Immigrazione: le paure che meritano rispetto

La stagione sovranista che stiamo vivendo non sarà breve: per contrastarla non basteranno prese di posizione e polemiche, né i richiami a Weimar e al fascismo. Chi è per l’Europa e per la costruzione di una sovranità europea ha la responsabilità di convincere i suoi concittadini della bontà di questi obiettivi, cioè di dimostrare che sono da perseguire non soltanto per una questione di valori (la pace, la coesistenza dei popoli, lo scambio culturale…), ma anche e soprattutto perché sono nell’interesse nazionale dei diversi popoli del continente. Questo significa anzitutto che il progetto europeista deve essere sottratto alla retorica ed essere reso più realistico: la sovranità sovranazionale deve essere concentrata su alcune questioni di fondo – bilancio, sicurezza, immigrazione – mentre le altre questioni possono e devono essere lasciate agli stati. Gli stati nazionali sono ben lontani dall’aver perso le loro ragioni di esistere, infatti.

Gli Stati Uniti d’Europa non sono un obiettivo di oggi. Un demos europeo deve ancora essere costruito, e questo significa che una compiuta costruzione sovranazionale non è oggi possibile. Peraltro in questo momento l’Europa è in piena crisi esistenziale, e io non credo che questo derivi da problemi di governance, credo piuttosto il contrario: è difficile ristrutturare la governance perché l’Europa non sa bene che cos’è e che cosa vuole diventare.

La crisi esistenziale ha le sue ragioni più profonde nei mutamenti geopolitici che stiamo vivendo. Per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale (ma il processo era iniziato già con la presidenza Obama) l’ombrello americano, che ha assicurato pace e democrazia, si sta chiudendo, mentre avanza l’influenza della Russia di Putin, e sullo sfondo si staglia la crescente presenza della Cina. Due grandi potenze che sono estranee alla tradizione liberaldemocratica, che dal 1945 si è identificata con lo strettissimo legame tra Europa e Stati Uniti. La vera domanda è: ci può essere Europa senza democrazia liberale? La risposta per me è no. Ma questo mi porta a un’altra domanda: ci può essere Europa – da un punto di vista politico e culturale, oltre che industriale e militare – fuori da quel legame con gli Stati Uniti? Se la risposta affermativa non è pura retorica, allora costruire la sovranità europea significa anzitutto affermare un’Europa in grado di stare in piedi da sola, di darsi un’identità coerente con la sua storia liberaldemocratica e una missione propria nel quadro globale. Compito, come si può capire, tutt’altro che facile, quando anche tra i paesi dell’Unione si sta diffondendo una versione non liberale della democrazia.Il rigurgito nazionalista dipende da questa crisi esistenziale. Il tessuto dell’Europa si smaglia, e viene fuori il bisogno di identità nazionale e culturale. Lo vediamo nel Regno Unito, nei paesi scandinavi, perfino in Germania.

La centralità del tema dell’immigrazione, per certi aspetti paradossale, visto che siamo oggi lontani dall’emergenza, si spiega così: paura di perdere l’identità. Il bisogno di identità non è necessariamente qualcosa di negativo, se non è vissuto in termini nazionalistici.

L’identità può avere anche una declinazione soft, che mette in primo piano la storia, la condivisione di percorsi formativi e culturali che sono effettivamente comuni, ma non escludono a priori gli “estranei”. La sinistra riformista ha finora trascurato il tema dell’identità, considerandolo automaticamente di destra. Questo è certamente uno dei motivi principali della sua attuale e sempre più grave crisi.

Con la globalizzazione, l’Occidente intero ha perso il suo dominio sul resto del mondo, che dava benessere e sicurezza, ma anche identità, ruolo, e di conseguenza coesione sociale. Riconoscere l’importanza di questo fatto consente di capire come le manifestazioni nazionalpopuliste prendano forme anche molto diverse, lungo tutto lo spettro sinistra-destra. Se è così, è chiaro che si tratta di un passaggio epocale molto difficile, che non può essere governato soltanto con principi astratti come l’universalismo o il cosmopolitismo. La politica, come alcuni filosofi ci hanno insegnato, non è pura razionalità, ma si basa sulleemozioni. Come la paura, l’insicurezza, l’odio. Ci sono forze politiche che su queste emozioni prosperano.

Chi voglia essere di sinistra nel difficile mondo di oggi deve proporsi di governare queste emozioni, di sminarne la carica distruttiva. Ma per farlo bisogna anzitutto riconoscerle, comprenderne le ragioni. Dare risposte, senza cedere alla deriva populista e sovranista, ma anche senza rinchiudersi nella torre d’avorio di chi pensa di aver dalla sua la ragione universale.

Dunque la questione dell’identità non va lasciata alla destra, ma riformulata radicalmente, partendo dal patrimonio storico della cultura europea, che è quello di una democrazia inclusiva, non difensiva, non armata verso l’esterno. Rifiutando le politiche identitarie, che puntano ad una società chiusa, la sinistra riformista dovrebbe impegnarsi a definire e diffondere un’accezione progressiva dell’identità, nazionale ed europea, senza demonizzarne il bisogno, senza demonizzare la paura.

L’identità può essere nazionale o europea; e proprio qui io credo si apra lo spazio per una riflessione e soprattutto per una battaglia culturale. È chiaro che i sovranisti enfatizzano l’identità nazionale, in termini di lingua, di tradizioni, di cittadinanza. Ma accanto all’identità nazionale c’è un’identità europea, potenzialmente più forte. È l’identità della cultura della libertà e dell’eguaglianza degli individui, la cultura del pluralismo e della tolleranza, e anche dello scambio con le culture diverse, che i popoli europei hanno praticato fin dai tempi di Alessandro Magno. È su questa che bisogna lavorare. Su cosa significa essere europei, al di là delle politiche monetarie e della burocrazia della Commissione o del Parlamento. C’è unacultura europea che dev’essere rivendicata come un forte elemento identitario che non si contrappone, ma si accompagna alle identità nazionali. La sinistra riformista potrebbe trovare il suo compito specifico proprio nella valorizzazione di questa identità condivisa dei popoli europei, quella che ha dato vita e sperimentato, tra mille contraddizioni e conflitti, ma con crescente successo, il pluralismo come vocazione comune di sistemi politici basati sulla libertà e sull’eguaglianza – quella “pluralità di strade diverse” a cui l’Europa, secondo J.S. Mill, “deve interamente il suo sviluppo progressivo e multiforme” (Mill 1999, p. 164).

Con uno slogan direi che bisogna battere le semplificazioni, ma riconoscere le emozioni. Se si vuole cambiare l’agenda si deve cambiare il discorso. Se si vuole cambiare il discorso, senza nulla cedere ai populismi, si devono prendere sul serio le emozioni che stanno dietro al voto per i populisti e che sono da loro sfruttate.

È abbastanza diffusa la convinzione che la crisi che il mondo occidentale sta vivendo non sia una semplice crisi politica, ma piuttosto una crisi della rappresentanza e quindi della democrazia. Anzitutto nel senso che i più svantaggiati, i perdenti, gli impoveriti, quelli che stanno peggio di come stavano prima, i forgotten di Trump – tutti questi non sono rappresentati da nessuna forza politica, e costituiscono quindi l’enorme serbatoio del populismo, di destra e di sinistra. Più in profondità, nel senso che si è inceppato il meccanismo proprio della democrazia rappresentativa come l’abbiamo conosciuta nel Novecento, cioè il circolo virtuoso tra cittadini (“popolo”) ed élite. Per quanto ci si affanni a dire che il termine è generico e oscuro, tuttavia sappiamo bene che cosa vuol dire populismo: è un movimento – forse dovremmo piuttosto definirlo uno stato d’animo politico – fortemente contrario 1) alle élite, investite di una condanna morale; 2) al pluralismo, che è incompatibile con l’idea di popolo come entità omogenea, che si pretende abbia una espressione politica in quanto tale; e 3) alla divisione dei poteri. Come sostiene J.-W. Müller (2017), il populismo, per quanto possa sembrare strano, non promuove la partecipazione politica: infatti non costruisce processi di formazione della volontà popolare, ma si limita ad evocare un popolo mitico la cui volontà è di fatto inverificabile (nello stesso senso anche Urbinati 2014). Ha quindi una intrinseca tendenza totalitaria. Proprio per questo, il populismo non può essere considerato qualcosa di poco pericoloso, che si possa addomesticare; ma va combattuto con la stessa consapevolezza e la stessa forza con cui le democrazie hanno saputo combattere i totalitarismi del Novecento. I difensori della democrazia liberale dovrebbero riflettere sulle forme della politica democratica e anche sui suoi fondamenti morali. Sembra però che quel che resta delle nostre élite politiche non riescano ad affrontare questa riflessione, né in Europa, né in America. La debolezza di tali élite appare oggi drammaticamente evidente sulla questione migratoria, soprattutto in Europa, dove la costruzione comune di cui siamo tanto fieri rischia di saltare in aria per la difficoltà di coordinare le politiche nazionali sull’immigrazione.

La questione dell’immigrazione è spinosa non solo per la difficoltà di gestirla politicamente, ma anche perché incorpora delle contraddizioni. Da un lato la Dichiarazione dei diritti umani (1948) colloca il diritto di emigrare tra i diritti umani, cioè i diritti che sono in capo agli esseri umani come tali, e non sono legati alla cittadinanza; dall’altro non prevede un diritto ad essere accolti, né un dovere degli stati ad accogliere. Come dire che nella stessa persona l’emigrante e l’immigrato sono due facce diverse e non necessariamente coincidenti. Quella persona ha diritto di emigrare, ma non ha diritto di immigrare, cioè di entrare in un altro paese. La Convenzione di Ginevra (1951), firmata solo da alcuni stati, è più precisa, stabilisce il diritto degli emigranti ad essere accolti, dunque a divenire immigrati, ma si riferisce solo ad alcuni gruppi (in fuga da guerre, persecuzioni, ecc.).

Si crea così una significativa differenza giuridica tra chi emigra per ragioni “riconosciute” e i così detti migranti “economici”: come se emigrare per fuggire dalla povertà o per cercare una vita migliore non dovesse fondare lo stesso diritto.

È chiaro invece che il vero problema, quello che farà durare per decenni l’ondata migratoria dall’Africa, è proprio l’emigrazione “economica”, che vede masse ingenti di esseri umani spostarsi (come in vasi comunicanti) dalle aree più povere del mondo – ma più ricche dal punto di vista demografico – a quelle più ricche, e più povere dal punto di vista demografico. Con quale fondamento morale possiamo limitare il diritto all’accoglienza ai soli rifugiati, negandolo alle persone in cerca di una vita migliore? Tra l’altro, questa situazione fa sì che molti “economici” si travestano da aspiranti rifugiati, andando così a ingrossare il numero degli irregolari, con tutto ciò che questo significa in termini di illegalità e di difficoltà di gestione. Quella dei richiedenti asilo è molto spesso “una finzione giuridica” (Allievi 2018), e produce un esercito di irregolari e clandestini che ovviamente sfuggono al controllo della legge (quel controllo a cui tutti i cittadini sono soggetti) e all’integrazione. Si dovrebbe allora sostenere il diritto all’accoglienza come un diritto morale fondato semplicemente sulla qualità di essere umano? Nel 1795 Kant – interpretando al livello più alto lo spirito cosmopolitico dell’Illuminismo, e separando i diritti dell’uomo da quelli del cittadino – aveva affermato il diritto all’ospitalità, cioè il diritto di ogni essere umano ad essere ospitato, fatto entrare, in qualunque territorio, a prescindere dalla sua cittadinanza e quindi dai rapporti o dagli accordi tra lo stato in cui entra e lo stato da cui proviene. Noi sappiamo però che non è mai così: quando entriamo in un paese ci viene chiesto un documento valido per l’espatrio, nonché un visto per l’ingresso, a meno che ci siano particolari accordi tra gli stati (come Schengen, o l’eliminazione dei visti per alcune nazionalità), o circostanze particolari, come quelle che definiscono i requisiti per avere lo status di rifugiati.

In ogni caso è la legge del paese ospitante a definire le regole e le opportunità. La mia tesi è che ciò sia non solo ineliminabile, ma anche giusto.

Sappiamo bene che si è creata soprattutto in Europa, ma anche in America, una reazione di rifiuto degli immigrati, che peraltro fa confusione tra regolari e clandestini, e che approda a una forte richiesta di chiusura dei confini. Questa reazione sta scuotendo in modo preoccupante le nostre istituzioni sia statali sia europee e richiede di essere presa molto sul serio, perché potrebbe cambiare il futuro delle nostre democrazie. Alcuni considerano la chiusura all’immigrazione una insopportabile violazione dei diritti umani, e pensano che si dovrebbero accogliere tutti i migranti, negando la legittimità dei confini (Bauman 2016, Di Cesare 2017), cioè rifiutando la sovranità dello stato nazionale. Un mondo senza confini può essere una bella utopia, o forse, per qualcuno, un obiettivo politico di lunghissimo termine. Ma le cose, sia a livello teorico che a livello pratico, sono molto più complicate. Lo stesso Kant non ignorava affatto la difficoltà di piegare gli stati a una istituzione sovranazionale. Sostenere il diritto universale all’accoglienza può apparire giusto solo se si ignora il fatto che gli individui appartengono ad una comunità, e da ciò derivano diritti e doveri. Tra i confini del tutto aperti e i confini del tutto chiusi c’è una via di mezzo, che – come spesso accade – è la più praticabile e insieme la più equa: quella che alcuni chiamano dei confini “porosi”.

Confini che non cessano di esistere ma sono in grado di aprirsi agli immigrati. Confini non vuol dire solo i confini territoriali. Si tratta soprattutto di confini culturali. Appellarsi semplicemente all’accoglienza, all’universalismo cosmopolita contro il razzismo e la xenofobia è una risposta sbagliata, che non ha nessuna possibilità di sconfiggere il movimento di ripulsa.

Per chi aspira a governare la realtà e non solo a giudicarla, è necessario capire le ragioni di questa ripulsa e definire una strategia culturale che consenta di affrontare il problema in un modo che sia insieme moralmente giusto e politicamente efficace. Non serve sentirsi nel giusto se non si riesce a tradurre la propria posizione in opzioni politicamente perseguibili.

Un punto va messo alla base della ricerca di una strategia: tra il diritto umano ad essere accolti e la democrazia c’è una tensione oggettiva. La democrazia certo non ha alla sua base semplicemente una realtà fisica, la territorialità: ha un fondamento morale, che è dato dal suo corrispondere a una comunità. Il demos, che non è ethnos, è la constituency di una democrazia. Il demos può essere costituito di varie etnie, come in effetti quasi dappertutto, e può ammettere al suo interno nuovi arrivati. La democrazia non postula confini chiusi. Postula però il diritto del sovrano democratico – lo  stato costituzionale, che secondo le forme previste dalla costituzione esprime la sovranità popolare – a stabilire le regole, i requisiti, i ritmi, per ammettere nuovi cittadini. Questo significa che lo stato ha il diritto e il dovere di stabilire le forme dell’accoglienza: ha il diritto di determinare le quote degli ingressi e di rifiutare i clandestini oppure no, entro limiti umanitari; ha il diritto di sorvegliare i propri confini (senza che venga meno il dovere del soccorso); ha il diritto di richiedere che i nuovi arrivati si integrino, cioè rispettino le leggi del paese, ne imparino la lingua ecc.; e tutto questo perché ha anzitutto il dovere di proteggere i propri cittadini e quindi di assicurare la legalità. Lo stato trae la sua legittimità dai propri cittadini, quindi, pur rispettando i diritti umani, non può farli prevalere indiscriminatamente sui diritti del cittadino. Non mi sfugge che questa tesi ha dei risvolti contraddittori e presenta delle aporie politiche e soprattutto morali. Su queste aporie si dovrà riflettere più a fondo. Resta però che non si possa negare il fatto che lo stato ha una responsabilità costitutiva verso i propri cittadini; e che se si pretende che rinunci, in nome di un astratto universalismo, ad esercitare questa responsabilità, si va incontro a processi di logoramento della democrazia e della stessa possibilità di convivenza civile, con un peggioramento delle condizioni reali di cittadini e immigrati insieme. Non per questo i diritti umani possono essere calpestati o ignorati. Gestire l’immigrazione è così difficile proprio perché bisogna tenere insieme diritti confliggenti. Del resto non esistono, in democrazia, diritti assoluti, la cui applicazione non sia sottoposta a limiti derivanti dal rispetto di altri diritti. È vero invece che solo in un quadro di legalità, garantita dallo stato, si potrà tornare ad aprire le frontiere, attraverso flussi regolati, a quei migranti “economici” che sono i veri e propri migranti e che oggi si vedono respinti a priori. Autorizzare lo stato a fare tutto questo implica però che si eviti di stigmatizzare gruppi, etnie o culture con giudizi di valore che sono infondati.

Una battaglia culturale va fatta, anche da parte delle istituzioni, per superare forme ingiustificate e ingiustificabili di xenofobia e di razzismo.

Nel caso europeo, un accordo tra gli stati dell’Unione per gestire l’immigrazione appare necessario, e tuttavia difficilissimo, per la centralità distorta, ma non per questo meno forte, che il tema ha assunto nelle opinioni pubbliche e di conseguenza nelle politiche nazionali. Tuttavia la causa della crisi politica europea (e americana) non è l’immigrazione, ma piuttosto la globalizzazione, il terremoto degli assetti politici e culturali che questa ha prodotto. I partiti del Novecento sembrano avere smarrito la loro ragion d’essere: questo è vero soprattutto per i partiti della famiglia socialista, che della democrazia inclusiva sono stati i principali interpreti e protagonisti. A seguito di questo terremoto, che la recessione degli anni scorsi ha enormemente amplificato, il cittadino occidentale smarrito non si riconosce più nel suo paese. E pensa che siano gli immigrati a portarglielo via, e che le sue classi dirigenti – le élite – non lo difendano abbastanza.

Nessuno può riportare indietro la storia; solo gli antagonisti no-global si illudono di revocare la globalizzazione. La globalizzazione però deve essere governata così come devono essere governate le sue conseguenze nei singoli paesi e nel quadro internazionale. Per questo le strategie di integrazione sono così importanti.

Sono importanti per i cittadini residenti ancor più che per gli immigrati. In questo contesto la questione religiosa assume una grandissima rilevanza. Sia perché la religione diventa per gli immigrati un sostegno identitario e comunitario; sia perché, per i nativi, appare come il segno più grande di estraneità. Il modo di trattare le differenze religiose è dunque essenziale nelle strategie di integrazione.

La destra cavalca il disagio della globalizzazione, il bisogno d’identità, la paura dell’immigrazione. Ma la sinistra riformista sottovaluta tutto questo, in una sorta di rimozione che è con tutta evidenza una delle cause del suo attuale declino in Europa. Penso che quei sentimenti di disagio debbano essere presi molto sul serio e anzi trattati con rispetto. Non solo perché se no si perde del tutto la propria base elettorale; perché le grandi divisioni oggi non sono più quelle del Novecento. La divisione fondamentale non è quella di classe ma quella tra outsiders e insiders, e questa attraversa le classi di una volta. Anche il problema delle diseguaglianze, che resta centrale, assume una declinazione nuova. Questo non vuol dire di per sé che non ci siano una destra e una sinistra. Ma vuol dire che il quadro si è complicato e che nessuno ormai, a sinistra come a destra, può eludere il compito di elaborare argomenti e strategie di governo in grado di affrontare questi problemi.

RIFERIMENTI

S. Allievi, Immigrazione. Cambiare tutto, Laterza 2018.

Z. Bauman, Stranieri alle porte, Laterza 2016.

D. Di Cesare, Stranieri residenti, Bollati Boringhieri 2017.

J.S. Mill, La libertà, BUR 1999 (1859).

J.-W. Müller, Cos’è il populismo?, Università Bocconi Editore, 2017

N. Urbinati, Democrazia sfigurata, Università Bocconi Editore, 2014

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