Al party di Facebook donne geek e uomini sultani

All’inizio, Facebook era alimentato da donne. O meglio, da foto di donne e dagli incessanti click con cui individui di sesso sia maschile che femminile le andavano a scovare.

Questo accadeva parecchi anni prima che Facebook attribuisse a una donna una qualsiasi carica di livello dirigenziale, e ben prima che una donna sedesse nel suo consiglio di amministrazione che fino all’inizio del 2012 era composto esclusivamente da uomini. Era l’epoca in cui Facebook, esattamente come la cultura da college da cui proviene, si nutriva di utenti che contribuivano con i loro aggiornamenti a mandare avanti notte e giorno una festa in cui chiunque aveva la possibilità di imbucarsi e dare un’occhiata, bastava crearsi un profilo.

Ebbene, la festicciola della confraternita non è mai finita, anche se i bicchieri sono stati sparecchiati. Malgrado il sito da parecchio tempo abbia significativamente sfumato questa sua immagine specifica arrivando ad accogliere una ben più ampia varietà di utenti, quel clima continua a permeare la cultura di Facebook e – a prescindere dal fatto che uno abbia fatto parte o meno di quel periodo frizzantino o compaia o meno in una delle foto che lo hanno immortalato – resta il cuore nevralgico del social network, condizionando ancora oggi l’esperienza del fruitore.

Dall’epoca in cui bazzicavo la Silicon Valley, a metà del primo decennio del 2000, cercando notizie di gossip per un blog di tecnologia della Gawker Media che si chiamava Valleywag, ho imparato la lezione che Facebook è una macchina che crea ricchezza per i nerd. Ed è vero: è essenzialmente quello. Ma il lavoro non pagato e sottopagato delle donne ha un ruolo cruciale nel mandare avanti la macchina, nel renderla così irresistibile. Le donne e la loro rappresentazione sono parte integrante di Facebook tanto quanto la logica della fratellanza post-college tra geniali brogrammer (i nuovi programmatori più scafati e ribelli) portata avanti da Mark Zuckerberg.

Ho fatto un salto indietro nel tempo e a quella persistente eredità di clima da confraternita quando ho letto il libro testimonianza di Katherine Losse The Boy Kings, uscito nel 2012. La Losse, una delle prime dipendenti di Facebook, incarna la figura della donna nell’azienda, passata da oggetto esterno a soggetto interno, da studentessa universitaria a impiegata di una start-up, da membro dello staff di assistenza clienti pagata a ore a collaboratrice stipendiata con il ruolo di ghostwriter di Zuckerberg. È arrivata a Facebook ai tempi in cui la password madre di accesso al sito era comunicata a qualunque dipendente il primo giorno di lavoro e se ne è andata lasciando invece un’azienda da trecento milioni di utenti che passano la giornata in ufficio  a cliccarsi “Mi piace” l’uno con l’altro sulle foto di famiglia e a mandare avanti fattorie virtuali.

Il libro di Losse rimanda all’esperienza della lettura dei News Feed di un utente Facebook: è un invitante e scorrevole elenco di città, amici, feste e prodotti, una successione di momenti e luoghi, che mi è sembrato di condividere con lei pur non avendo vissuto insieme in prima persona quelle esperienze. C’è la città di Menlo Park, dove entrambe abbiamo lavorato rispondendo alle mail per professione. C’è il baretto di Mission, quartiere sempre più imborghesito di San Francisco, dove sia lei che io abbiamo praticamente vissuto e bevuto fernet senza mai incontrarci. C’è la famigerata conferenza F8 (che si pronunciava “fate”, come il termine inglese per “fato”) di Facebook, alla quale Losse avrebbe potuto partecipare solo se avesse accettato di fare la guardarobiera – e giustamente rifiutò – e io invece dovevo andare per coprirla come evento di gossip (non lo feci, ma riuscii a farmi passare un badge da un potenziale bersaglio, una di quel nuovo genere di donne che ruota intorno agli uomini del settore tech in cerca di attenzione e che ai social media interessano per associazione, e scrissi di quello sul blog).

Dopo il college, Losse ha lasciato la classista Baltimora per la Silicon Valley, un posto ossessionato dalla ricchezza ma al tempo stesso popolato da individui con un atteggiamento fortemente ambivalente rispetto all’“essere” ricchi. Quella donna ha un occhio per la classe a cui gli uomini che la circondavano a Facebook ostentavano il non dare nessuna importanza. Lei stessa ribadisce che è un fatto realmente accaduto un aneddoto fin troppo verosimile con il quale spesso ho abbellito i miei articoli: Mark Zuckerberg, amministratore delegato di una società stimata all’epoca cento milioni di dollari, usciva ogni giorno dal suo appartamento spartano con dentro solo un letto e un portatile per lavorare con indosso un paio di ciabatte di gomma nere dell’Adidas e una felpa con il cappuccio.

Ma tutta quell’apparenza modesta, per Zuckerberg, è una posa di classe. Mentre il valore del suo network schizzava alle stelle ad ogni iniezione di capitale che veniva fatta a Facebook, il personale di assistenza come Losse tirava avanti con venti dollari l’ora. I collaboratori più stimati di Facebook – gli ingegneri software – facevano enorme  affidamento sullo staff dell’assistenza clienti per evitare il contatto diretto con gli utenti. Ma invece di considerare quel lavoro fondamentale per il proprio operato, i tecnici guardavano con superiorità al team, come se i suoi membri non fossero granché meglio degli utenti stessi. “Il contatto personale con gli iscritti”, scrive Losse, era considerato dagli sviluppatori un qualcosa “che non poteva essere automatizzato, una triste reliquia dell’era preindustriale…”.

Malgrado facessero finta di non vedere differenze tra lei e loro, Losse, agli occhi dei suoi colleghi, avrebbe dovuto funzionare come una specie di collaboratrice domestica, una badante, una cameriera, un’hostess, svolgendo un ruolo di apporto emotivo al tempo stesso fondamentale e invisibile. Alle feste di Facebook, dalle donne che nell’azienda occupavano la posizione di Losse non ci si aspettava che addirittura servissero da bere, ma sicuramente che facessero da gradite suppellettili. Posavano per foto simil-rubate che erano state invece scattate da un fotografo professionista chiamato per l’occasione da Facebook. Quelle stesse foto sarebbero poi state postate il giorno successivo sul social network per la gioia dei colleghi e degli utenti in generale. Ci si aspettava che tutti i dipendenti avessero un profilo attivo sul sito, che dessero un’immagine della vita nell’azienda – e di conseguenza dell’azienda stessa – informale e accattivante, che si comportassero in ogni occasione come il genere di persona che gli iscritti potevano sperare di trovare sul sito. Tenere il profilo aggiornato in aggiunta agli altri compiti di normale routine lavorativa avrebbe potuto essere considerato tempo fatturabile, ma allora che dire delle ore passate dagli impiegati ai party dopo l’orario di lavoro o spese a navigare nel social a casa nei weekend?

Losse e gli altri si davano da fare per rendere Facebook un ambiente umano e ospitale, perfezionando costantemente le funzioni concepite per spingere gli utenti a tornare. Oggi ci sembra tutto ovvio: finestre di testo senza limiti di contenuto in cui dare il meglio di sé, album fotografici per condividere la parte più idilliaca della propria esistenza, bacheche su cui mostrarsi affascinanti, leggeri, brillanti. È stato proprio il modo in cui gli sviluppatori cercavano in ogni modo di ottenere dagli utenti questo genere di performance che, racconta Losse, l’ha spinta per la prima volta a farsi delle domande. Con l’intento di ricavare più personalità dagli utenti per arricchirne il sito, gli sviluppatori a un certo punto hanno deciso di raggruppare gli aggiornamenti in quelle che addirittura loro sono stati costretti a chiamare “storie”, alimentate dall’allora controversa funzionalità dei News Feed.

“Un minuto prima l’homepage era bianca, noiosa, innocua, sicura”, scrive Losse. “Un minuto dopo era piena di storie, di quello che uno stava facendo in quel momento, di nuove amicizie che erano state formate, di relazioni che erano finite. Era l’atto di nascita del resoconto automatizzato delle nostre vite”. Gli utenti attivavano Facebook per vedere cosa succede quando “da un momento all’altro, senza freni… si inizia a dar vita a personaggi digitali che si aggiornano in tempo reale, messi in forma narrativa per l’altrui divertimento”.

Più che sfumare il confine tra vita pubblica e vita privata, Facebook ha “re-istituzionalizzato” la seconda occupazione, solo che invece di badare ai figli o tenere in ordine casa ci siamo fatti ingabbiare nel “non lavoro” dell’autosorveglianza e della costruzione di un sé ipertrofico e promozionale che rappresenta il tratto distintivo della presenza sui social media. Era il corrispettivo del lavoro mal pagato di Losse come servizio assistenza clienti: gli utenti fornivano gratis le proprie informazioni personali.

Facebook – ormai lo sappiamo – non è mai stato concepito per essere il prodotto. Il prodotto siamo noi, gli utenti. Senza di noi, quel “prodotto” non avrebbe alcun valore. Zuckerberg lo ha capito nel 2003, quando ha creato il sito prototipo di facebook, Facemash, che raccoglieva foto delle ragazze di Harvard – coetanee e compagne di Zuckerberg – chiedendo agli utenti – presumibilmente ragazzi di Harvard – di votare la più carina. In un articolo pubblicato sull’Harvard Crimson dopo che Zuckerberg era scampato al provvedimento di espulsione per aver violato la privacy delle studentesse con il lancio di Facemash, si racconta che due gruppi del campus si erano opposti pubblicamente alla creazione del sito: Fuerza Latina e l’Associazione delle Ragazze di Colore di Harvard. A quel punto Zuckerberg aveva cambiato leggermente rotta, lanciando un sito in cui non ci fosse bisogno di trafugare foto da un server, perché saremmo stati noi stessi a dargliele.

La stessa Losse è stata una delle prime utenti di Facebook, nell’autunno dell’ultimo anno alla Johns Hopkins quando il social network venne lanciato anche nel suo campus. Prima di iscriversi a Facebook, non aveva mai associato le proprie attività on line al suo vero nome. “Per una donna”, scrive, “non c’è alcun vantaggio a mettersi on line e a disposizione degli estranei”. Ma le donne da che mondo è mondo hanno anche sempre trovato il modo di trarre il meglio dal far mostra di sé, che si tratti di farlo in veste di fashion blogger, di pornostar o di carismatica speaker del TED. Nel mostrare una qualche versione di se stesse on line, sotto pseudonimo o meno, alcune donne si sono fatte una fama e una rendita.

Losse però mi ha precisato che intendeva che non valeva la pena per una donna condividere le proprie informazioni on line prima di Facebook. C’è una “te stessa di Facebook”, spiega, che è simile al te stessa reale e un’altra, anonima, che non sei tu. Per Losse, condividere on line il proprio “vero” sé comporta più rischi che vantaggi. A quel punto, ovviamente, può entrare in gioco il sé sotto pseudonimo, che nel processo ha la funzione di tutelare il sé “reale”. Di fatto, questo è esattamente il motivo per cui un’intera generazione andata on line prima dell’avvento dei social media propugnava l’idea che utilizzare il proprio vero nome sul Web fosse pericoloso. Tutto questo, ribadisce Losse, prima di Facebook.

Il motivo per cui Facebook ha reso preferibile se non addirittura vantaggioso essere on line con la propria “vera” identità, continua Losse, è lo stesso per cui lei crede che la gente usi Facebook in generale: non necessariamente solo per guardare le donne, ma anche perché “le donne lo usano. E ciò lo fa apparire sicuro”. In altre parole, non ha niente a che fare con la possibilità di trovare delle donne da guardare o conoscere; è più una questione di donna come guida, come agente civilizzatore, non solo oggetto di valore ma soggetto che, attraverso la propria presenza, contribuisce a nobilitare il network, gli aggiunge valore. Il rovescio della medaglia, però, è che in cambio di questo “contesto sicuro” che noi donne non abbiamo peraltro mai chiesto, Facebook ricava dal tempo che ci passiamo un taglio particolare. Ciò non vuol dire che ci sfrutti. Semplicemente, ci domina.

Le dipendenti di Facebook, il servizio di assistenza clienti che faceva da cuscinetto tra gli utenti e gli sviluppatori, aveva il compito sociale di mantenere questo “contesto sicuro”. Centinaia di volte al giorno, Losse e il suo team ricevevano da qualche utente sempre la stessa mail “Cosa vuol dire poke?”. “Abbiamo sempre risposto con la massima innocenza”, scrive lei. “Il mostrarsi schive, il non lasciare spazio alle allusioni maliziose e alle spinte libidinose all’origine di gran parte dell’utilizzo che viene fatto del sito era un tratto fondamentale della nostra professionalità, un modo per differenziare Facebook dalle atmosfere basse e dichiaratamente sessuali di MySpace”.

Il design modulare 2.0 di Facebook, così pulito e lineare – esso stesso composto da una serie di tropi visuali che ben presto sarebbero diventati ubiqui – era anch’esso esplicitamente concepito come alternativa preferibile al design  dispersivo, personalizzabile all’infinito e quindi a volte esagerato e brutto di MySpace. La contrapposizione si estendeva anche alle norme di utilizzo: su MySpace si potevano trovare sosia di celebrità mediatiche e astute mercanti di velato porno, vale a dire donne che sapevano che mostrandosi avrebbero potuto lavorare. Su Facebook ci si continuava ad aspettare che le donne si facessero vedere e comunque restassero caste. Su Facebook, avrebbero potuto – avremmo potuto – vendere versioni idealizzate di sé altrettanto hard, ma in un contesto più “rispettabile”.

Questa tensione, questo obbligo di non essere “cheap” (sexy) se si voleva essere considerate, ha messo alla prova le alleanze femminili nel settore della tecnologia. La cosa mi ha colpita in prima persona, nel periodo in cui stava montando il movimento popolare del “più donne nel settore tecnologico”, in occasione della Bay Area Girl Geek Dinner organizzata da Facebook a giugno del 2008 in un elegante night club appena dall’altra parte della strada rispetto a un rinomato locale di spogliarelli di San Francisco. Sheryl Sandberg era appena stata nominata alla direzione di Facebook, prima donna ad assumere un’alta carica dirigenziale nell’azienda, oltre che la persona che avrebbe convertito bruscamente il modello di business della società alla vendita di spazi pubblicitari da affiancare ai contenuti postati dagli utenti. La prima Girl Geek Dinner era stata ospitata da Google, l’ex datore di lavoro della Sandberg. L’evento avrebbe puntato i riflettori sulle product manager e le sviluppatrici di applicazioni di Facebook, costituendo un’importante pubblicità sia per l’azienda che per il valore di quelle donne. Io ero seduta in mezzo alla sala, e facevo la cronaca via Twitter dell’evento per il sito in cui lavoravo. Mi sentivo fuori posto non tanto per il mio essere una giornalista di vile gossip del settore tech, quanto piuttosto per il mio essere una femminista relativamente sottopagata.

C’era stato un qualcosa di molto simile a un certo fervore femminista intorno all’evento. Un sito di condivisione di foto che si chiamava Zivity era stato incaricato di scattare foto da red carpet delle donne che arrivavano. In realtà si trattava di una convention festaiola del settore tecnologico di un genere che oggi viene dato talmente per scontato che vien da chiedersi come sia stato possibile che alcune di noi siano arrivate a credere di essere famose. Ormai è dal 2005 che Facebook assolda da sé i fotografi in occasioni del genere per catturare immagini dei propri dipendenti nella loro veste più sorridente e più affascinante, con il drink in mano, da mostrare ai futuri investitori, alla stampa, a potenziali partner, non si sa. Era semplicemente, all’epoca, ciò che andava fatto.

A questa Girl Geek Dinner, però, alcune partecipanti chiesero che quelli di Zivity se ne andassero perché il sito, per quanto fosse stato fondato da una donna, pubblicava in prevalenza immagini di nudo e funzionava con un sistema di micropagamenti che consentiva alle donne di venir retribuite per le foto che accettavano di far pubblicare. Agli occhi di quelle che erano contrarie, il fatto che un fotografo di Zivity le ritraesse, anche vestite di tutto punto e in occasione di un evento pubblico, in qualche modo avrebbe sminuito sia la loro posizione nell’ambiente che la “causa” stessa delle donne nel settore tecnologico. Venne raggiunta una sorta di compromesso, e ai fotografi di Zivity fu concesso di scattare le foto, ma a patto che esse venissero postate “solo” su Facebook.

Su Facebook, scrive Losse, e in ambito tecnologico in generale, una donna può essere o sexy o intelligente. Le donne che la circondavano stavano costantemente attente a controllare con rigore di trovarsi sulla sponda esatta. Le obiettrici della Girl Geek conoscevano la logica quando avevano chiesto l’espulsione dei fotografi “sexy”, che poi guarda caso erano anche fotografi che aiutavano le donne a mettersi i soldi in tasca loro piuttosto che nelle tasche degli uomini che mandavano avanti Facebook. Hanno fatto la loro parte.

Losse stessa dà l’impressione di sapere che la dicotomia sexy vs intelligente è falsa e fuorviante, ma è stata al gioco. La ricompensa? Una quota azionaria di Facebook, la nomina a responsabile del team che traduce e localizza Facebook in diverse lingue, la scrivania vicino alla sala conferenze di Zuckerberg, il prepensionamento e la liquidazione della sua quota azionaria che le ha permesso di comprarsi una bella casetta a Marfa, in Texas, dove si è ritirata per il tempo necessario a scrivere il suo libro.

Leggendo il racconto di Losse non ho potuto fare a meno di saltare con la mente dal suo libro al mio browser, dai miei ricordi ai suoi, dalla sua alla mia California. La visione dual-screen che deriva dalla costante autodocumentazione sarebbe apparsa un tempo innovativa e verosimilmente straniante, ed è ancora così nel libro di Losse, a prescindere dal fatto che uno abbia vissuto quell’epoca in prima persona, che ne abbia letto a distanza o che l’abbia completamente ignorata prima di ritrovarcisi in mezzo. Perché la tecnologia, per usare la metafora del cloud (la nuvola) che adesso si applica alle reti informatiche, è tutto intorno a noi e non ci ha messo tanto a circondarci. Perché noi che popoliamo quelle pagine, che abbiamo documentato all’infinito le nostre esistenze via via che la bolla si gonfiava, non abbiamo mai pensato che stavamo costruendo un nuovo paradigma di normalità. Pensavamo di giocare – con la fama, con l’attenzione altrui – pur sapendo che ci stavamo lavorando sodo. “Eravamo così stupidi!”, ho annotato più volte ai margini del libro, con le fotocamere puntate in faccia, con il dito sempre sul cellulare, sempre a ronzare intorno ai tasti “Pubblica” e “Invia”. Nessuna “persona vera”, credevamo, avrebbe voluto essere un’icona Internet che si autoaggiornava nel 2006 o nel 2007, a meno che non avesse avuto qualcosa in gioco come ce l’avevamo noi.

Forse però abbiamo sottovalutato la posta in gioco? Negli anni a cui ci riporta Losse, gli anni di passaggio tra la nascita dei social media e la diffusione della pratica dell’autodocumentazione on line, non c’era ancora il senso che stando on line in realtà si lavorava per produrre valore a vantaggio di qualcun altro. Semmai, potevamo ancora credere che condividere quello che stavamo facendo, con chi lo stavamo facendo e quanto eravamo fighi nel farlo potesse servire soprattutto a produrre piacere per noi stessi. In realtà, eravamo solo l’avanguardia della permanente deriva dei social media, sempre connessi e mai davvero con la spina staccata. Quel che Facebook ha ottenuto, stando al racconto di Losse, non è tanto l’erosione del confine tra vita pubblica e vita privata, quanto piuttosto quella della soglia che separa il lavoro dal piacere.

 

A Losse, al pari di altre donne che hanno frequentato gli ambienti arcaicamente sessisti delle aziende del settore tecnologico, era ancora richiesto di avere un bell’aspetto, di “vendersi” costantemente pur senza mai ammettere esplicitamente cosa si stava vendendo e chi lo stava acquistando. Facebook e le società come lei negano questa logica, sostenendo che chiunque abbia il talento di scalare le gerarchie può farlo: a Silicon Valley vige la meritocrazia, amano ripetere.  Le donne dell’ambiente si presume che ci credano, che facciano finta che il valore di una donna in un’industria non si limiti all’aspetto emozionale, anche quando quell’industria produce aziende che senza quel lavoro non potrebbero avere successo.

Ma le donne che verranno dopo Losse, che vorranno sfidare questa facciata di meritocrazia e questo sottovalutare il ruolo femminile, dove dovranno puntare? Alle foto “cheap” o a ogni genere di foto? O forse piuttosto a coloro che le possiedono?

Traduzione di Chiara Rizzo

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