Raccontare le infiltrazioni.
La festa di S. Agata nella stampa siciliana

Dietro il culto della festa di S.Agata (5 febbraio) a Catania, una delle feste patronali più grandiose della cristianità – la terza al mondo, con oltre un milione e mezzo di partecipanti, serpeggia la realtà drammatica delle infiltrazioni mafiose. Emersa dalla dimensione dei ‘si dice’ grazie a un’inchiesta della magistratura, iniziata nel 2008, questa realtà delle infiltrazioni mafiose è approdata alla ribalta della cronaca, è stata ripresa e raccontata in toni diversi da una pubblicistica che parla alla città con diverse voci. La ricostruzione delle collusioni mafiose nella festa è stata diversamente raccontata, con un impatto di ripresa – da parte dell’informazione – e di ricezione – da parte del pubblico – articolato.

Prima del 2008, di infiltrazioni mafiose si parlava da sempre come di voci di popolo, tra ammiccamenti e reazioni infastidite verso un fenomeno di devozione che, tra folklore, mondanità e interessi economici, è rappresentativo della cultura e delle tradizioni cristiane locali – e non solo: una festa di popolo che vede riunite tutte le rappresentanze istituzionali – ecclesiastiche, civili, militari -, che vi partecipano come a un evento in cui si riflette l’identità della città. Così, il quotidiano cittadino per eccellenza – La Sicilia -, espressione di un incontrastato blocco di poteri, ogni anno dedica spazi da evento d’eccezione a quello che è un appuntamento sul quale sono ritmati la vita della città e il tempo dei suoi cittadini. Con ‘prima e dopo Sant’Agata’ -uno spartiacque nella scansione dell’anno e della vita – i catanesi segnano il loro calendario: la festa assorbe la cronaca catanese.

Espressione dei potentati cittadini e palcoscenico di insostituibile visibilità politico-sociale locale per tutti e soprattutto per tutte le rappresentanze istituzionali, La Sicilia sta, in qualche modo, ad Agata come Agata sta alla città. Così come la santa protegge la ‘sua’ città, il giornale fa blocco intorno al culto della ‘sua’ santa.

Su un altro fronte istituzionale, ancora più interno alla Chiesa, in quanto emanazione della diocesi catanese, il settimanale Prospettive è ancor più reticente. Sarebbe meglio dire che ha posizioni silenziate rispetto a notizie in tal senso. Simili dinamiche innescate su meccanismi di difesa e chiusura sono evidenziate anche dal confronto tra questa pubblicistica istituzionale e altre fonti di informazione. Queste sono espressione di gruppi di società civile culturalmente non allineati sul presupposto dell’equazione identitaria tra culto agatino e cittadinanza.

All’inizio del 2008, la festa per le celebrazioni agatine – dichiarata perfino dall’Unesco, per il suo valore etno-antropologico, patrimonio dell’umanità – occupava le pagine del giornale cittadino La Sicilia per i risultati dell’inchiesta della Procura sulle infiltrazioni di Cosa Nostra (P. Leocata, 4 gennaio). Un’inchiesta che partiva dalla tragedia di Roberto Calì, il ‘devoto’ morto nel 2004 durante i momenti conclusivi delle celebrazioni.

Per la prima volta la giustizia sembrava intervenire concretamente sulle ‘leggende metropolitane’ che oscuravano la manifestazione più importante della città. I magistrati catanesi, indagando sugli anni compresi tra il 1999 e il 2005, avrebbero appurato come il monopolio della festa stesse nelle mani del gotha mafioso. Un fatto si segnala in modo eclatante: il canale del controllo sarebbe il Circolo di Sant’Agata, l’associazione cattolica, alla quale da sempre fa capo l’intera organizzazione. Durante l’arco di tempo cui si rivolge l’inchiesta, le tessere n. 1 e n. 2 portano nomi di Nino Santapaola e Vincenzo Mangion, esponenti di note famiglie mafiose. Alcuni poliziotti, partecipando alla festa vestiti da devoti, hanno scattato foto in cui esponenti delle famiglie Mangion e Santapaola sono sul fercolo e portano a spalla lo scrigno reliquiario.

Si spiegano le ragioni della collusione: ragioni che mescolano sfoggio di potere, interessi economici e bizzarre forme di devozione. Ma si registra anche l’esiguità degli interventi ufficiali: «Il giorno dopo i commenti sono pochi. E a mezza bocca» (C. Greco, 2 febbraio 2008). Qualche amaro commento rileva che: «delle infiltrazioni della Mafia nella festa nessuno parla spontaneamente. I politici la pensano come la gente… L’indagine della magistratura è considerata una provocazione… Persino qualche intellettuale di sinistra avanza il sospetto che l’indagine nasca da un’impostazione ideologica, da un approccio illuminista a un rito arcaico che ha altri codici e altre modalità espressive» (P. Leocata, 4 febbraio 2008). Il discorso di monsignor Gristina (arcivescovo di Catania dal 2002), tenuto durante la messa concelebrata con i vescovi di Sicilia in cattedrale, riportato dal giornale (5 febbraio), contiene un unico, breve e molto generico riferimento ai fatti di cronaca: «Dove c’è autentica vita cristiana, dove c’è vera devozione verso S. Agata non possono e non devono esserci violenza, criminalità mafiosa o di altro genere, truffe, estorsioni, malaffare, mancanza di rispetto per la vita e per la dignità di ogni singola persona».

Lo stesso giorno si registra un’inquietante presenza nella pagina dedicata alla corrispondenza con i lettori. Si tratta della lettera di Grazia D. Santapaola a difesa del marito, già arrestato nel 2005: «Perché tutto esplode con tanto fracasso tre giorni prima delle celebrazioni, negli ultimi tre anni in cui mio marito, per forza maggiore non ha potuto ‘gestire’ la festa? La sua fede è incrollabile. Ciò è sufficiente a consolarci da accuse infamanti e dalle umiliazioni che ci sono state inflitte» (La Repubblica, 7 luglio 2005). La Sicilia del 7, fa, infine, un bilancio molto positivo delle celebrazioni pure avviatesi sotto i peggiori auspici.

Otto mesi dopo, La Sicilia (3 ottobre) annuncia che la «prima udienza del processo sarà celebrata il 15 gennaio del 2009 davanti la quarta sezione penale del Tribunale di Catania». Il processo comincia all’alba del 2009.

In questo periodo, si costituisce il Comitato per la legalità nella festa di S. Agata, formato da due nuclei complementari: quello del cattolicesimo democratico e quello dell’antimafia. E il 2012, è finalmente l’anno della ‘sicurezza’. Arriva in visita il Segretario dello Stato Vaticano, cardinale Bertone; mentre i pentiti continuano a raccontare di infiltrazioni mafiose, estorsioni, giri di droga e illeciti costanti, si riaccende il dibattito sulla festa della patrona catanese. Più che sulla legalità si insiste sull’urgenza di una normativa che metta le celebrazioni in sicurezza.

Nei giorni seguenti, clou della festa, il quotidiano cittadino insieme alle foto della città in tripudio, che si commentano da sole, riporta il discorso integrale tenuto in cattedrale da Gristina. L’arcivescovo invita ancora una volta genericamente «all’onestà e alla bontà cristiana». Anche l’omelia del segretario di Stato Vaticano rimane estranea alla questione criminalità: centrale è l’emergenza educazione (contro il senso del nulla).

Intanto, all’inizio della primavera, le indagini della magistratura catanese e dell’antimafia hanno fatto luce sul sistema di controllo della festa. Mancano pochi mesi alla sentenza e alcuni degli atti su cui si basa il processo sono finalmente disponibili. Il Comune etneo si è costituito parte civile nel processo.

Ma La Sicilia del mese di aprile 2012 non dà notizia della ripresa del processo sulle infiltrazioni mafiose, annunciata per il 24 del mese e che vede tra gli imputati anche l’ex presidente del Circolo Sant’Agata, Pietro Diolosà, accusato di concorso esterno.

Il 20 novembre 2012, la requisitoria del PM (Antonino Fanara) chiede una condanna e sette assoluzioni (non perché non ci siano abbastanza elementi per sostenere l’accusa, ma in quanto i sette sono già stati condannati in altri processi per lo stesso reato). La Sicilia del giorno successivo riporta il fatto in prima pagina, con rinvio all’interno per i commenti. Un titolo spicca altamente esplicativo: «Festa di S. Agata: la mafia c’è, la prova no» (art. di Carmen Greco, p. 25).

Sembra non esistano prove che l’organizzazione mafiosa sia riuscita a gestire tempi e modi della festa, benché sia accertata una sua penetrazione attraverso il Circolo Sant’Agata (almeno fino all’edizione del 2005). E poiché la maggior parte degli imputati è stata già processata nel procedimento «Dionisio» per il reato di associazione mafiosa, il PM ha chiesto al Tribunale «il non doversi procedere». L’unico per il quale ha chiesto la condanna a due anni di reclusione è, per il concorso esterno in associazione mafiosa, Pietro Diolosà. Fanara avrebbe puntualizzato più volte che il condizionamento più pesante fosse legato all’iscrizione al Circolo Sant’Agata.

Di nuovo nel febbraio dell’anno successivo, si avviano i preparativi per la festa e La Sicilia puntualmente comincia a darne notizia – stavolta insistendo anche sugli interventi della Protezione civile. In un’intervista al nuovo questore della città Salvatore Longo, viene posta una domanda mirata: «Oggi non si spara più, la mafia è più interessata ad infiltrarsi nell’economia della città?». Lui candidamente risponde: «Devo ancora cominciare».

Su La Sicilia del 9 Febbraio 2013, la notizia a sorpresa: «S. Agata. Festa e mafia. Tutti assolti». L’articolo spiega: «La decisione dei giudici fa piazza pulita di sospetti e voci, di parole a mezza bocca e lettere anonime, di silenzi imbarazzati e imbarazzanti, ma anche di quelle ‘prove’ alla base dell’accusa che non si potevano tradurre in condanna per via del ‘ne bis idem’». Ma il Tribunale, presieduto da Michele Fichera, ha assolto tutti – anche Pietro Diolosà – con una formula che non lascia dubbi: «Perché il fatto non sussiste».

Ancora più estraniato, il settimanale Prospettive, espressione della massima istituzione ecclesiastica cittadina, lascia decisamente perplessi per la sua posizione, decisamente ex silentio. La scarsa diffusione rende insignificante l’impatto, ma è comunque significativo registrare che la festa è soprattutto una manifestazione di popolo in cui centrale è la figura del vescovo.

Costante è la ripresa di approfondimenti e notizie di carattere culturale e storico sulla santa e sul culto, associato a quello di Euplo, soprattutto nelle notizie che riguardano i festeggiamenti di agosto. Lasciate ai margini – ma pur sempre presenti – le notizie sulle rappresentanze e i risvolti politici, il settimanale non si occupa per nulla delle questioni che riguardano i rapporti tra la festa di Agata e la malavita locale.

Del fatto che esista la mafia in Sicilia, peraltro, il settimanale ha consapevolezza. Questa questione emerge costantemente, e soltanto, ad ogni notizia su un evento cultural-mondano che si svolge ad agosto presso il Lido dei Ciclopi. Si tratta dell’assegnazione di un premio a personalità distintesi in qualche campo dell’arte, associato alla cultura della legalità anche per il fatto che la manifestazione ha sede nello storico Lido, che si ricorda essere stato confiscato alla mafia (ai sensi della Legge Rognoni -La Torre, del 13 settembre 1982).

Mafia e festa di S. Agata non sono mai associate. Solo l’anno successivo all’apertura dell’inchiesta della magistratura, e solo per i festeggiamenti agostani – che hanno meno importanza e visibilità – il 6 settembre 2009, viene citata con rilevanza un’omelia di Mons. Giuseppe Marciante, declamata il precedente 17 agosto, dove la mafia è descritta precisamente ma mai nominata. In una reprimenda contro il moderno Quinziano, il procuratore romano persecutore di Agata, l’omelia attacca «la mentalità di chi pensa che con la forza e la violenza si domina, di chi pensa che con il denaro si può ottenere tutto». «E’ la mentalità – continua l’intervento – di chi usa la minaccia e incute paura per ottenere consensi, per estorcere denaro e costringere l’altro a cedere beni e persone. È la mentalità di chi usa il potere politico non per servire il bene comune, ma per occupare posti di comando e privilegi personali e di casta. È la mentalità di chi si accanisce sui deboli e gli indifesi con violenze inaudite. È la mentalità di chi usa i giovani come manovalanza per furti, estorsioni, per il consumo e lo spaccio della droga, per infliggere prepotenze e violenze, per uccidere».

Espressione di interessi economici e di potere il primo e diretta emanazione di voce istituzionale il secondo, il quotidiano La Sicilia e il settimanale Prospettive esprimono, ciascuno a proprio modo, la correlazione con i poteri cui sono collegati. Non sono voci di denuncia, né espressione di «giornalismo etico», del quale parlava Giuseppe Fava. Piuttosto, adeguatamente modellato, mettono in atto quello che il sociologo e giornalista Mauro Rostagno definiva «il primato sociologico dell’esistenza sul teorico».

La stampa locale catanese, come si vede, recepisce poco e amplifica ancor meno la “rivelazione” delle infiltrazioni mafiose nella festa, divenute tangibili con l’inchiesta e il processo. La questione ha avuto un forte impatto mediatico a livello nazionale, dove la notizia è stata ripresa sia a livello di informazione televisiva che di carta stampata – da Report e da la Repubblica – sia pur in modo episodico.

In riferimento al panorama catanese che esprime il dissenso della società civile, solo alcune voci sono riuscite a diventare pubblicistica, e hanno connotazioni diverse da quelle fin qui evidenziate.

Due organi di informazione hanno spinto con più forza di pressione per un rinnovamento della festa: il quotidiano Catania possibile [1], di cui fondatore è stato Renato Camarda, un quotidiano che è stato tra i gruppi promotori del Comitato per la legalità dei festeggiamenti di S. Agata – di cui fanno parte associazioni cristiane, cattoliche e non solo, progressiste, antimafia, tra cui ‘Libera’ – e il settimanale, a questo quotidiano legato, L’isola possibile [2].

Entrambi hanno chiuso dopo solo qualche anno e già da qualche anno tacciono, per il venir meno di forze economiche e lavorative. La tendenza propulsiva dell’informazione del Comitato, attraverso questi due organi di stampa, ha dato ai dati dell’inchiesta, dal 2008 in poi, particolare visibilità, più marcata della stampa prima analizzata, pubblicando nomi e foto di inquisiti sul fercolo, al posto che sarebbe dovuto essere di un sacerdote. Sembra anche avere rotto un tabù. Oggi la voce del Comitato resta legata alla annuale conferenza stampa ripresa da quotidiani e televisioni. Ma, resta il fatto che oggi tacciono come voce diretta.

Nel mondo della carta stampata, ci sono altri esempi di informazione alternativa al ‘regime’ dei poteri forti e all’acquiescenza della maggioranza silenziosa.

Il più delle volte si tratta, però, di fogli informativi che non hanno calendari di uscita né sistematicità di distribuzione: circolano in modo irregolare ed estemporaneo, spesso in occasioni di incontri in cui chi partecipa è generalmente già sensibilizzato al problema per mentalità, cultura ed estrazione sociale. Sono voci che parlano una lingua e un sistema di valori che non raggiungono tutta la città.

La mancanza di un solido retroterra finanziario costituisce un forte elemento discriminante. Oggi, nuove opportunità per una informazione liberamente critica sembrano venire da Internet, dove peraltro gli spazi sono occupati anche da chi è entro gli steccati dell’intoccabilità della festa, non ammettendo dubbi e discussioni su di essa e difendendo a oltranza un rapporto identitario tra la città e la santa.

Voci critiche, legate al Comitato per la legalità, sono CTzen e Argo; meno chiara è invece la posizione di Live Sicilia. Al di fuori del Comitato, denunce arrivano da I Cordai del GAPA e da I Siciliani giovani, da Lavika e Linkiesta che arriva a affermare senza mezzi termini che «la Chiesa locale a tratti promette severità assoluta per il futuro, mentre in altri casi sembra più disponibile a ‘trattare’ con la realtà mafiosa».

Il punto è che, nonostante quello che si potrebbe pensare, in questi casi la democraticità della rete con i suoi strumenti a costo zero, non ha ricadute significative se, come crediamo non si possa fare diversamente, teniamo conto del numero dei contatti.

Qualche commento

Questa vicenda seguita per grandi tappe pone una serie di problemi di non semplice soluzione che possiamo solo proporre come temi di riflessione.
Sembra che a nessuno, tranne che a poche voci forti ma di minoranza o comunque marginalizzate faccia piacere mettere in discussione la festa, come se la stessa fosse un tabù, e certamente non solo per ragioni di devozione. La festa è un lungo momento che scuote la città per una settimana circa, ma i cui preparativi – leciti e illeciti – durano quasi tutto l’anno. La sua importanza e la sua forza di fascinazione sono tali che tutti i poteri – sacri e profani, legali e non – ne sono sedotti e aspirano a impadronirsene per fare della festa religiosa, cioè della religione in una delle sue forme, un lasciapassare per le vie del successo, economico e non solo.

Milena Gabanelli nella puntata di Report del 15 marzo 2009 (intitolata I Viceré), vi dedica un certo spazio. Brevemente, la giornalista sintetizza così il senso del coinvolgimento mafioso: «per la famiglia mafiosa la gestione della festa accresce prestigio, con il prestigio ti affermi come centro di potere, con il potere puoi condizionare le intenzioni di voto, e con il voto ti garantisci gli appalti pubblici». La festa della patrona, gigantesco spazio mediatico, funziona come tam tam elettorale a vari livelli, ma soprattutto a livello popolare. Per certi aspetti fa pensare alla funzione ponte – tra elettorato e una certa politica – svolta dai cantanti neomelodici con i loro concerti nelle piazzette rionali siciliane, denunciata dal recente e amarissimo film di Maresco: Belluscone.

D’altra parte c’è un altro aspetto non meno inquietante di questa storia, cioè la pretesa autentica devozione dei criminali, che apre un diverso orizzonte di riflessioni sull’equivoco del ‘Dio dei mafiosi’ e su un problema che la chiesa cattolica tende a ignorare. Un problema emerso in modo forte dalla conversazione tra Roberto Scarpinato e Monsignor Mogavero (Micromega 7/2012): quello del rapporto tra uomo e Dio, che nel cattolicesimo si avvale di «mediatori culturali» che legittimano una visione di Dio e della religione fungibile secondo il proprio tornaconto e funzionale a tutte le forme di potere. Questo stesso fatto apre riflessioni sul ruolo dei mediatori – santità e gerarchia ecclesiastica – che solo il cristianesimo di marca cattolica ha.

Al di là delle condizioni geostoriche sulle quali si radica il fenomeno mafioso, la domanda è quanto conta il principio autoritativo e di sacralizzazione tipico del clero cattolico sul potere di mediazione tra i mafiosi e il ‘loro’ dio?

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