La religione civile dell’antimafia

Il culto del martire [1] per la Patria, in oltre due secoli di storia, è la manifestazione antropomorfa di una fede secolare indirizzata all’entità statale, identificata con la morale nazionale. I rituali generati dalla devozione laica hanno l’obiettivo di preservare e di rigenerare l’unità e l’identità civile della comunità attraverso l’uso pubblico della memoria.

Il racconto delle mafie, sviluppatosi dopo il 1992 (da allora ad oggi sono stati scritti 531 libri che contengono nel titolo la parola «mafia», i cui autori in gran parte appartengono a circuiti non scientifici – giornalisti, magistrati e politici – ), ha impiegato questo patrimonio secolare per costruire intorno al “martire” dell’antimafia (ovvero le vittime innocenti delle mafie) un immaginario, una simbologia e una ritualità tese a conferire sacralità alla vittima inserendola nel tradizionale solco del culto per i defunti. Sono diventati oggetti intangibili, di devozione e di dedizione collettiva, che rinnovano i valori delle libertà repubblicane in senso religioso senza porsi in antagonismo con il cattolicesimo, anzi umanizzandolo grazie al sacrificio esemplare di donne e uomini ribellatisi in nome del bene comune. Sono esponenti illustri di una società secolarizzata che ogni giorno compiono il proprio lavoro con coscienza, senza trarre vantaggi illeciti, né approfittare del bisogno o della debolezza altrui. Donne ed uomini che vivono i rapporti interpersonali su una base di rispetto reciproco. Italiani che assolvono ai loro doveri civici con determinazione.

L’immaginario che si muove dietro la figura del martire/eroe ha una lunga storia e si presenta, ad uno sguardo attento, come una struttura di lungo periodo. L’eroe/martire, oggi vittima innocente, è un’ancora di salvezza a cui aggrapparsi nei momenti di crisi nazionale; un osservatorio privilegiato da cui è possibile scorgere il sostrato civile della nazione, pronto ad innalzarsi – il più delle volte all’interno del circuito mediatico – quando la curva dell’indignazione raggiunge lo zenit. È il caso del passaggio dalla prima alla seconda Repubblica, ovvero il quinquennio 1989-1994 che ha il suo apice nel biennio 1992-1993 (Tangentopoli, le stragi di Capaci e via D’Amelio, gli attentati dinamitardi di Roma, Milano e Firenze).

Gli efferati ed insensati omicidi di magistrati, poliziotti, carabinieri, giornalisti, funzionari pubblici, imprenditori e uomini di chiesa, accumulati anno dopo anno, hanno sedimentato un sordo risentimento civile che esplode con l’escalation terroristiche dei corleonesi.
Diverse componenti della società civile si organizzano per non delegare la lotta alle mafie ai soli apparati dello Stato. Si ha, finalmente, la consapevolezza che è in gioco l’esistenza stessa della democrazia, il funzionamento delle istituzioni politiche ed economiche e la sovranità del principio di legalità.

Nasce Libera contro le mafie che ogni 21 marzo celebra la «Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime». La lettura pubblica dei nomi degli innocenti – ormai al giro di boa della ventesima edizione – è diventata un vero e proprio rito di riconciliazione nazionale: i familiari si presentano, si conoscono, si raccontano e comprendono di non essere soli. In Italia esistono centinaia di famiglie che hanno subito un identico shock: la perdita prematura e violenta di un congiunto.

La vittima viene collocata in universo simbolico contiguo a quello del patriota/eroe/martire. Si situa nello stesso patrimonio di luoghi, memorie e testimonianze che rinnova una cultura civica di lunga durata, alimentata da un immaginario collettivo fondato sul riscatto della patria.

Lo stragismo mafioso, infatti, ha spostato il movimento antimafia nel campo della Resistenza: ossia reitera l’incitamento alla difesa dei valori repubblicani. La riproposizione degli ideali resistenziali, in realtà, è un gioco di specchi che, di epoca in epoca, riflette lo stereotipo del «canone risorgimentale». L’Italia sembra condizionata dall’idea di un Risorgimento perenne: in ogni fase di crisi si rinnovano le immagini, i simboli e i miti dello spirito unitario che hanno caratterizzato il nation building. Così è stato per la prima guerra mondiale, tramandata come ultima guerra di indipendenza; così è stato per il fascismo che ha giustificato la dittatura plagiando il pensiero mazziniano e presentandosi quale avveramento della rivoluzione nazionale; così è stato per la Resistenza in quanto lotta alla tirannia, guerra allo straniero e conquista della libertà; così è stato per la lotta al terrorismo che ha verificato la saldezza delle istituzioni repubblicane; così è stato per il movimento antimafia che ha reso il tema del contrasto ai poteri criminali protagonista di una nuova stagione di difesa delle libertà democratiche. Un gioco di specchi, si è detto, che riflette i valori del Risorgimento nella Resistenza e dalla Resistenza all’Antimafia.

Se la lotta alle mafie reinterpreta gli ideali resistenziali, il rito collettivo è garanzia di continuità storica: sacralizza le vittime svelando l’esistenza di una “patria di eroi”. Un pantheon, costellato da innumerevoli forme di resistenza, che si oppone alla declamata «morte della patria».

Resistenza antifascista e Resistenza antimafia appaiono, in questa dimensione, fasi congiunturali, di una struttura di lungo periodo (il cui collante è la trama dell’immaginario ordita intorno al martire/eroe/vittima), che raccolgono e rilanciano il tema del patriottismo: la prima assolve alla funzione di integrazione della cultura cattolica e comunista nell’alveo della storia unitaria, la seconda risponde alla crisi dei partiti e delle istituzioni con un repubblicanesimo militante. Con la crisi della Repubblica il movimento antimafia ha sussidiato il ruolo di soggetto politico: da un lato è divenuto, nel vuoto creatosi, l’erede positivo dei valori espressi dalla partitocrazia; dall’altro ha evitato che la separatezza tra istituzioni e società stratificasse in frammentazione civile. Il punto di coagulo è il tessuto etico nazionale: un senso di cittadinanza comune aggiornato e consolidato da una profonda maturazione culturale ed economica innescata negli anni del boom economico.

Gli eventi del biennio 1992/1993 ripropongono, dunque, un rapporto diretto tra Resistenza e Costituzione. La Carta rimane la forma giuridica essenziale attraverso cui si esprime la cittadinanza democratica. La sintesi delle diverse componenti culturali e sociali dell’antifascismo ha generato una identità originale. Il sincretismo è la forza intrinseca della Costituzione: nonostante il collasso dei partiti ha continuato ad essere il punto di riferimento per quanti hanno inteso modificare la militanza partitica in impegno civile. La crisi ha liberato le energie necessarie per dare vita ad un progetto politico sganciato dai partiti: una cittadinanza attiva e partecipata il cui fulcro è la lotta alle mafie e la cultura della legalità, vestali repubblicane ormai consumate dalla retorica, intorno al quale si sono riattualizzate pratiche commemorative, già escogitate dal nazionalismo risorgimentale, a partire dalla consacrazione del lungo elenco di vittime di cui è stato tramandato il dato identitario più importante: il nome.

Il ricordo del nome è una pratica di incorporazione del defunto nella comunità dei viventi. Una strategia memoriale tesa a produrre consenso e appartenenza identitaria. Sfrutta, a suo favore, gli strumenti offerti dall’iconografia, dall’arredo urbano, dalla toponomastica e dai media per radicare la raffigurazione del sacrificio eroico. È l’annullamento del confine tra la vita e la morte: un decreto d’immortalità proclamato con forme rappresentative di pietà pubblica, atto cosciente di ammonimento per il futuro. La sublimazione del martirio coinvolge tutte le vittime: dai sommi protagonisti della lotta alle mafie fino ad arrivare a quelli meno noti, per i quali il rischio di essere dimenticati è maggiore. Figli, fratelli, sorelle, mariti, mogli, padri e madri sono concrete figure morali, sbalzate dalla normalità della cerchia privata degli affetti e catapultati nella fornace di una “guerra civile” mai dichiarata.

È stato il potere della memoria a mutare la scia di sangue delle regioni meridionali in una occasione di riscatto nazionale per quella parte di Italia che non ha contribuito direttamente al Risorgimento e alla Resistenza. Basterebbe segnare sulla carta geografica dello Stivale un puntino rosso, indicando la provenienza delle vittime, per comprendere come nel periodo repubblicano, rispetto al Risorgimento e alla Resistenza, sia avvenuta una inversione di tendenza. Se il luogo d’origine dei patrioti risorgimentali e resistenziali, come attestano i monumenti commemorativi, rimarca il maggior contributo offerto dal Settentrione alle lotte di liberazione, la moltitudine di stele, obelischi, cippi, colonne, targhe e lapidi diffuse in tutto il Meridione (come si vede a Palermo, nelle battute finali del film “La mafia uccide solo d’estate”) rovescia la geografia dell’eroismo nazionale. La Resistenza alle mafie è il fattore di integrazione civile che ha consentito al Mezzogiorno di offrire alla Patria il sacrificio dei suoi martiri in difesa della democrazia repubblicana. In definitiva, si tratta di affrontare la questione del culto delle vittime sul versante storiografico della continuità/discontinuità, del lento divenire, tra stratificazioni simboliche e incrostazioni metastoriche, del concetto di patria. L’antimafia può essere interpretata come evoluzione del discorso nazionale, già aggiornato in chiave antifascista. La contaminazione tra retorica e sfera del sacro ha agevolato il suo ingresso nel campo del «patriottismo espiativo» della Repubblica, ovvero il riconoscimento delle «piccole patrie locali»: città, province e regioni che hanno vissuto in prima linea lo scontro tra forze avverse, lasciando sul campo decine di cittadini inermi.

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Note
[1] La definizione di martire qui usata non è quella cristiana strictu sensu ma una trasposizione latu sensu riferibile all’immaginario collettivo sedimentatosi nella temperie della Rivoluzione francese e dei successivi movimenti europei per l’indipendenza nazionale.

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