L’ontologia di Ferraris è ratzingeriana

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Documentalità è la teoria che rappresenta un po’ la summa del pensiero che Maurizio Ferraris è andato maturando negli ultimi anni. Ed è una teoria che, secondo me, vince ma non convince. Vince senza dubbio per il rigore speculativo e la sistematicità. In questo contributo vorrei però discutere qualche sostanziale dubbio epistemologico. Comincio con una boutade.

Ferraris passa per un laicista, un dissacratore dell’impianto intellettuale e mitologico del cattolicesimo romano. Pochi hanno però notato che la sua ontologia non è troppo lontana, nell’ispirazione di fondo, da quella sostanzialmente pre-moderna e naturalistica di Papa Ratzinger. Anche per Ferraris, come per Benedetto XVI, tutto ciò che è venuto dopo Cartesio è errore, deviazione, fallacia. E similmente, per l’uno come per l’altro, all’originario errore cartesiano, seguendo una traiettoria lineare, altri errori si sono succeduti nella modernità: da quello di Kant a quello della più parte delle correnti dominanti negli ultimi secoli. Ferraris in un unico fascio mette insieme e condanna il trascendentalismo, il pragmatismo, il post-modernismo.

Ma vediamo a rapidi schizzi come l’autore della Documentalità procede. In prima istanza ci offre un “catalogo del mondo”, sulla traccia, potremmo dire, di Borges, in un modo affine a quello offertoci dagli elenchi universalistici, chiamiamoli così, di cui parla Eco nel suo ultimo libro. Nel compilare il suo elenco enciclopedico, il nostro parte dal presupposto che si diano un’ontologia e una epistemologia come discipline separate. E poi che gli oggetti del mondo si dividono in oggetti naturali, ideali, sociali. Presupposto infondato, non dimostrato, affermato apoditticamente, quello che si dia una distinzione non funzionale ma teorica fra res e logos, fra natura e conoscenza.

Ciò che bisogna dire con forza è che il logos su cui si fonda la modernità filosofica, nelle sue punte più alte e avvertite, non è affatto il logos come oggetto distinto dalla res di cui discuteva prima della modernità. È altra cosa e si chiama logos ma potrebbe chiamarsi a ragione altrimenti. L’inizio della storia di questo altro logos è appunto in Cartesio, anche se già in Agostino, quando parla dell’autocoscienza, ve ne è traccia. Il vero salto di qualità si ha, come dice anche Ferraris, con il concetto di Io penso o appercezione trascendentale di Kant.

Da quel momento la storia della filosofia ha cambiato registro e ragionare in termini di realismo ingenuo o oggettivismo realistico, perché di questo si tratta, è decisamente problematico e comunque in filosofia minoritario. Perché è presto detto: l’Io penso, il logos di cui qui si tratta, non è l’Io empirico. Ed è anche Io solo per un modo di dire. L’Io penso, che a questo punto potrebbe anche essere chiamato Noi o con termine gentiliano Atto puro, è la condizione di possibilità di ogni darsi di un ente, qualsiasi esso sia, un io personale (o empirico), un oggetto fisico, un animale. È lo spazio, imprendibile con il ragionamento oggettivizzante, nel senso che nel momento in cui lo si concettualizza già più non è in atto, in cui si opera la possibilità stessa dello stagliarsi e del distinguersi delle cose. La svolta trascendentale del pensiero moderno segnala perciò l’irruzione di questo x primordiale, che non può essere considerato fallace.

Ferraris parla di “fallacia trascendentale” capovolgendo con un po’ di perfidia la più comune espressione di “fallacia naturalistica”. La quale è usata proprio per sottolineare l’impossibilità, dal punto di vista del trascendentalismo, di concepire la natura, l’oggettività, in modo irrelato. Non a caso si parla anche di presupposto oggettivistico, un presupposto che, più di altri, ha smontato Heidegger. Ferraris cita il pensatore di Messkirch a proposito del concetto di Zuhandenheit, “utilizzabilità”, “prendere” o “usare con la mano”, di Essere e tempo, la quale, anche se è troppo spesso dimenticato, è un’opera di chiaro impianto trascendentalistico. Non è un caso che, quando ha voluto trovare una exit strategy dal trascendentalismo, Heidegger si è mosso non nella dimensione oggettivistica e realistica, non più riproponibile, ma in quella sostanzialmente misticheggiante dell’ultima fase del suo pensiero.

Ritornando al logos concreto dei moderni, vorrei ricordare una pagina di un bello e ingiustamente dimenticato volume di Benedetto Croce, la Logica come scienza dell’espressione e linguistica generale, quella in cui si usa l’immagine di un paesaggio che si riflette nelle acque di un lago: come essa il logos opposto alla res “rispecchia” il tutto ma non è il tutto. Il tutto è l’orizzonte stesso della possibilità di logos e res, soggetto e oggetto. Non è nemmeno un caso se Nicolai Hartmann, interpretando questa idea già pure tutta hegeliana, parlava, a proposito del pensiero del Maestro di Stoccarda, di “idealrealismo”: una locuzione che indica il superamento nella filosofia hegeliana di ogni residuo naturalistico, ma assolutamente non in una direzione soggettivistica come pure si usa dire.

E, visto che siamo giunti ad Hegel, spendiamo una parola sulla suggestiva fenomenologia degli oggetti sociali compiuta da Ferraris. Il quale, per sua stessa ammissione, prende proprio spunto dallo “spirito oggettivo” di hegeliana memoria. È una parte veramente interessante del libro, che restituisce forza e dignità all’ambito della quotidianità. Ma ritengo che, per affermare questa cogenza, non ci sia affatto bisogno – è questo che voglio dire – di ancorarla sulla solidità del naturalismo. Che anzi, a mio avviso, potrebbe ucciderla.

Vorrei infine menzionare un’ulteriore questione, legata direttamente ai temi a Ferraris molto cari della registrazione, della documentalità e dell’iconologia. Secondo il nostro l’epoca contemporanea accentuerebbe l’importanza della scrittura, o meglio dell’iscrizione, come mostrano il web o i messaggi sul telefonino (il termine “iscrizione” assume in Ferraris un carattere molto lato: è tale anche la traccia lasciata dal pensiero sulla psiche in cui consiste la memoria e quindi la conoscenza).

Anche in questo caso sono d’accordo solo in parte. Anche io credo che la nostra epoca accentui e acceleri una tendenza da sempre presente, ma si tratta del predominio del vedere e non della scrittura. Si pensi alla spettacolarità totale del reale in cui viviamo. Oppure si pensi solo un attimo alle acute osservazioni di Baudrillard sull’11 settembre: un evento che ha colpito la nostra immaginazione e sensibilità soprattutto perché è stato un evento del vedere, quasi holliwoodiano.

Dice Ferraris che con computer e telefonini riprende piede lo scrittore, ma a me sembra che l’essenziale sia ciò che vediamo sullo schermo e non ciò che scriviamo sulla tastiera (in un domani non troppo lontano potremmo, come accade in Minority Report, dare persino i comandi con la voce). Il predominio del vedere, basato su metafore piuttosto che su connessioni logiche, sempre presente ma che ora si palesa nella sua radicalità, porta a compimento e realizza l’essenza più profonda dell’Occidente.

La nostra civiltà ha messo in secondo piano elementi “corporei” come il “toccare” di cui parla Jean-Luc Nancy. È una civiltà in cui trionfa la “spiritualità”, cioè appunto la virtualità. Il processo col web non sembra che accentuarsi. Occorrerebbe invece superare il dualismo anima-corpo, lavorando ai fianchi su quel concetto di logos altro evidenziato dalla modernità.

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