Una radio europea

Per molti l’Unione europea è come il Sarchiapone, l’animale immaginario che nel famoso sketch televisivo con Walter Chiari era nascosto in una gabbietta coperta da un telo. Nella scenetta degli anni Cinquanta, il padrone fingeva di essere stato morso dall’animale e lo descriveva in modo sempre più spaventoso per terrorizzare i passeggeri e viaggiare da solo nello scompartimento di un treno. Alcuni fingevano di conoscerlo inventandosi le sue caratteristiche per non perdere la faccia, altri non avevano alcuna intenzione di alzare il telo, altri ancora scappavano dal vagone. L’Unione europea è la stessa cosa, un’idea astratta che cambia a seconda del narratore. Ognuno a seconda delle proprie esperienze e opinioni mette dentro ciò che vuole: l’erasmus, l’abolizione del roaming, viaggiare senza confini e non avere idea di cosa sia una dogana; ma anche la farraginosa burocrazia, le lobby, i regolamenti complicati, le discussioni infinite sul sesso degli angeli. E nel peggiore dei casi l’Unione europea viene vista da due posizioni distinte, manichee: la soluzione di tutti i problemi, l’origine di tutti i mali.

«Per me Europa vuol dire opportunità», dice Alice Masoni, 28enne laureata in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali che da Montaione, paesino in provincia di Firenze, ora vive e studia giornalismo alla VUB – Vrije Universiteit di Bruxelles. Da tre anni Alice fa parte della redazione europea di Europhonica, un piccolo gruppo di universitari provenienti da Italia, Francia, Spagna, Germania, Portogallo e Grecia che ogni mese informa i propri coetanei sui lavori del Parlamento europeo realizzando un programma radiofonico in diretta dall’Aula di Strasburgo. «Nel 2015 facevo parte della redazione di Uradio, la radio degli universitari di Siena. Quando ho letto che c’era la possibilità di fare un programma radio sull’Unione europea mi sono detta che dovevo provarci, anche se non sapevo in cosa mi stessi infilando, ma è stata una delle scelte migliori che ho fatto. Mi ha fatto sentire più europea. Magari prima lo ero, ma in modo vago, astratto. Questa esperienza mi ha reso consapevolmente europea perché sono stata costretta a spiegare ai miei coetanei come funziona la logica del palazzo. E da cittadina consapevole europea ho deciso di studiare a Bruxelles, come se fossi andata a studiare a Milano. Sempre Europa è».

L’opinione sull’Unione europea cambia a seconda della geografia. A Est soffia un vento sovranista che si sposta sempre più verso l’Europa occidentale. Ma anche a sud, c’è chi avrebbe tutte le ragioni per odiare l’Europa. Come Iasonas Forlidas, che lavora nella radio dell’Università di Patrasso, in Grecia. «Ho viaggiato a Strasburgo in un momento di dolore per la Grecia, quando il paese era stato calpestato dalle politiche di austerità volute da Bruxelles. Ma durante quel viaggio, ho scoperto persone che condividevano gli stessi pensieri sul presente e sul futuro dell’Unione, e mi hanno fatto credere ancora in un’Europa unita, al di là delle ricette economiche o delle politiche pubbliche. Europhonica ha riacceso la mia speranza per un futuro europeo migliore».

Lo pensa allo stesso modo Guillermo Verdin Alonso, 29enne di Oviedo che si definisce asturiano, spagnolo ed europeo, rigorosamente in quest’ordine: «In Europhonica, così come in altri progetti radiouniversitari europei ho condiviso modalità di lavoro, idee, opinioni sulla UE. Parlando insieme oltre gli stereotipi e gli slogan, abbiamo scoperto che sono più le cose che ci uniscono di quelle che ci dividono».

Giovani, universitari, con una famiglia alle spalle che aiuta a fare l’erasmus e a scoprire molte culture. Se un gruppo di ragazzi ha la fortuna di viaggiare gratis una volta al mese a Strasburgo e di fare uno dei lavori più belli del mondo è facile dirsi europei. Sembrano discorsi di un’elites e non di giovani tra i giovani.

«Ma ci deve essere per forza un elites che accompagni, medi e faccia capire a tutti quello che sta succedendo», dice Caterina Moser, 24enne di Trento che ora lavora a radio London 1, nella capitale del Regno Unito. «La politica europea può interessare moltissime persone che non hanno i mezzi e gli spazi per conoscere certi meccanismi, e non possono condividere le idee e discutere le proprie opinioni con altri europei. Io sono fortunata perché andando a Strasburgo posso parlare con i miei coetanei portoghesi, francesi, tedeschi. Ma chi non può farlo? Per questo serve un piccolo gruppo che sia composto da giornalisti, politici o anche giovani universitari che vada in avanscoperta, capisca il meccanismo e faccia da ponte culturale tra la politica europea e i propri coetanei. Europhonica è questo: un ponte che fa comunicare due mondi distanti».

«Ma non è solo un élites a parlare di Europa. Viviamo in un mondo in cui tutti hanno potenzialmente accesso alle informazioni, il problema è che le elites hanno maggiori capacità di processare e mediare informazioni e purtroppo spesso anche di controllarle», sostiene Fabiano Catania, 28 anni, siciliano di Augusta abituato a girare con la valigia in mano: ha studiato a Pisa e grazie a una borsa di studio privata ha studiato e lavorato a Parigi e ora continua il suo percorso a Torino. «Mi sento parte di un’elite che ha avuto la possibilità di studiare lontano da casa. L’erasmus resta ancora uno strumento per pochi a causa delle borse di studio insufficienti a coprire il costo della vita in molte città Europee. Spesso si tende a considerare la propria cerchia come campione statistico e quindi si finisce per avere sempre un’idea parziale di un fatto. Fuori dal mondo dell’elites erasmus, c’è una grande quantità di giovani non interessati alla politica e di conseguenza non interessati all’Unione europea. La vera sfida dell’Ue é comunicativa. Ciò che l’Unione dovrebbe fare è comunicare i suoi valori. Ciò che invece emerge sono le sue enormi storture che poi a livello mediatico sono le cose che colpiscono di più l’audience, soprattutto quello giovane».

I giovani europei sono una categoria così vasta entrare a fatica nelle etichette che riceve dai media. Una cosa è certa: chi è nato dalla caduta del muro di Berlino in poi conosce solo un tipo di Unione europea e spesso la problema non è essere a favore di sovranismi, riformismi o federalismi. La vera divisione sembra essere tra chi si interessa dell’Europa e chi ne è indifferente.

Per Guillermo: «La chiave per rendere meno fragile l’Europa la conoscenza dell’altro non attraverso i media o le opinioni, ma nella convivenza, giorno per giorno, nella pratica, nella vita “reale”. Non lo senti e non lo assimili finché non lo vivi direttamente. La “generazione Erasmus” è l’unica che può far sopravvivere l’Unione europea perché è quella che ha vissuto da pari a pari con gli altri europei, senza mediazioni»

E secondo Caterina «è proprio questo il minimo comun denominatore tra di noi: il confronto».

Non tutti i redattori di Europhonica vedono un futuro roseo e scontato. Nicola Pifferi, 22 anni, è di Trento e dai racconti di suo nonno sa che una volta l’Europa era fatta di confini, scontri culturali e militari. In estate ha lavorato in una radio a Monaco di Baviera e a settembre è tornato a studiare Economia all’università di Bolzano «Mi chiamo Pifferi, ma il cognome originale era Pfeifer, mio nonno ha dovuto cambiarlo durante la nazionalizzazione dei trentini sotto il fascismo. Anche grazie a lui so che la libertà non è scontata. Ma ci rendiamo conto che da 70 anni non ci facciamo la guerra? Basterebbe questo a scoraggiare qualsiasi nazionalista. Negli ultimi mesi sono diventato sempre più pessimista, non sono sicuro che l’Ue possa sopravvivere a queste ondate sovraniste, anche se voglio credere che possa farcela. L’unica cosa che mi fa sperare è la massa di giovani silenti, non coinvolti nella politica. Non parlano non urlano le loro idee ma credono in una Ue più unita culturalmente».

Luis Jachman è l’esempio plastica di un’unione culturale: nato a Dussledorf, ha studiato a Berlino, vive e lavora a Parigi come fotogiornalista. Dopo due anni di Europhonica ha un’idea su come fermare questo trend illiberale: «La soluzione migliore è lo scambio culturale, conoscersi,anche farsi male nelle differenze ma capirsi. La mia generazione ne ha già beneficiato molto. I miei coetanei che si sono fermati all’estero vedono subito i vantaggi di un’Unione intensificata. Se resti a casa, ancora peggio nella tua città per sempre, non capirai mai cosa vuol dire Europa».

«Chiariamo una cosa: il sovranismo è una parola troppo generica. Chiamiamolo col suo vero nome: un nazionalismo esclusivo», dice Alice Masoni, «Non credo una dimensione sovranazionale possa esistere di per sé. Le scelte devono partire dal coinvolgimento dei ragazzi,addirittura dai bambini. Il problema secondo è che le realtà più piccole ed emarginate non si sentono coinvolte. Come se ne esce? Educazione che parte dai bambini, un approccio critico e non passivo. Qui in Belgio vivo un’educazione attiva, critica dove l’individuo è coinvolto. Nella quotidianità bisogna ascoltare i problemi delle persone. C’è una parte di giovani che nemmeno ha voglia di sentire parlare di nazionalismo e vorrebbe spiegare che non è così e basta. E invece dobbiamo ascoltare nel quotidiano. Solo partendo dal piccolo si possono ottenere risultati nel grande. Politiche non condivise dall’alto saranno sempre viste come imposizione. Dialogo, discussione, ascolto anche litigi sono fondamentali se servono ad avere un confronto tra le persone».

«L’Europa siamo noi. Facciamo entrare i cittadini nell’’europarlamento con conferenze, tour, seminari dedicati ai giovani. Inseriamo a scuola una materia come l’educazione civica europea dove discutere delle notizie, creare dibattito, cercare di costruire una mente critica e insegnare ai ragazzi e crearsi una propria opinione, anche critica dell’Ue, ma almeno non influenzata da slogan», dice Caterina.

Per Fabiano invece l’unico elemento da cui l’Europa deve ripartire è la solidarietà. «Oggi vedo un’Europa fortemente individualista in cui alcuni paesi cercano costantemente di prevaricare altri. Sarebbe necessario ripartire da ciò che ci accomuna e non da ciò che ci divide. Sull’immigrazione ad esempio è indubbio che l’Italia e la Grecia abbiano problemi e interessi (anche geopolitici) diversi dalla Finlandia o dall’Austria. Per questo è necessario battere sul concetto di mutualità per cui chi è in difficoltà deve aiutare l’altro perché un giorno, sarà l’altro ad essere nella stessa situazione».

Ascolto, educazione, movimenti dal basso, scambi culturali. Ogni latitudine europea ha la sua sfumatura. Ma su una cosa i ragazzi di Europhonica concordano: il modo migliore per combattere i nazionalismi o un trend illiberale non è una ideologia politica, né un leader carismatico o un principio economico, ma la voglia di capire le posizioni dell’altro. Non un contenuto ma un metodo. In fondo secondo Eco la lingua dell’Europa è la traduzione, allora l’embrione per un’Europa non più lontana e burocratizzata da cui ripartire può essere l’incontro. Forse ascoltandosi, si capirà cosa c’è dentro la gabbia, nascosta dal velo.

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