Non è un Paese per dissidenti.
18 anni di misteri nella Russia di Putin

Novichok, dunque. A due settimane dall'”accidente” sul volo di rientro a Mosca dalla Siberia, il malore di Alexei Navalny ha infine una causa ufficiale – avvelenamento – ed uno strumento certo con cui esso è stato perpetrato: il noto gas nervino di produzione sovietica. Così ha concluso con “prove incontrovertibili” basate sugli esami medici la Germania, dove Navalny è ricoverato da quando, lo scorso 22 agosto, un aereo lo ha recuperato per fornirgli cure d’urgenza a Berlino. “Qualcuno ha voluto silenziare Alexei Navalny”, ha commentato con tono grave la cancelliera Angela Merkel, “e questo solleva interrogativi inquietanti, cui solo il governo russo può, e deve, rispondere”:

Agli occhi occidentali, in effetti, le tracce di Novichok nel corpo del più temibile oppositore di Vladimir Putin sembrano come la più evidente delle pistole fumanti. Eppure sino a quando non vi siano prove incontrovertibili anche di ciò, nessuno può apertamente accusare il Cremlino della responsabilità dell’aggressione: proprio come accaduto innumerevoli volte negli ultimi due decenni, quando una lunga serie di giornalisti, attivisti e oppositori politici sono stati ridotti al silenzio.

Giorni fa Gleb Pavlovskij, ex consigliere politico di Putin passato all’opposizione, non escludeva in effetti che, ammesso esista un coinvolgimento di Mosca, l’operazione possa essere stata avviata senza il consenso e l’autorizzazione del presidente. Tuttavia, intervistato dal Corriere della Sera, l’analista ha confermato che il numero di avvelenamenti, in Russia, è in continuo allarmante aumento. E non è certo l’unico modo in cui personaggi “scomodi” sono aggrediti: dal 2002, sono stati almeno 15 gli attivisti, avversari politici e contestatori depotenziati, silenziati o allontanati dal Paese. Arresti, sparizioni, intimidazioni, intossicazioni da sostanze sospette o l’esilio, come se a ognuno fosse riservato un destino diverso, capace di mostrare al mondo l’esistenza di tante “punizioni” – in base, forse, alla fama e al grado di “pericolosità” della persona coinvolta. Ma in ciascuno di questi casi, la mano del Cremlino è sempre rimasta invisibile.

 

Nomi dimenticati

Il primo è stato Ibn Al-Khattab, celebre comandante saudita morto in Cecenia nel marzo del 2002 dopo aver aperto una lettera contaminata. In base a quanto ricostruito da alcune fonti cecene, la missiva era pregna di gas nervino ed era arrivata al fondamentalista perché spacciata per un messaggio della madre. Un anno dopo, nel luglio 2003, il giornalista investigativo e deputato Yuri Shchekochikhin aveva perso la vita in circostanze mai del tutto chiarite. I sintomi somigliavano a quelli di una violenta reazione allergica, ma tempo dopo le cause del decesso vennero attribuite a un’emorragia cerebrale (versione a cui amici, familiari e collaboratori non hanno mai creduto). A distanza di 17 anni, la documentazione medica sul suo caso non è stata pubblicata. Il reporter, nella sua carriera, aveva raccontato e descritto le violenze del conflitto ceceno, attribuendo responsabilità ai governi di Boris Eltsin e di Putin. Sempre nel 2003, altri due separatisti del Caucaso vennero intossicati con una sostanza al fosforo, in Georgia.

Il 25 ottobre 2003, l’oligarca Mikhail Borisovic Khodorkovsky venne arrestato (e condannato nel 2005) per truffa e frode fiscale a otto anni di carcere, insieme al suo ex socio alla Yukos Platon Lebedev. Nel dicembre del 2010 la pena venne aumentata a 14 anni, perché fu ritenuto responsabile del furto di 350 milioni di tonnellate di petrolio e riciclaggio per quasi 24 miliardi di dollari. A lungo venne considerato un prigioniero politico, perché prima di essere incarcerato aveva denunciato pubblicamente i problemi di corruzione in Russia. Il 18 dicembre 2013, la Duma approvò un provvedimento di amnistia per i reati di cui era accusato e due giorni dopo, appena uscito dal carcere, si trasferì in Germania. Liberato, oggi vive a Londra, praticamente in esilio.

Nel settembre 2004, l’ex presidente e politico ucraino Viktor Yushchenko (non un dissidente russo, dunque, ma certamente un avversario politico di Putin) si ritrovò con il volto sfigurato da un’importante eruzione cutanea. I danni rimasero permanenti e solo successivamente il tossicologo inglese John Henry del St Mary’s Hospital di Londra dichiarò che a determinare quelle cicatrici era stato il cloracne, per un avvelenamento da diossina. Che, infatti, nel sangue c’era. Bram Brouwer, tossicologo olandese, compiendo alcune analisi di laboratorio ne individuò un quantitativo 6mila volte superiore alla normalità e confermò la diagnosi di Henry. Secondo le prime ricostruzioni, anche il presunto avvelenamento sarebbe avvenuto per ingestione, probabilmente durante una cena. Le prove di un coinvolgimento russo non vennero mai confermate.

Nello stesso periodo, la giornalista della Novaja Gazeta, Anna Politkovskaja, da sempre voce critica del potere politico, ebbe un malore mentre si trovava su un volo che la portava a Beslan, durante la crisi degli ostaggi, dopo aver bevuto una tazza di tè. Perse conoscenza e l’aereo fu costretto ad atterrare per il ricovero. La reporter denunciò pubblicamente quel tentativo di intossicazione, ma nessuna sostanza venne mai identificata. Nel dicembre del 2005, durante una conferenza di Reporter Senza Frontiere, a Vienna, parlando di libertà di stampa, disse: “Certe volte le persone pagano con la vita il fatto di dire ad alta voce ciò che pensano”. Il suo corpo venne ritrovato il 7 ottobre 2006 nell’ascensore del suo palazzo, a Mosca. Le autorità, accanto al cadavere, individuarono una pistola e quattro bossoli. Quattordici anni dopo, nessuno conosce il nome del mandante e l’esecutore materiale del suo assassinio.

 

Nemici di Stato

Il 23 novembre dello stesso anno, l’ex agente segreto russo Aleksander Litvinenko morì in seguito alle complicazioni di una malattia fulminante. La causa? Avvelenamento da radiazione da polonio, un isotopo radioattivo del polonio. Le circostanze non furono mai del tutto chiarite e tracce di quella sostanza vennero individuate in diversi locali del centro di Londra, nei quali l’ex agente era stato prima del ricovero. Anche in quel caso, la tossina potrebbe essere stata versata in una teiera e poi assunta inconsapevolmente. Le ultime immagini del dissidente russo (già in esilio), completamente senza capelli, in un letto d’ospedale, furono diffuse in tutto il mondo. Prima di morire, Litvinenko accusò apertamente Putin.

Nel 2007, il campione di scacchi Garri Kimovic Kasparov dichiarò pubblicamente la sua opposizione alle politiche del presidente russo, in particolare dopo aver fondato un movimento politico ispirato al liberalismo sociale e alla socialdemocrazia. Il 13 aprile di quell’anno, in occasione di alcune manifestazioni di protesta nella capitale, in piazza Puskin, il giocatore venne prima fermato e poi arrestato perché coinvolto in un corteo contro Putin. Il secondo arresto di Kasparov avvenne un mese dopo, il 18 maggio, all’aeroporto di Mosca, insieme ad alcuni attivisti e giornalisti. Il 24 novembre venne incarcerato per cinque giorni per aver partecipato a una manifestazione non autorizzata, organizzato per le elezioni parlamentari. Lo stesso accadde il 17 agosto 2012, quando disse di essere stato fermato senza motivo e poi picchiato dagli agenti di polizia. Intimidito, arrestato diverse volte e scoraggiato dal trattamento che ha sempre denunciato, nel 2013 lasciò il Paese definitivamente per trasferirsi a New York e il 28 gennaio 2014 ottenne la cittadinanza croata.

Nel febbraio 2012, una band punk rock costituita da sole donne incappucciate aveva fatto irruzione nella cattedrale di Cristo Salvatore, tempio della Chiesa ortodossa di Mosca. Le Pussy Riot, dopo essersi fatte il segno della croce, si erano “esibite” con una canzone di protesta contro la rielezione del presidente. Subito fermate e accompagnate fuori, dopo un’indagine dell’antiterrorismo, il 3 marzo 2012, le autorità di Mosca ne arrestarono prima due, Marja Alëchina e Nadezda Tolokonnikova, e infine una terza, Ekaterina Samucevic. Sottoposte a diversi interrogatori, nessuna di loro rivelò mai i nomi delle altre musiciste. Dopo cinque mesi di detenzione preventiva, la loro performance fu punita col pugno di ferro: due anni di carcere per “teppismo motivato da odio religioso” – anche se nel dicembre 2013 Alëchina e Tolokonnikova beneficiarono dell’amnistia votata dalla Duma.

Nel febbraio 2015, Boris Nemtsov, allora leader dell’opposizione, venne trovato morto per le strade della capitale russa, ucciso da una serie di colpi d’arma da fuoco. Nessuno rivendicò l’azione pubblicamente, ma Mosca attribuì la responsabilità a dei possibili sicari. A pochi giorni dall’omicidio, la polizia arrestò cinque cittadini ceceni, sospettati di essere i responsabili della sua morte. Putin definì l’omicidio “una provocazione”. Nel maggio dello stesso anno, Vladimir Kara Murza, molto vicino a Nemtsov, si sentì male durante una riunione. I medici individuarono i sintomi tipici dell’avvelenamento, ma la causa del suo malore non venne mai definita. “Se qualcuno voleva spaventarci, ci è riuscito” aveva detto il padre alla Bbc. Nel 2017 venne ricoverato d’urgenza in un reparto di terapia intensiva in una condizione molto simile. Portato in un ospedale fuori dal Paese, la diagnosi fu di intossicazione dovuta a una sostanza sconosciuta. Dopo l’ultimo presunto avvelenamento, il dissidente lasciò il Paese. Oggi vive all’estero.

 

La voce dei sopravvissuti

Il 4 marzo 2018, l’ex spia russa Sergei Skripal e la figlia Julija si accasciarono improvvisamente su una panchina vicino a un centro commerciale di Salisbury, in Gran Bretagna. Qualcuno, non vedendo alcuna lesione fisica, chiamò i soccorsi e dopo il ricovero in una struttura ospedaliera della città venne isolata la causa di quel malore: un grave avvelenamento da gas nervino. Padre e figlia finirono in coma e, oltre a loro, altre 21 persone furono coinvolte nell’intossicazione da Novichok. Entrambi sono sopravvissuti, ma l’episodio determinò un grave deterioramento dei nei rapporti tra Russia e Regno Unito.

Dopo il caso Skripal e prima di Navalny, nel settembre 2018, fu Pyotr Verzilov, attivista ed ex marito di Nadezda Tolokonnikova, ad accusare improvvisi e gravi sintomi di un sospetto avvelenamento, con una dinamica molto simile a quella del 44enne in coma ora a Berlino. Venne, infatti, trasferito nella capitale tedesca all’ospedale Charité e riuscì a salvarsi. Due mesi prima, si presentò sul campo della finale dei Mondiali di calcio, vestito da poliziotto, con le Pussy Riot, nello stadio di Mosca, per manifestare contro le persecuzioni nei confronti dei dissidenti. Sostiene ancora di essere costantemente intimidito dalle forze dell’ordine e in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera ha dichiarato: “Hanno aperto un fascicolo per irregolarità nel passaporto. A giugno ero stato prelevato da 20 poliziotti e interrogato per 13 ore di fila perché sospettato di sedizione per una manifestazione. Sono finito in prigione per 15 giorni. In Russia, questa è la normalità: viviamo in un regime oppressivo e cerchiamo di comportarci come persone oneste, cerchiamo di fare quello che riteniamo giusto. Non si tratta di un coraggio eccezionale: è molto diffuso, sono tantissime le persone che, nonostante le minacce, non si piegano, non accettano i soprusi, chiedono democrazia, elezioni libere, lo stato di diritto”.

 

Foto: Odd Andersen / AFP

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