Dove va l’Europa dopo il suo 11 Settembre

L’Europa sta fallendo? Le prove a sostegno di questa tesi sono molte, dai continui battibecchi sui contributi Nato alla proliferazione di accordi raffazzonati per regolare i flussi migratori, fino ai crescenti segnali di autoritarismo nell’Est europeo. Certo, negli ultimi settant’anni l’Europa ha fallito ripetutamente, ma questi fallimenti sono stati gli elementi costitutivi del suo successo.

Ma ora le cose stanno diversamente. L’agitazione di oggi non è semplicemente un nuovo invito all’Europa affinché trasformi anche questo fallimento in un successo. È il fragore dell’Europa che rischia di crollare completamente. L’Europa che conosciamo oggi è costituita da tre diverse varianti: l’Europa postbellica uscita dal 1945, l’Europa dei diritti umani del post ‘68 e, infine, l’Europa unita emersa dopo la fine della Guerra fredda. Oggi queste tre Europe sono messe in discussione.

Prendiamo l’Europa postbellica, ossia base originaria del progetto europeo. È l’Europa che ricorda gli orrori e le distruzioni della Seconda guerra mondiale, l’Europa che un tempo viveva nella paura costante della guerra successiva – una guerra nucleare, che sarebbe stata anche l’ultima – e nella determinazione a prevenirla.

Gli angoli morti dell’Europa del dopoguerra divennero visibili per la prima volta negli anni ’90, quando la Jugoslavia cadde nel caos nonostante la diffusa convinzione che nel continente un grande conflitto non fosse più possibile. Oggi l’Europa postbellica sta fallendo perché per le generazioni più giovani la Seconda guerra mondiale è storia antica.

Francis Fukuyama aveva ragione: quando il passato non ha più importanza per il presente, siamo alla fine della storia. Nella migliore delle ipotesi, le giovani generazioni europee hanno assorbito passivamente le lezioni della storia senza pensare storicamente. Nell’era di Internet, lo stato ha anche perso gran parte del suo monopolio sull’educazione civica; uno dei paradossi della rivoluzione delle tecnologie della comunicazione è che le giovani generazioni, pur comunicando molto più intensamente di qualunque generazione precedente, parlano soprattutto ai loro pari. Chattare in continuazione serve a poco quando si tratta di trasmettere l’esperienza delle generazioni precedenti.

Altri due fattori minano il potere coesivo della memoria della Seconda guerra mondiale nell’Europa di oggi.

Innanzitutto, la generazione dei sopravvissuti è già scomparsa; in secondo luogo, per la maggior parte dei rifugiati e dei migranti che arrivano nel continente da paesi extraeuropei, la Seconda guerra mondiale non è la loro guerra. Quando si parla di “guerra”, i rifugiati siriani intendono la distruzione di Aleppo, non quella di Varsavia o di Dresda.

L’Europa postbellica sta fallendo anche perché la maggioranza degli europei continua a dare per scontata la pace, mentre il mondo sta diventando un posto pericoloso e non è più possibile pensare che gli Stati Uniti siano interessati a proteggere l’Europa. L’insistenza di Bruxelles sul fatto che ciò che conta è il soft power mentre la forza militare è obsoleta sta cominciando a suonare falsa anche a chi la rivendica.

Così, per l’Europa, il pensiero postbellico si è trasformato da punto di forza in tallone di Achille: oggi non corrisponde più all’Europa intesa come potenza pacifica, ma a un’Europa che non è in grado di difendersi (e cogliere questa nuova realtà sarà particolarmente doloroso per la Germania).

Ma c’è un’altra Europa che sta fallendo: l’Europa come progetto emerso dal 1968, l’Europa dei diritti umani e in particolare quella dei diritti delle minoranze. Il potente impatto del ‘68 sulla mentalità europea è dato dal fatto che, tra le tensioni e le rivoluzioni di quell’anno, si giunse alla diffusa conclusione che lo Stato è qualcosa che protegge i cittadini, ma li minaccia anche.

L’incredibile risultato dei sessantottini fu che grazie a loro gli europei iniziarono a vedere lo Stato con gli occhi dei gruppi più vulnerabili e perseguitati delle loro società. Questa svolta rivoluzionaria nel modo in cui gli europei percepirono il mondo e il loro ruolo in esso era in gran parte il risultato del processo di decolonizzazione, ma anche dell’espansione globale dell’immaginazione democratica. Se si volesse definire l’Europa del post ’68 con una sola parola, sarebbe inclusione.

Ma oggi è in discussione anche l’Europa post ’68. I drammatici cambiamenti demografici e sociali che hanno trasformato le società europee negli ultimi decenni hanno minacciato le maggioranze – coloro che hanno tutto e che quindi temono tutto – che nella politica europea costituiscono la forza principale. Oggi le maggioranze minacciate esprimono un’autentica paura di diventare i perdenti della globalizzazione, in particolare rispetto all’accresciuto spostamento di persone che l’hanno accompagnata.

La caratteristica distintiva della politica delle maggioranze minacciate è che, quando votano, lo fanno immaginando un futuro in cui saranno un gruppo minoritario nei loro stessi paesi, dove la loro cultura e il loro stile di vita si troveranno a rischio.

Sarebbe un grave errore politico se la sinistra si limitasse a ignorare o ridicolizzare queste paure. Nella politica democratica, le percezioni sono l’unica realtà che conta.

Molti dei movimenti politici che oggi stanno guadagnando popolarità si occupano in misura notevole dei diritti delle maggioranze, e in particolare dei loro diritti culturali. Le maggioranze insistono sul diritto di decidere chi appartiene alla comunità politica e quello di proteggere la propria cultura maggioritaria.

Da questo punto di vista, la crisi migratoria del 2015 ha rappresentato un punto di svolta nel modo in cui i cittadini europei hanno percepito la globalizzazione. Ha segnato sia la fine dell’Europa post ’68, sia il fallimento di una certa idea dell’Europa post ’89, poiché stiamo assistendo al crollo di un consenso un tempo unificante.

È sintomatico che, secondo i sondaggi, i membri delle generazioni più giovani di tutta l’Europa sono molto più tolleranti riguardo ai diritti delle minoranze sessuali, mentre non c’è una differenza significativa tra le generazioni quando si parla della percezione dei migranti non europei come una minaccia.

La crisi dei rifugiati è stata l’11 settembre europeo. Così come l’11 settembre ha spinto gli americani a cambiare le lenti attraverso cui vedono il mondo che l’America ha costruito, la crisi migratoria ha costretto gli europei a mettere in discussione alcuni presupposti fondamentali dei loro precedenti atteggiamenti nei confronti della globalizzazione.

La crisi migratoria ha anche portato a mettere in discussione la realtà di un’Europa unita post ’89, non solo perché l’Europa occidentale e quella orientale hanno assunto posizioni molto diverse per quanto riguarda i loro doveri nel contesto della crisi dei rifugiati, ma anche perché ha rivelato l’esistenza di due Europe molto diverse rispetto alla diversità etnica e culturale e alle questioni migratorie. Un’ironia della storia è che, mentre all’inizio del XX secolo l’Europa centrale e quella orientale erano la parte più diversificata del continente, ora sono estremamente omogenee dal punto di vista etnico.

Nel frattempo, mentre l’Europa occidentale odierna è angustiata dalle domande su come integrare il crescente numero di stranieri che vivono al suo interno, molti dei quali provenienti da società culturalmente molto diverse, quella centrale è preoccupata dalla sfida di invertire la tendenza dei propri giovani a partire per andare a vivere in Occidente.

Mentre l’Europa occidentale è in difficoltà sul problema della diversità, quella orientale lo è sul calo della popolazione. Per immaginare le dimensioni del problema, è utile considerare alcuni dati.

Nel periodo che va dal 1989 al 2017, la Lettonia ha perso il 27% della sua popolazione, la Lituania il 23% e la Bulgaria il 21%. La combinazione di una popolazione che invecchia, bassi tassi di natalità e un interminabile flusso migratorio in uscita è la principale fonte del panico demografico nell’Europa centrale e orientale, anche se politicamente si esprime attraverso l’isteria contro i rifugiati, che nella regione non si vedono da nessuna parte.

In effetti i cittadini dell’Europa dell’Est che hanno lasciato i loro Paesi per l’Europa occidentale a seguito della crisi finanziaria del 2008 sono più numerosi della totalità dei profughi arrivati a causa della guerra in Siria. In definitiva, tuttavia, al centro dell’ascesa dell’illiberalismo dell’Europa centrale non ci sono le differenze sui fenomeni migratori, ma il rifiuto di ciò che chiamo l’”imperativo dell’imitazione”.

Per i due decenni successivi al 1989, la filosofia politica dell’Europa centrale e orientale post-comunista potrebbe essere riassunta da un unico imperativo: imitare l’Occidente. Il processo fu chiamato con nomi diversi (democratizzazione, liberalizzazione, allargamento, convergenza, integrazione, europeizzazione), ma l’obiettivo perseguito dai riformatori post-comunisti era semplice: desideravano che i loro Paesi diventassero come l’Occidente. Ciò implicava l’importazione delle istituzioni liberaldemocratiche, l’applicazione delle ricette politiche ed economiche occidentali e un consenso diffuso verso i valori occidentali.

L’imitazione è stata ampiamente intesa come la via più breve verso la libertà e la prosperità. L’Europa non era più divisa tra comunisti e democratici. Era divisa tra imitatori e imitati. Ma perseguire una riforma economica e politica imitando un modello straniero presenta svantaggi morali e psicologici ancora più numerosi di quelli previsti originariamente. La vita dell’imitatore mescola inesorabilmente sentimenti di inadeguatezza, inferiorità, dipendenza, perdita di identità e involontarie ipocrisie. Gli imitatori non sono mai persone felici.

Non sono mai padroni dei loro successi, possiedono soltanto i fallimenti. La prima Europa, quella del dopoguerra, sta fallendo perché la memoria della guerra sta svanendo e perché ha contribuito a un’Europa incapace di difendere se stessa. La seconda Europa, quella post ’68, sta fallendo perché era l’Europa delle minoranze; sta ancora cercando di trovare un modo per affrontare la richiesta delle maggioranze di proteggere anche i loro diritti culturali, senza trasformare la democrazia in strumento di esclusione.

L’Europa del dopo ‘89 sta fallendo perché gli europei dell’Est non vogliono più imitare l’Occidente ed essere da questo giudicati, ma desiderano costruire un modello alternativo. I fallimenti dell’Europa significano che l’Europa sta andando in pezzi in modo irreversibile? Il fatalismo sarebbe un errore.

Piuttosto, l’Europa dovrebbe investire nelle proprie capacità militari e smettere di dare per scontate le garanzie di sicurezza americane. E le democrazie liberali europee, che negli anni ’70 e ’80 riuscirono a normalizzare l’estrema sinistra e a integrare nelle proprie politiche alcune sue legittime richieste, oggi dovrebbero fare lo stesso con l’estrema destra.

Chi oggi è spaventato da alcune idee radicali provenienti dall’estrema destra dovrebbe ricordare che molti centristi degli anni ’70 consideravano diversi esponenti della sinistra anti-sistema tedesca (come Joschka Fischer, in seguito divenuto ministro degli esteri) una minaccia per l’Occidente capitalista e democratico. E, per quanto riguarda le relazioni tra Europa occidentale e orientale, la sfida è trovare un modo per criticare con forza la svolta autoritaria dell’Est senza però affermare che imitare l’Occidente sia l’unico senso della democrazia, o immaginare ingenuamente che un impegno per la democrazia possa essere acquistato con i fondi di Bruxelles per la coesione.

Settant’anni fa, l’Europa riuscì miracolosamente a trasformare la distruzione della Seconda guerra mondiale nella fondazione del proprio progetto di pace. Riuscì a convertire la rabbia anti-sistema del ‘68 in progresso politico. Riuscì in meno di due decenni a unire un’Europa divisa da cinquant’anni di Guerra fredda. Se l’Europa è riuscita a trasformare tutti questi fallimenti in altrettanti successi, si può certamente sperare che oggi compirà lo stesso miracolo.

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