Fondazione Giangiacomo Feltrinelli in occasione di questo incontro. Creare compatibilità tra di noi, creare una cittadinanza comune tra gli europei, è un obiettivo estremamente importante, perché se siamo cittadini della stessa entità istituzionale non ci faremo più la guerra a vicenda. Possiamo litigare, possiamo avere qualche escandescenza, ma la guerra è a priori esclusa – come è effettivamente accaduto.

La cittadinanza europea ha un significato non soltanto per governi e regimi, ma anche per i singoli cittadini. Mettersi insieme significa avere gli stessi diritti in quanto europei. In una fase iniziale l’espandersi della cittadinanza europea, come fonte di diritti comuni agli europei, ha avuto l’incedere di una marcia trionfale. È un percorso che i giuristi amano narrare, perché è la storia di casi giudiziari attraverso i quali la Corte di giustizia europea ha contribuito ad ampliare i diritti di ciascuno. E di sicuro i giuristi, ma forse non solo loro, si eccitano quando vedono una Corte di giustizia che, da un trattato che regola i rapporti fra stati, come in fondo era la Comunità economica europea del 1957, estrae, non solo diritti e obblighi degli stati, ma anche diritti dei cittadini, che essi possono far valere proprio nei confronti degli stati membri quando questi non rispettano obblighi assunti nelle sedi comuni.

Il primo caso è quello di David Van Gend en Loos. Importatore/esportatore, tipica professione da olandese, Van Gend en Loos si era trovato a dover pagare una tassa sulle esportazioni che contravveniva l’abolizione dei balzelli stabilita in sede europea. Ricorse quindi alla Corte di giustizia europea, la quale affermò che il Trattato di Roma era fonte non solo di diritti e obblighi degli Stati, ma anche di diritti che i cittadini stessi possono far valere nei confronti degli Stati, in un caso come questo in cui risultavano violati gli obblighi comunitari. Stabilì così che, sulla base del diritto riconosciuto in sede di trattati europei, l’Olanda doveva abolire la tassa in questione. In seguito la Germania ha iniziato a richiamare l’attenzione su altri diritti fondamentali, ben più importanti, e, in risposta, la Corte di Giustizia Europea ha dichiarato di proteggere, a beneficio di tutti gli europei, i diritti loro conferiti dalle costituzioni nazionali, laddove questi venissero violati. Come diritti comuni la Corte di Giustizia riconosceva quindi quelli appartenenti alle tradizioni costituzionali di tutti gli stati membri.

La ricostruzione di diritti così attuata faceva una media degli ordinamenti nazionali. Il potenziale che andò progressivamente acquisendo questa operazione diventa evidente nel caso Tanja Kreil, una signora tedesca di professione elettrotecnico. Vedendosi respingere la propria domanda di svolgere servizio di manutenzione delle apparecchiature elettroniche all’interno delle forze armate tedesche, perché allora in Germania le donne non erano ammesse nell’esercito, la signora Kreil si rivolse nel 2000 alla Corte di giustizia europea. Questa le riconobbe il diritto di essere assunta dall’esercito, in virtù del principio inderogabile dell’eguaglianza di genere sancito in sede europea. La Germania si trovò così costretta a modificare la sua costituzione, permettendo anche alle donne l’ingresso nelle forze armate.

L’ultima tappa di questo percorso è stata la definizione di un catalogo dei diritti emersi attraverso le varie vicende giudiziarie. Nasce così la carta dei diritti del cittadino europeo che, col Trattato di Lisbona, acquista la stessa forza giuridica dei trattati, cioè il massimo livello di forza giuridica. Questa carta include anche diritti che stavano a cuore ad uno dei suoi co-autori, Stefano Rodotà, ma che erano del tutto nuovi rispetto alle tradizioni nazionali. In questo modo la cittadinanza prende corpo. Al contempo riguarda tutti: ci rende tutti uguali, elimina le differenze fra di noi o, meglio, le rende irrilevanti. Perché di fatto le differenze rimangono: un francese non accetterà mai di essere tedesco, un italiano non sarai mai disposto a farsi offendere da un francese. Ma, nelle cose che contano, diventiamo tutti uguali.
A un certo punto, però, questa marcia trionfale va a sbattere contro due ostacoli che a tutt’oggi rappresentano ancora problemi da risolvere.

In primo luogo, non essendo l’Europa uno “Stato” bensì una “Unione di Stati” più o meno integrata, la cittadinanza europea presuppone le cittadinanze nazionali e si aggiunge ad esse. I diritti del cittadino europeo presuppongono quindi che costui sia già cittadino di uno degli stati europei. E se non lo è? In una fase di intense immigrazioni, se i criteri che i singoli stati membri adottano per conferire la cittadinanza sono diversi, può capitare che persone in analoga condizione ma insediatisi nell’uno o nell’altro paese si trovino in una condizione totalmente diversa. L’Irlanda, per una tradizione storica, ha esportato negli Stati Uniti l’idea che chi nasce qui è cittadino di qui: si diventa cittadino irlandese se si è figlio di un genitore che ha messo su famiglia in Irlanda, e da quel momento in poi si beneficia anche dei diritti di cittadinanza europea. Diversa è la situazione per chi arriva in Italia. L’Italia conferisce la cittadinanza dopo molti anni di permanenza, attraverso procedure piuttosto lunghe; può capitare allora che una persona nata in Italia da genitori non italiani rimanga a lungo sprovvista dei diritti del cittadino italiano e quindi anche di quelli del cittadino europeo. Questo è il primo problema in cui la storia della cittadinanza europea è andata a sbattere.

Il secondo problema riguarda tanto le persone che si sono insediate in Europa senza ottenere la cittadinanza quanto i cittadini dei diversi stati europei. E’ il problema dei diritti sociali. Questi costano. Come tali sono considerati diritti di coloro che hanno contribuito e che stanno contribuendo con il loro lavoro e i loro soldi a mantenere le istituzioni che li erogano. Mentre i diritti civili prevedono che altri non interferiscano con me – ho diritto a pensare, dire o scrivere quel che mi pare, senza che altri possano sollevare pretese al riguardo – quelli sociali sono diritti ad ottenere prestazioni, in genere pubbliche, a volte anche del datore di lavoro. Sono, va ribadito, diritti costosi: ho, per esempio, diritto a essere mantenuto nel periodo successivo a un incidente sul lavoro, mentre mi sto riabilitando; ho diritto alla pensione quando esco dal mondo lavorativo; ho diritto all’assistenza sanitaria, ecc. L’estensione della democrazia è avvenuta proprio attraverso il riconoscimento dei diritti sociali, consentendo cioè a coloro che non avevano i soldi per avere un’istruzione, una vecchiaia, eccetera di avere comunque dei godimenti. Ciò ha richiesto tra l’altro un’organizzazione di tipo mutualistico: si contribuisce a e poi si usufruisce di. Data questa impostazione, sorgono ora nuove questioni. Cosa vogliono questi italiani che vengono a curarsi in Belgio o in Francia? Li abbiamo pagati noi i servizi. E loro? Vengono e ne usufruiscono a nostre spese? E ancora: cosa vogliono questi senegalesi che non sono neanche europei?

I due problemi appena individuati si intrecciano tra loro, creando grossi ostacoli. È attorno a tali questioni che la propensione all’esclusione finisce per prevalere sulla propensione all’inclusione.

L’UE ha attivato diversi strumenti per far prevalere l’inclusione. Il primo è, di nuovo e non a caso, la giustizia. Sia le corti europee sia le stesse corti nazionali hanno tendenzialmente fatto valere le ragione dell’inclusione, avvalendosi di più argomenti, tratti dalla evoluzione culturale e giuridica della nostra civiltà.

Occorre a questo punto fare una precisazione importante. I diritti – come si diceva – si sono venuti dapprima costruendo attorno alla cittadinanza; ciò vale anche per la cittadinanza europea che conferisce sì dei diritti, ma da ultimo è a sua volta derivata della cittadinanza nazionale. Nel frattempo, però, le stesse carte costituzionali che conferiscono diritti sono venute cambiando in ragione di quello che, nel gergo dei giuristi, si chiama principio personalistico. Buona parte dei diritti che inizialmente erano diritti del cittadino sono diventati così diritti della persona. Al riguardo, la carta dei diritti europei ha creato un’asimmetria inesorabile nell’assetto del nostro sistema europeo, perché – vi invito a leggerla – conferisce all’incirca un 45-50 diritti nuovi, di cui appena tre sono conferiti ai cittadini. Tutti gli altri sono conferiti a chiunque. Non è più conforme alla nostra civiltà dire che i cittadini hanno diritto di esercitare liberamente i riti del loro culto. Si potrebbe infatti obiettare: i non cittadini no? Il che non è pensabile. Ci siamo pertanto trovati di fronte ad una contraddizione della cittadinanza intesa come “diritto di avere diritti”, perché il diritto di avere diritti comincia ad averlo anche il non cittadino. I diritti escono dal recinto della cittadinanza ed entrano nel più grande, anzi sconfinato spazio dell’umanità. Ma proprio in ragione di ciò, i problemi che vi indicavo si sono ulteriormente aggravati.

Le corti cercano in ogni modo di contrastare gli esiti nefandi di questa contraddizione. La corte costituzionale italiana afferma per esempio che anche colui che in molti considerano il reietto, privo di diritti, l’immigrato clandestino, venuto da lontano e che lontano se deve tornare perché non ha nessun diritto di stare qui, anche costui, se si trova qui malato, ha diritto ad essere curato, ha diritto al nucleo essenziale dell’assistenza sanitaria, la quale risponde alla tutela dei suoi bisogni di vita. Qualunque donna abbia le doglie, se corre in qualunque ospedale, ottiene tutta l’assistenza al parto di cui ha bisogno senza che debba dire chi è, da dove viene e quali sono i suoi documenti. Quando qualcuno tentò di introdurre la norma che il medico, essendo un pubblico ufficiale, è tenuto a riferire chi ha curato, tale norma è stata dichiarata incostituzionale perché lesiva di un diritto fondamentale della persona.

La Corte di giustizia è arrivata a riconoscere diritti di cittadinanza anche in altre situazioni. Famoso è il caso Zambrano del 2011. Un colombiano venuto con la famiglia in Europa per sfuggire al caos gangsteristico che imperava allora nel suo paese, si insediò in Belgio. Lì gli nacque un figlio. Il padre avrebbe potuto farlo registrare come cittadino colombiano presso le autorità colombiane, cosa che però non fece, contando sul fatto che la legge belga prescrive che un bambino nato in Belgio, ove rischiasse di rimanere apolide, perché non registrato come cittadino di altri paesi, ha diritto ad ottenere la cittadinanza belga. Avendo così ottenuto per il figlio la cittadinanza belga, il padre chiese di avere almeno un permesso di soggiorno di lunga durata, facendo valere il fatto che non poteva lasciare un cittadino belga senza genitore. Un italiano avrebbe senza dubbio detto: “’cca nisciun’ è fess”, perché Zambrano si era chiaramente comportato in modo da creare una tale situazione giuridica a proprio vantaggio. Ma la Corte di giustizia europea statuì che, nonostante quel che aveva fatto il padre, un cittadino belga non può essere lasciato senza genitori, perché un bambino ha diritto ad avere i genitori. Le autorità belghe non si opposero, ritenendo di dover comunque osservare i diritti. Ma una settimana dopo il Belgio cambiava le sue leggi sulla cittadinanza, inserendo una clausola che, per il futuro, avrebbe impedito il ripetersi di simili situazioni.

Questo è il punto al quale siamo oggi. Gli Stati dai quali dipende il riconoscimento della cittadinanza nazionale, dalla quale dipende a sua volta la cittadinanza europea, cominciano a stringere i loro bulloni. Come tutti sanno l’Italia ha sempre dato pochissimo spazio allo ius soli e uno spazio enorme allo ius sanguinis – in sotanza, sei cittadino italiano se sei figlio di italiani. Ma in questo l’Italia non è più un eccezione. La stessa Irlanda, la madre dello ius soli, lo sta accoppiando con un po’ di ius sanguinis. Così, a partire dalla metà degli ani 2000, i requisiti per diventare cittadini dei paesi europei sono diventati sempre più stretti: test linguistici, test sulla conoscenza della cultura della società in cui si entra, ecc. Tutto quello che le nostre nonne e bisnonne andate in America hanno imparato standoci, va imparato prima. Dal mio punto di vista di giurista, questa è l’ennesima riprova della tensione non nuova tra, da un lato, le istituzioni rappresentative, sensibili per definizione e per istituzionale vocazione agli umori delle maggioranze, e dall’altro le corti, istituzioni non maggioritarie e che è giusto rimangano non maggioritarie, indipendenti dalla politica, più sensibili all’assetto dei principi e delle regole che non agli umori. Una maggioranza parlamentare può decidere di certe vicende ignorando del tutto la carta dei diritti; una corte no, si basa sui diritti non sugli umori. Come ricomporre questi due mondi?

Le diversità non si accettano con facilità se non c’è un clima, creato anche dalle istituzioni, che aiuta a vivere insieme e a non farsi bloccare dal diverso solo perché è diverso. In sede europea si sono elaborati addirittura manuali di comportamento per i condomìni e per i parchi pubblici in modo da migliorare la convivenza. L’incontro con la differenza è segnato da dinamiche note, già messe in luce, quando ero io Ministro dell’interno, da una ricerca fatta allora da Mario Abis. “Arrivano da altri paesi e fanno un uso della cipolla e dell’aglio molto superiore a quello a cui sono abituato. Si diffondono nel condominio odori insopportabili. Ma tornino al loro paese.” E’ capitato spesso di trovarsi davanti una signora che dice “io non esco più perché sono anziana. Sull’angolo c’è quel gruppo di ragazzi che parlano una lingua che non capisco. Io ho paura.” Mancanza di conoscenza del diverso o intolleranza sono spesso alla base di reazione negative. Spesso si ignora come stanno realmente le cose. Il giovane immigrato che arriva è esattamente nella condizione in cui si trovava l’italiano che ha dato vita al miracolo economico: è giovane, lavora, paga i contributi, si ammala poco e verrà a fruire del sistema sociale tra molti anni. E’ così che abbiamo fatto l’Italia del dopoguerra e la stiamo sfasciando ora perché abbiamo rinunciato a essere giovani. Eccoci qui, noi tutti vecchi che abbiamo smesso di contribuire e costiamo l’ira di dio di assistenza sanitaria, pensione ed altro: a ben vedere siamo noi a creare il problema, non loro. Loro semmai concorrono a risolverlo. Il bilancio pubblico l’abbiamo fatto sballare noi, non gli immigrati.

Affrontare questi temi significa far sì che il processo di espansione della cittadinanza europea possa riprendere. Questo processo si è ormai arenato sugli ostacoli che ho descritto. Tempo fa Giancarlo Bosetti mi ha invitato per una conferenza a Zurigo subito dopo lo sciagurato referendum contro i minareti. Nella propaganda per il no i minareti venivano presentati come missili americani o russi nell’opposto paese, con lo stesso carattere minaccioso. Ciò che c’è di minaccioso nel minareto è solo il fatto che alle 4.00 della mattina l’imam comincia a rompere le scatole invitando la gente alla preghiera. E alle 4.00 i cristiani dormono. La Germania aveva risolto il problema facendo un patto con la comunità islamica, dicendo: “Voi fate la vostra moschea con il minareto, avete diritto di farla. Però, per cortesia, prima delle 7.00 l’imam non si faccia vedere.” In questo modo si era evitata una guerra di religione.

Torno così al punto da cui sono partito: la maggior parte delle differenze che ci sono tra noi sono differenze culturali, nate quando, in tempi remotissimi, qualche decina di individui che stavano in Kenya hanno deciso di partire per il nord e, separandosi, hanno dato vita alle differenti culture. Ma queste differenze non sono insuperabili. Non è difficile accorgersi che buona parte di ciò che imputiamo al Corano si deve a vicende culturali che quei paesi a maggioranza musulmana vivono allo stesso modo in cui le visse decenni fa la Sicilia. Il trattamento della donna nei paesi musulmani non è poi molto diverso da quello che ha avuto mia nonna in Sicilia – e in Sicilia ai tempi di mia nonna erano tutti cristiani! Basta studiare un po’ di storia, e sorge subito la domanda: Ma noi italiani chi siamo? Gli italiani sono gli ex latini, gli ex sanniti, gli ex etruschi, gli ex volsci, gli ex goti, gli ex ostrogoti, gli ex longobardi, gli ex franchi, gente venuta dalle parti più diverse che, arrivati qua, si sono amalgamati. Loro ci sono riusciti. Perché mai non ci riusciamo? Le differenze non sono inesorabili, e non sono necessariamente conflittuali. Sono differenze che dobbiamo capire. Alla fine è possibile che una ricetta con tanta cipolla finisca per piacermi e che io l’abbia sempre rifiutata solo perché non mi andava l’odore. Me lo dice anche mia moglie: “Guarda che ti ci ho messo la cipolla”. Io rimango esterrefatto, però mi era piaciuta. Non lo confesserò mai. Ma questa è la strada e questo è il lavoro culturale che precede i cambiamenti istituzionali di cui c’è bisogno oggi in Europa.

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