I monatti sfiancati e la mula di San Carlo
Quando Milano lottava con la peste

Carlo Borromeo passò gran tempo in sella alla sua mula. Cardinale e arcivescovo di Milano, per affermare il credo tridentino, alla cui formulazione tanto aveva contribuito, si avventurava in accidentati terreni montuosi, verso parrocchie isolate, a rinfocolare la vera fede in comunità esposte al contagio di confinanti di salda ed espansiva eresia protestante.

È in sella alla celebre mula bianca che Carlo compare nel più straordinario dei quadroni del Duomo di Milano. Cosa siano i quadroni va detto. Chi entrasse nei mesi di novembre e dicembre nella basilica li troverebbe pendenti tra pilastro e pilastro lungo le navate e transetti. Sono enormi tele che rappresentano i fatti della vita e i miracoli di San Carlo Borromeo (6 x 4,75 metri la serie della vita, forse un quarto la serie dei miracoli). Furono commissionati dalla Fabbrica del Duomo a una schiera di pittori attivi in Lombardia, per accompagnare il processo di canonizzazione dell’arcivescovo Carlo Borromeo. Tra tutti La visita di San Carlo agli appestati del Cerano è forse il più realistico.

Il Cerano era il pittore di casa Borromeo al tempo dell’arcivescovo Federico, cugino e successore di Carlo (non immediato, tra i due resse la diocesi Gaspare Visconti). Al seguito di Federico visitò Roma e strabiliò. Fu forse nella Cappella Sistina che il cardinale e il suo protetto discussero a naso in su sulla possibilità di creare qualcosa di altrettanto grandioso a Milano, in vista della prossima canonizzazione di Carlo. Parlarono certo di sacri monti, mete preferite della devozione di Carlo, bastioni prediletti contro il contagio della Riforma. Forse ai piedi del Giudizio universale di Michelangelo Federico commissionò al suo protetto i disegni per il San Carlone, una colossale immagine di rame, più alta di qualsiasi altra statua conosciuta,  fulcro di un nuovo Sacro Monte che  nell’Arona di famiglia avrebbe di cappella  in cappella illustrato i fatti della vita e i miracoli del Borromeo. Prima che la sola statua fosse inaugurata sarebbe passato quasi un secolo. Del Sacro Monte di Arona non si parlò più. Nel frattempo, prelato e artista concepirono un’impresa attuabile in minor tempo. L’idea era un Sacro Monte bidimensionale, esteso quanto il perimetro del duomo, transetto compreso, facciata interna esclusa. Invece delle cappelle, ognuna dedicata a un episodio della sacra scrittura (Varallo Sesia) o della vita e dei miracoli di un Santo (Orta), sarebbero state due serie di tele a illustrare vita e miracoli del santo: una specie di ciclorama ante litteram, montabile e smontabile alla bisogna. Delle due serie alcune tele sarebbero state dipinte dallo stesso Cerano, coautore del progetto.

Della peste che si dice di San Carlo (1576), il Cerano, nato nel 1573, non poteva avere memoria. Ne avrà di vivissimi e dolorosi della peste detta di Federico o degli untori, (1630), che oltretutto gli portò via il fratello e collaboratore Ortensio, quando a caldo (1631) dipingerà per i domenicani di Santa Maria delle Grazie a Milano La madonna libera Milano dalla peste. Il suo quadrone il Cerano l’aveva visto anni prima nel Giudizio Universale di Michelangelo. O nei fogli di eccellenti incisori che diffondevano la Maniera michelangiolesca ritagliandosi brani del Giudizio per ricomporli in opere originali.

Ma leggiamo il quadrone. Dove siamo? Dal punto di vista pittorico, nella Maniera, ingemmata da spunti di realismo nordico; dal punto di vista temporale in un giorno d’agosto del 1576. Dal punto di vista narrativo siamo ai bordi di un lazzaretto d’emergenza, fatto di capanne dai tetti di paglia, spuntato in un querceto dove d’abitudine grufolano i porci. Siamo su una strada che porta in una città di cui si intravedono cattedrale, tetti e campanili. Ai bordi sono radunati gli appestati per assistere al passaggio salvifico dell’arcivescovo. Siamo in seconda fila, dietro le spalle di un nano nudo che cerca di avvoltolarsi in un gran drappo di seta, per impedire che un giovanottone dall’espressione volpina, tutto vestito, almeno dalla vita in su, con camicia e giustacuore, ne tagli via un pezzo con mastodontiche forbici da sarto. Accanto, rifilato dal margine sinistro della tela, un gigante michelangiolesco seduto di schiena si esibisce in un numero di contorsionismo per tenere con la mano destra aperto un sacchetto in cui con la sinistra tenta di infilare piede e gamba destra fasciata. Operazione alla cieca, poiché il gigante sta guardando verso sinistra come per indirizzare lo sguardo di noi spettatori postumi. Ultima occasione. Ancora poco e, come già il crocifero, ormai di spalle, uscirà dalla visuale anche il protagonista, l’arcivescovo. Cosa gli grida la donna anziana sulla sinistra? L’espressione sembra irata, e si sa che in situazioni estreme c’è chi implora e c’è chi impreca. L’arcivescovo, ridotto a un cono di seta e lino, da cui spunta uno sguardo perduto e due dita in timida benedizione, non guarda intorno, se non in tralice. Non ascolta neppure la donna con in collo tre bimbi, né si accorge della scena alla sua destra, dove un prete  desolato e un monatto dai gesti ampi fanno alla donna la grazia di una preghiera e di un telo per coprire il figlio o il marito morto su un pagliericcio di fattura simile a quello colossale che in primo piano chiude la tela in basso a destra. L’arcivescovo, preoccupato per la salvezza delle anime, non sa dolersi per le sofferenze della carne. Non è in visita ai malati, è in visita pastorale.

Carlo, impegnato ad assicurare la scrupolosa osservanza dei dettati del Concilio tridentino che lui stesso ha portato a conclusione, è spessissimo in visita pastorale. Lo è anche quando la peste fa la sua comparsa a Milano. È a Lodi. Quando rientra il governatore spagnolo Antonio de Guzman y Zuniga ha già pubblicato una inutile grida che promette sostanziose ricompense a chi denunciasse gli untori. Non avendo avuto curiosamente riscontro, si prepara a rifugiarsi in villa. Lo accompagna la moglie marchesa d’Ayamonte che, organizzatrice impenitente di spettacoli teatrali poco graditi alla curia, non immagina quale grande evento urbano l’odiato Borromeo, che il marito ha cercato invano di fare allontanare da Milano per salvare l’economia del ducato, si appresta a organizzare.

Milano è dal quindicesimo secolo attrezzata per le pestilenze.  Non solo c’è un lazzaretto ampio e razionale, ma vi opera in permanenza un Ufficio Sanità che, primo in Italia e in Europa, è agguerrito e ben organizzato. Composto da funzionari laici e da un paio di medici, l’Ufficio di Sanità aveva nel 1567 ingoiato a fatica la scomunica che il Borromeo minacciava ai medici che si azzardavano a tornare a visitare un ammalato che non aveva voluto, o potuto confessarsi. Ma la latitanza del governatore e dei notabili, ispirata alla profilassi dei tre avverbi (presto, lontano, tardi: allontanati subito e non tornare finché non è sicuro), ha lasciato la città in carico all’arcivescovo e ha soffocato le polemiche. L’Ufficio di Sanità rinforza il personale, allettando con cospicui compensi medici da altre città. Se a Pavia sosta un gruppo di sedicenti esperti francesi diretto a Venezia, lo si convoglia a Milano per lo spropositato compenso di 1600 ducati. Di peste però avevano sentito al massimo parlare. Alcuni si impestarono, i sopravvissuti furono imprigionati. Intorno al lazzaretto spuntarono improvvisate capanne di legno e di paglia, facili da bruciare e rinnovare a ogni cambio di inquilino. I monatti si sfiancavano. Caricavano i defunti destinati alle fosse comuni su carri resi rumorosi per avvertire del loro passaggio. Profumavano con fumi d’incenso e di resina di pino e lavavano con aceto e calce 8953 camere. Portavano a lavare fuori porta abiti e biancheria, divisi per filato, lana con lana, lino con lino, seta con seta, con i nomi dei proprietari. Risparmiavano un po’ di forza per rubare tutto il rubabile.

Quando fu ordinata la quarantena tutti ebbero l’obbligo di restare chiusi in casa. Ma, perché non si abbandonassero al vizio, l’arcivescovo impose che sette volte al giorno, al suono delle campane, tutti si affacciassero alle finestre a pregare all’unisono. Uno spettacolo che la marchesa d’Ayamonte avrebbe dovuto vedere.

Fu un mezzo successo. Alla fine, Milano contò 17 mila vittime. Se a Venezia i morti furono cinquantamila, un terzo della popolazione, ci fu un perché.

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