Bonapartismo di massa. Gli effetti della crisi sulla democrazia europea

Chi, di fronte all’attuale crisi europea e al predominio tedesco, parla di un ritorno agli stati nazionali, o addirittura fa appello alle mitiche identità dei popoli, non sa di che cosa parla. La realtà europea rivela ben altro, sul piano sia giuridico sia politico. Il diritto delle costituzioni nazionali s’intreccia ora strettamente al diritto della costituzione europea, né è più possibile dare per scontato, al di là delle molte differenze, il vecchio dualismo di diritto nazionale e diritto internazionale (come ancora insiste a fare la Corte costituzionale tedesca – BVerfG – nelle sue sentenze sull’Europa)[1]. Le incessanti pratiche quotidiane dei “piccoli passi” sul piano giuridico e politico (il cosiddetto incrementalismo) hanno finito per sanzionare giuridicamente un complesso sistema continentale di divisione dei poteri: un sistema nel quale i poteri nazionali risultano, quasi senza soluzione di continuità, integrati in un unico grande organismo europeo.

Si tratta di un sistema unitario di legittimazione democratica, così come ha detto anche la Corte costituzionale della Repubblica Ceca in una sua importante sentenza sui trattati di Lisbona[2]. Dunque ha ragione Habermas nel dire che, per fondare un governo europeo post-statale e democratico, noi troviamo già nei trattati tutto quanto ci serve. C’è solo bisogno di svincolare dall’interno l’Europa democratica dall’ordinamento giuridico oggi esistente, metterla “in luce” e darle parola. Sennonché qui sta il problema: in quanto unione, l’Europa è già di fatto democraticamente costituita, solo che nessuno pare essersene ancora accorto.

Una politica “spoliticizzata”

Il problema non sta tanto nell’incrementalismo della politica professionale – né nelle manovre lobbistiche di corridoio, nell’eccesso di burocrazia, in una tecnocrazia che produce leggi illegibili (500 pagine di trattati costituzionali piene di trabocchetti, utilizzabili solo dagli esperti). Il problema sta piuttosto nella riduzione della politica a pura tecnica, con la conseguente messa tra parentesi – e manipolazione – delle discussioni, delle opinioni pubbliche, della formazione pubblica della volontà.

Questa forma “spoliticizzata” della politica è stata giustamente criticata – da Christoph Möllers – come una tecnica atta a “bypassare” il potere del popolo, e dei suoi organi politici, attraverso dei network di dominio informale. Questa riduzione della politica alle tecniche di conservazione del potere svuota dall’interno, in via di principio, l’integrazione europea dei suoi contenuti democratici. Nessuna sorpresa poi se tali contenuti si rovesciano nel contrario, tenendo fuori dalla porta gli emigranti, diffondendo pregiudizi contro greci e turchi, sinti e zingari, e finendo per mobilitare slogan populistici contro l’Europa e la democrazia. Il parlamento può anche andarsene a casa, alla fine toccherà agli aristocratici e alle banche di sistemare le cose.

Quando ancora tutta la popolazione tedesca era innamorata del suo ministro della difesa von Guttemberg, il suo titolo nobiliare diventava un pretesto per tematizzare nei talkshows televisivi la domanda: “e se avessimo ancora bisogno di un re?”. Nel momento in cui la Lehmann-Brothers crollò, e perfino Ackermann, direttore della Deutsche Bank, non sapeva che pesci pigliare, i moderatori televisivi – dopo avere messo in ridicolo gli uomini politici, e averli rimpiazzati nelle trasmissioni con persone eleganti ed abbronzate, per lo più attive del settore delle esportazioni – si domandavano con malcelata irritazione: “ma chi possiamo ancora intervistare?”. Sono sempre i vitelli più idioti quelli che si scelgono il loro macellaio.

Vogliamo dirla in soldoni? La politica dell’incrementalismo (la strategia dei “piccoli passi”) ha prodotto un effetto paradossale: adesso, all’interno della Unione europea, sono i partiti antieuropei ad avere acquistato la visibilità maggiore. Danno voce all’Unione europea con lo slogan “basta Europa!”.

La politica tecnica: inevitabile ma non democratica

La politica tecnica non va disprezzata a priori. Ha un grosso vantaggio: i suoi risultati sono prevedibili. Produce sicurezza, riduce la complessità – e tutto ciò nell’interesse legittimo dei cittadini. Insomma, la politica tecnica viene programmata per escludere brutte sorprese: ad es. nel settore dell’aviazione così come in quello dell’agricoltura. Il volo degli aerei e l’allevamento dei suini diventano alla fine delle cose assolutamente normali e affidabili. Per questo motivo, la regola aurea della politica tecnocratica – esercitata dai poteri esecutivi – sta nel “bypassare” i capricci dell’opinione pubblica, nello “scavalcare” la libertà delle decisioni pubbliche e le riserve dei controlli costituzionali. Quando si affacciano situazioni di emergenza, questa politica non fa altro che dire: “tutto è lecito nei casi estremi”.

La politica tecnica è tanto indispensabile quanto, in sé, non-democratica. Il “processo-di-Bologna” ne è la prova migliore. La più grande riforma universitaria mai tentata in Europa – ben superiore alle riforme ottocentesche – si è realizzata nel silenzio generale, anche se nelle democrazie di massa del XXI secolo gli studenti non rappresentano più l’uno per cento ma il 30/40 per cento della popolazione. Di più, questa riforma è andata in porto il giorno in cui – in una sorta di public private partnership – i vertici esecutivi dei vari ministeri culturali s’incontrarono a Bologna con un inviato dell’impresa commerciale Bertelsmann, che fungeva da rappresentante della società civile. Così, qualche tempo dopo, accadde che anche il parlamento dello Schleswig-Holstein si vide costretto ad emanare questa legge quadro sull’università. Insomma: il parlamentarismo come accettazione di un proprio stato minorile.

Sennonché, a un certo punto, questa potente accoppiata di “politica tecnica” e di “costituzionalizzazione giuridica” si scontra con i limiti interni al suo progetto costituzionale. Accade allora ciò che, alla tecnica, per solito non accade: che essa smetta di funzionare, che perda ogni controllo sul Reich tedesco, sulle masse arabe, sulla tenuta in volo dell’aereo, sulla peste suina. E tutto ciò, come dice Niklas Luhmann, con una potente “cascata di effetti collaterali”.

Con il perfezionarsi di questo processo di costituzionalizzazione, il funzionalismo incrementalistico in mano alle élites politiche e ai tecnici del diritto entra vistosamente in conflitto – questa è la mia tesi – con il contenuto emancipatorio del diritto europeo, anch’esso parallelamente in crescita.

Il dominio tecnocratico non può che realizzarsi a partire dal diritto e attraverso il diritto. Il che però fa crescere il contenuto intrinsecamente emancipatorio del diritto anche laddove esso si presenti come soltanto egemonico e strumentale. Per questo motivo qualunque politica tecnocratica può sempre, dall’oggi al domani, capovolgersi in una drammatica crisi di legittimazione. All’Unione europea può toccare in sorte la stessa fine che ha colpito Mubarak – non molto diversamente da come, nella Bibbia, il potente Baldassarre finì ucciso dai suoi servi “in quella stessa notte” (Heinrich Heine).
Ma come si è giunti, in Europa, a questo trionfo della politica tecnica e a questo simultaneo fallimento del “politico”?

Il peccato originale della costituzione economica

All’inizio c’è un peccato originale. Esso prende in Europa la figura della costituzione economica. Proprio come in teologia, questo peccato originale si trapianta di generazione in generazione nel corso della unificazione europea. La costituzione economica dell’Europa è fin dal principio strutturata in senso egemonico. Sempre più chiaramente essa è un grande spazio tedesco (deutscher Grossraum) che, mentre al centro scatena tempeste borsistiche col tenere nevroticamente basso il tasso dell’inflazione, nello stesso tempo spinge la periferia a una drammatica recessione deflattiva (periferia, occorre aggiungere, da cui le banche tedesche hanno già ricavato enormi profitti)[3]. La storia del diritto costituzionale europeo è descrivibile in quattro fasi.

Vincendo le resistenze della Francia, nasceva nel 1957 la Comunità economica europea: un trattato che, al suo secondo articolo, stabiliva la libera economia di mercato come quella decisione fondamentale (Grundentscheidung: Carl Schmitt) che ne avrebbe influenzato tutta la successiva storia costituzionale. Questo fece sì che la posizione tedesca – fortemente appoggiata dagli USA e teorizzata da un personaggio, Alfred Müller-Armack, che dal 1933 al 1945 era stato dichiaratamente nazista – avesse nelle trattative la meglio sull’orientamento decisamente più keynesiano della Francia e delle altre nazioni[4].

Alla fine degli anni venti, l’ordoliberalismo si presentava come un progetto politicamente di destra, egualmente contrapposto al marxismo, alla socialdemocrazia, alla dottrina di Keynes. Con tutto ciò, occorre aggiungere, gli ordoliberali austriaci e tedeschi (con l’eccezione di Müller-Armack) erano fieramente avversi al nazismo. Molti di loro esprimevano una opposizione antinazista di tipo aristocratico-nobiliare, trovando le loro radici nei giovani-conservatori influenzati da Nietzsche (Jungkonservativen).

Franz Böhm deriva da questo milieu giovane-conservatore degli anni venti. È il più radicale oppositore del nazismo all’interno del gruppo, membro di quella resistenza conservatrice che – ispirandosi a Dietrich Bonhoefer e a Carl Friedrich Gördeler – già prima del 1933 si era schierata a difesa degli ebrei. Walter Eucken è un oppositore conservatore dei nazisti, in forte polemica a Friburgo contro il rettorato universitario di Martin Heidegger. Alexander Rüstow, membro del cabinetto-ombra di destra del generale Kurt von Schleicher, deve andare in esilio nel 1933, dopo il fallimento del dilettantesco putsch contro Hitler tentato dallo stesso Schleicher. Wilhelm Röpke è iscritto al “circolo Tat” e già prima del 1933 fa parte di quella cosidetta “rivoluzione conservatrice” che è (almeno in parte) contraria a Hitler: emigrerà più tardi in Turchia. Friedrich A. Hayek è fin dal 1931 docente alla London School of Economics, dove fieramente avversa gli insegnamenti del collega John Maynard Keynes. Sul piano della filosofia del diritto Hayek accetta la dottrina costituzionale di Carl Schmitt[5].

Con tutto ciò, i teorici dell’ordoliberalismo avevano in realtà mutuato indirettamente il programma della costituzione economica a partire dalle dottrine della sinistra[6]. Si tratta infatti di un programma che accoppia strutturalmente “diritto” ed “economia” a partire dal diritto. Alla fine della prima guerra mondiale, l’idea di una costituzione complessiva della economia e della società (idea risalente a Hugo Sinzheimer e alla sua scuola) aveva trovato parziale realizzazione nell’ordinamento della repubblica di Weimar. La costituzione ordoliberale dell’economia era una versione annacquata della teoria francofortese di Sinzheimer. La sua natura “antirivoluzionaria” stava nel contrapporre alla pianificazione dei socialisti una economia liberale di mercato – proprio quel modello che con Ludwig Erhard, sotto le etichette di “economia sociale di mercato” e di “capitalismo renano”, farà poi furore come arma segreta della rinascita tedesca del dopoguerra.

L’ideologia neoliberale come “falsa coscienza” necessaria

Laddove l’ordoliberalismo puntava ancora su una concorrenza socialmente diffusa, che favoriva il ceto medio corredando l’economia di mercato di certe tutele e garanzie, il neoliberismo globale della scuola di Chicago (Milton Friedmann) mira invece al potere organizzativo dei monopoli mondiali. Ora le grandi imprese dominano il mercato sostituendosi ai vecchi poteri statali e alle loro politiche di assistenza. Il benessere della società viene riletto come benessere dei consumatori e infine – con ardito salto logico – lo stesso consumatore viene reinterpretato come proprietario di titoli di borsa. Il salire/scendere degli indici borsistici diventa l’unico criterio di valutazione. A partire dagli anni sessanta il programma neoliberale – che globalizza mercati, valori e sistemi funzionali – non trova più ostacoli sul suo cammino. Esso è infatti assai più efficace dei modelli concorrenti – keynesiani e socialdemocratici, per non parlare di quelli comunistici – che continuavano a dipendere dal quadro costituzionale nazionale oppure che cercavano di opporsi alla società mondiale nel nome di un imperialismo al tramonto. Le dottrine di Keynes e della socialdemocrazia creano un capitalismo socialmente addomesticato e largamente diffuso: Dahrendorf parla di “era socialdemocratica”, Nixon nel 1970 afferma “siamo tutti keynesiani”. Tuttavia queste dottrine non disponevano – a differenza di quelle neoliberali e liberiste – di nessun programma utile alla globalizzazione (nemmeno per quanto riguardava l’Europa, se prescindiamo da Jaques Delors). Sul piano storico questo è il momento di verità del neoliberalismo: una ideologia nel senso specifico di “falsa coscienza necessaria”.

Nel passaggio dall’ordoliberalismo al neoliberismo troviamo sempre lo stesso anello mancante: la costituzione economica resta, in entrambe le dottrine, separata dallo stato, spoliticizzata, tecnicamente “neutrale”. L’ordinamento economico esclude, in via di principio, ogni costituzionalizzazione politica che vada “al di là” dello stato nazionale. La costituzione politica deve stare confinata dentro lo stato! Questo imperativo categorico è ciò che lega – al di là di tutte le differenze – l’ordoliberalismo al neoliberismo.

Mondializzazione dell’economia, crisi dello stato

La costituzione politica ha una forza di regolazione circoscritta allo stato nazionale, laddove la costituzione economica – ormai sganciatasi dallo stato – stabilizza la mondializzazione del potere industriale e finanziario. La costituzione politica, che nel passato controllava i mercati, scivola ora in una deplorevole impotenza – sotto la sorveglianza di una costituzione economica de-statalizzata che dall’Europa si allarga a tutto il mondo (GATT, Organizzazione internazionale del commercio, Fondo monetario internazionale, Banca mondiale). Gli state embedded markets dell’epoca di Keynes si trasformano, poco alla volta, nei market embedded states dell’epoca attuale.

Nella giurisdizione europea la sentenza Dassonville (1974) e la sentenza Cassis-de-Dijon (1979), emesse dalla Corte di giustizia dell’Unione europea, segnano la svolta verso la supremazia unilaterale delle “quattro libertà”[7]. Come hanno notato Menéndez e Fossum, qui vediamo le libertà economiche emanciparsi totalmente dal vecchio diritto costituzionale delle nazioni[8].

Ma già la stessa decisione fondamentale (Grundentscheidung) su cui poggiava la costituzione economica europea aveva provveduto a bloccare il cammino verso quello stato sociale, senza il quale non può compiersi nessun progetto democratico di costituzione politica[9]. Autori come Ipsen, Majone e Moravzik hanno osservato che alla costituzione economica basterebbero, in teoria, élites tecnocratico-amministrative capaci di fare a meno di ogni cittadinanza democratica. In realtà, l’evoluzione sociale europea è andata avanti in direzione di una crescente integrazione. Questo ha finito per produrre un concomitante rafforzamento anche del contenuto emancipatorio del diritto europeo. Finora però l’egemonia del regime tecnocratico-espertocratico non è mai stata messa in questione. Fin qui, per tutti i gradi dello sviluppo, il “politico” (il momento democratico) è stato relegato al livello di stati nazionali sempre meno in grado di decidere.

Solo nella seconda fase della nostra storia, a partire dai primi anni sessanta – dunque molto prima della unificazione dei passaporti – si diede avvio alla costituzione privatamente autonoma della società dei “cittadini europei”. Sul piano tecnico si trattava dell’accoppiamento strutturale di “diritto” e “diritti” attraverso la giurisprudenza dei tribunali, cioè attraverso un diritto prodotto in sede giudiziaria. Si trattava di una reazione, a livello europeo, dello stato di diritto liberale alla progressiva europeizzazione del sistema giuridico. Un bisogno sempre più impetuoso di norme e di regole fece crescere esponenzialmente il numero dei conflitti, e furono per primi i tribunali, a questo punto, che disegnarono una costituzione giuridica europea vincolante per i vari diritti nazionali. Il modello di conflitto rimase però ancora del tipo: “Ufficio doganale di Bielefeld versus Centrale del latte di Sennestadt”. Perciò, anche se il contenuto emancipatorio del diritto europeo come autonomia privata andava indubbiamente sviluppandosi, il prezzo che veniva pagato stava nel persistente ritardo dell’autonomia politica – un ritardo mascherato solo dal crescente potere degli esecutivi tecnocratici[10].

La carenza democratica dell’Unione europea divenne sempre più evidente, finché non fu risolta nel 1979 con l’introduzione di un diritto elettorale – generale e diretto – per il parlamento europeo. È questa la terza fase, caratterizzata dal riuscito accoppiamento strutturale di “diritto” e “politica” e da una rapida differenziazione del sistema politico europeo nel corso degli anni settanta e ottanta. Il deficit democratico del diritto formale viene largamente superato sia dal crescente potere informale di un working and law-shaping parliament orientato al Congresso degli Stati Uniti sia dall’introduzione, nel trattato di Lisbona, di procedure legislativo-parlamentari[11]. Oggi l’Europa ha effettivamente la sua costituzione politica. Si tratta di una costituzione democratica. Solo che nessuno se ne è ancora accorto e tutti scrivono il contrario. Persino la Corte costituzionale tedesca (BVerfG) rifiuta – cocciutamente e contro ogni buon senso – di dare al parlamento europeo la sua benedizione[12].

Federalismo postdemocratico degli esecutivi

La costituzione politica chiede emancipazione e autodeterminazione democratica per i cittadini europei. Sennonché esse vengono fin dall’inizio, se non distrutte, almeno tenute in latenza per effetto dell’incrementalismo tecnocratico ed espertocratico. Dall’accoppiamento strutturale di “politica” e “diritto” vengono stabilizzate non soltanto le istituzioni democratiche, ma anche il crescente potere extraparlamentare degli esecutivi europei tra loro collegati. Funzione degli esecutivi è conservare e accumulare potere decisorio, ma si tratta di una funzione che non coincide automaticamente con la loro destinazione normativa. Da qualche tempo si vede nascere un bonapartismo collettivistico nella figura del Consiglio di Europa (giuridicamente non regolato ma, appunto perciò, tanto più potente). A questo proposito, autori come Jürgen Habermas, Colin Crouch, Stefan Oeter e Philipp Dann, parlano oggi di “federalismo postdemocratico degli esecutivi”. Esso caratterizzerebbe non soltanto il Consiglio, ma anche una serie di agenzie e regimi esecutivi che accompagnano l’Europa fin dal tempo dell’EURATOM[13].

Lo stesso capita al parlamento. Anche il suo potere cresce di nascosto. Sennonché, diventando più potente perde di legittimità. Di elezione in elezione si approfondisce lo scollamento – rispetto alle alternative intuitivamente possibili – tra il crescente potere della legiferazione parlamentare e la sempre più scarsa legittimazione democratica. Inutile inventarsi nuove etichette: si va dal “buon governo” (con echi alla Ambrogio Lorenzetti) alla “democrazia deliberativa”, passando per il “sistema consigliare” e la “comitologia”. La sostanza resta la stessa: good governance without democratic government, deliberazione senza parità di decisione, “voce” senza partecipazione, oppure (come nella vecchia Unione sovietica) democrazia consigliare senza popolo. Allora non sarà più una sopresa se i cittadini – appena gli si dà potere di scelta con un referendum – respingono il patto costituzionale, oppure accettano il Trattato di Lisbona solo dopo essere stati costretti (come è capitato agli Irlandesi) a una seconda tornata elettorale, democraticamente umiliante. Come ha detto Susan Marks, quella europea è una low intense democracy – appunto quella che serve agli azionisti di borsa, alle grandi banche, agli economisti alla moda.

Un parlamento sempre più sordo alla sfera pubblica democratica

Al posto della vecchia antinomia tra diritti soggettivi e democrazia fa il suo ingresso, sul piano costituzionale, l’antinomia tra un parlamentarismo lontano dal popolo e la sfera pubblica democratica. Questo è l’unico aspetto per cui si può ancora dire che a Parigi, Bruxelles, Berlino e Madrid (ma già non più a Roma e Atene) i parlamenti nazionali conservano un livello di legittimazione democratica superiore al parlamento di Strasburgo.

Nella Unione europea questa crisi di legittimazione è stata finora tenuta nascosta. Ma come potrebbe essere tenuta sotto controllo, ci chiediamo, il giorno in cui crollasse l’economia finanziaria, l’euro fosse travolto dalla crisi politica, l’Unione dovesse ricorrere a quella risorsa-solidarietà di cui la tecnocrazia ha sempre cercato di fare a meno? Una risposta negativa è la più verosimile. Come dice Slavoj Zizek, la verità dell’Europa sta oggi nella sua patologia sintomatica. Gli assegni firmati dalle élites politiche, a garanzia dell’integrazione e della solidarietà, risultano coperti solo sul versante tecnico della “legittimazione di output”. Ove si cercasse di riscuoterli nella sonante moneta democratica di una “legittimazione di input” finirebbero direttamente nel cestino.

Ciò avrebbe quanto meno il vantaggio di porre fine – in maniera drastica, esplosiva ma anche liberatoria – al lungo tentativo di “silenziare” e “bypassare” (bypassing, silencing) le opinioni pubbliche democratiche. Ecco che allora il parlamento di Strasburgo potrebbe, quanto meno, assolvere alla funzione che Marx ascriveva ai parlamenti nazionali, oggi silenziosi di fronte alla concentrazione del potere globale delle imprese e degli esecutivi. Marx, come si sa, aveva definito il regime parlamentare come un “regime della irrequietezza” che vive “nella lotta e per la lotta”. Se esso vive della discussione, “come potrebbe probire la discussione? (…) La lotta degli oratori sulla tribuna provoca le violente polemiche sui giornali (…) Se il regime parlamentare rimette tutto alla decisione delle maggioranze, come le grandi maggioranze non dovrebbero voler decidere al di fuori del parlamento? Se alla sommità dell’edificio statale si suona il violino, come non aspettarsi che quelli che stanno in basso si mettano a ballare”[14].

Nessuna democrazia senza una redistribuzione comunitaria

A questo punto, però, sembra che la crisi dell’euro potrebbe anche costringere l’Europa a trasformarsi in una vera democrazia, in una “comunità di redistribuzione”. Entriamo così nella quarta fase del processo europeo di costituzionalizzazione, la fase di un accoppiamento strutturale del “diritto” con i “sistemi sociali di tutela e di istruzione”. Un accoppiamento dapprima motivato dall’allargamento all’Europa di questi sistemi (da qui norme antidiscriminanti, processo di Bologna ecc.) e successivamente posto all’ordine del giorno, improvvisamente, dalla crisi economico-finanziaria del 2008.

Ancora una volta la crisi ci presenta lo stato nelle vesti di un salvatore potente per poi, immediatamente dopo, abbandonarlo in maniche di camicia. “Ancora una vittoria così, e siamo spacciati” (Wolfgang Streeck). Nei termini della crisi: il ricco stato di welfare delle nazioni occidentali avrebbe potuto affrontare la crisi capitalistica in due modi diversi. O pompare nell’economia quei miliardi di cui fino a ieri era l’unico global player a poter disporre. Oppure smettere di usare la carota della sua solvibilità e cominciare a usare il bastone della legge, intervendo d’autorità nell’economia. Lo stato può regolare i flussi di denaro, scremarli, dirigerli. Può frazionare banche, statalizzarle, vincolarle a una serie di leggi e regolamenti[15]. Può assoggettare il regime del capitale al potere dello stato, piegare il narcisismo sistemico e strutturale del capitale (niente a che vedere con l’egoismo!) all’interesse generale della società. Tutto ciò, però, può accadere solo quando lo stato possa davvero “scegliere” tra il pagare e il frazionare.

Proprio quella scelta che ora, dopo la crisi, lo stato non è più in grado di fare. Frazionare, statalizzare, stimolare, vincolare, scremare: tutte opzioni che, nelle dimensioni dell’economia globalizzata, diventano possibili solo al livello continentale di un agire integrato e coordinato.

Senza alternative, senza possibilità di scelta, non si può più pianificare. Le leggi che si limitano a distribuire “a pioggia” i soldi dello stato non colpiscono il capitale, ma soltanto il vento che soffia sul mondo. Proprio come un tempo l’imperatore Serse, egualmente impotente, faceva frustare le onde dell’Ellesponto. Con gli stessi identici risultati ottenuti oggi dalle chiacchere di Obama e di Angela Merkel, quando dicono di voler regolare l’economia.

Perché il neoliberismo non è morto? Forse perché, come scrive Colin Crouch, ha afferrato l’occasione giusta, il momento di verità contenuto nelle teorie economiche di Milton Friedmann e della Scuola di Chicago. Il neoliberismo ha creato, sul piano globale, un gigantesco potere bancario e industriale quale mai era apparso nella storia. Per contro, il vecchio stato nazionale – dopo trent’anni di neoliberismo e dopo che gli state embedded markets si sono trasformati in market embedded states – non sa più camminare e agire senza le stampelle delle public private partnerships, del new public management, senza i consigli della Deutsche Bank, della City di Londra, dei giganti di Wall Street, senza le gigantesche tangenti versate dalle assicurazioni nelle tasche dei politici, senza le pidocchiose sovvenzioni e upgradings, senza l’incessante finanziamento della domanda tramite indebitamento privato dei ceti medi impoveriti (Colin Crouch ha qui parlato di “keynesismo privatizzato”)[16], senza la diffusione a pioggia di crediti tossici.
Ciò che si è disimparato si è perso per sempre. E adesso persino il denaro ha finito per esaurirsi.

Quando lo stato non è più in grado di scegliere tra l’uso del bastone e quello della carota, allora non gli resta altro che pagare. È diventato ricattabile. I ragazzi della General Motors lo sanno, arrivano a Berlino sui loro lussuosi jets privati, alla sera prendono in ostaggio il governo federale, gli puntano al petto la pistola, e dicono: “se non pagate, domani siete finiti”. Naturalmente gli altri hanno subito pagato, e hanno sempre di nuovo pagato, offrendo su un piatto d’argento i nostri bei soldini estorti con le tasse. Del resto il governo non poteva fare niente altro. Alla fine si è avverata la profezia autorealizzantesi di Margaret Thatcher: There is no alternative.

E se – invece – una alternativa ci fosse? Qui anche Ernst-Wolfgang Böckenförde la pensa come Habermas: la crisi attuale può rappresentare “una vera chance per l’Europa. I trattati del passato, di fatto già superati, non possono non venire modificati (…) Per stabilizzare e rafforzare l’euro occorre andare decisamente verso un’unione politica. Il che include anche una rinuncia, da parte dei singoli stati, a certi diritti di sovranità nonché una regolazione europea delle finanze”[17]. (Sullo stesso tema, Habermas cita l’articolo 106 del “Grundgesetz” tedesco, che obbliga i Länder ad armonizzare i loro bilanci finanziari). “Se l’Europa non vuole arenarsi, scrive ancora Böckenförde, non deve più apparire come un costrutto tecnico-pragmatico di razionalità economica; deve comunicarsi come idea di ordinamento e venire ancorata in una chiara volontà politica dei popoli non meno che dei singoli”[18].

Hauke Brunkhorst è professore di sociologia presso l’Università di Flensburg in Germania

Traduzione di Leonardo Ceppa

(Articolo originariamente pubblicato in Blätter für deutsche und internationale Politik, 4/2012, raccolto in AA.VV., Demokratie oder Kapitalismus. Europa in der Krise, Edition Blätter, Berlin 2013, pp. 241-250 e in <http://www.eurozine.com/articles/2012-04-17-brunkhorst-de.html>)

Note

[1]Sul difficile rapporto del Verfassungsgericht con l’Europa cfr. Robert van Ooyen, Die Staatstheorie des Bundesverfassungsgerichts und Europa, Baden-Baden 2010. La critica al dualismo risale a Kelsen, ancorché spesso non lo si avverta (in quanto Kelsen, etichettato come neokantiano, è stato messo agli atti); cfr. Hauke Brunkhorst, “Critique of Dualism: Hans Kelsen and the Twentieth Century Revolution of International Law”, in Constellations, 4/2011, 496-512.

[2]Isabelle Ley, “Brünn betreibt die Parlamentarisierung des Primärrechts. Anmerkungen zum zweiten Urteil des tschechischen Verfassungsgerichtshofs zum Vertrag von Lissabon vom 3.11.2009”, in Juristen-Zeitung, 4/2010, 170.

[3]Sulle radici ordoliberali e schmittiane dell’attuale politica delle nazioni “forti” europee, cfr. Christian Joerges, “Europe a Grossraum? Shifting Legal Conceptualisations of the Integration Project”, in Ch. Joerges / Navraj S. Ghaleigh, a cura di, Darker Legacies of Law in Europe: The Shadow of National Socialism and Fascism over Europe and its Legal Traditions, Oxford 2010, 167-191.

[4]Milène Wegmann, “European Competition Law: Catalyst of Integration and Convergence”, in Kaarlo Tuori / Suvi Sankary, a cura di, The Many Constitutions of Europe, Oxon 2010, 91-107. Cfr. anche Charlotte Gaitanides, “Die Verfassung für Europa und das Europäische System der Zentralbanken”, in Eadem et Alteri, a cura di, Europa und seine Verfassung, Baden-Baden 2005, 550-558.

[5]La migliore critica al liberalismo autoritario di Hayek resta sempre quella di Hans Kelsen, Demokratie und Sozialismus. Ausgewählte Aufsätze, Wien 1954, 170-210. Una critica brillante alla teoria giuridica di Hayek è anche quella di William E. Scheuermann, “The Unholy Alliance of Carl Schmitt and Friedrich A. Hayek”, in Constellations, 4/2004, 172-188.

[6]E’ la tesi di Kaarlo Tuori, “The Many Constitutions of Europe”, in K. Tuori / Suvi Sankari, a cura di, cit., 3-30, soprattutto 16.

[7]Cfr. Andreas Fisahn, “Europa braucht einen neuen Gesellschaftsvertrag”, in Vorgänge, 4/2011, 48-60, soprattutto 50 sgg. Una critica al paradigma individualistico-possessivo e autoritario dell’integrazione europea in Alexander Somek, Individualism: An Essay on the Authority of the European Union, Oxford 2008; utile studio di caso sulla nascita del paradigma neoliberale, Sonja Buckel / Lukas Oberndorfer, “Die lange Inkubationszeit des Wettbewerbs der Rechtsordnungen – Eine Genealogie der Rechtsfälle Viking-Laval-Rüffert-Luxemburg aus der Perspektive einer materialistischen Europarechtstheorie”, in Andreas Fischer-Lescano / Florian Rödl / Christoph Schmid, a cura di, Europäische Gesellschaftsverfassung. Zur Konstitutionalisierung sozialer Demokratie in Europa, Baden-Baden 2009, 277-296.

[8]John Erik Fossum / Augustìn José Menéndez, The Constitution’s Gift. A Constitutional Theory for a Democratic European Union, Plymouth 2011, 111 sgg.

[9]Sulla costituzione politica nella prospettiva dello stato sociale cfr. Pablo Holmes, Verfassungsrevolution in der Weltgesellschaft. Differenzierungsprobleme des Rechts und der Politik, Baden/Baden 2012.

[10]Cfr. Karen J. Alter, “The European Court’s Political Power”, in West European Politics, 3/1996, 458-487; Idem, “Who are the Masters of the Treaty?”, in International Organization, 1998, 121-147; Tanja Hitzel-Cassagnes, Entgrenzungen des Verfassungsbegriffs. Eine institutionentheoretische Rekonstruktion, Baden-Baden 2011.

[11]Philipp Dann, “Looking through the Federal Lens: the Semi-Parliamentary Democracy of the EU”, Jean-Monnet working paper, 5/2002; Jürgen Bast, “Europäische Gesetzgebung. Fünf Stationen in der Verfassungsentwicklung der EU”, in Claudio Franzius / Franz C. Meyer / Jürgen Neyer, a cura di, Strukturfragen der Europäischen Union, Baden-Baden 2010, 173-180.

[12]Christoph Schönberger, “Lisbon in Karlsruhe. Maastricht’s Epigones At See”, in German Law Review, 8/2009; Daniel Halberstamm / Christoph Möllers, “The German Costitutional Court says JA zu Deutschland”, in German Law Review, 8/2008; Armin von Bogdandy, “Prinzipien der Rechstfortbildung im Europäischen Raum”, in Franzius et Alteri, Strukturfragen der Europäischen Union, cit., 340-350.

[13]Hauke Brunkhorst, Legitimationskrisen. Verfassungsprobleme der Weltgesellschaft. Baden-Baden 2012, (Teil D: “Europa: Vom kollektiven Bonapartismus zur demokratischen Neugründung?”).

[14]Karl Marx, Der 18. Brumaire des Louis Bonaparte, MEGA 1/11, Berlin 1985, 135 sgg.

[15]Cfr. Rudolf Hickel, “Schöpferische Zerstörung. Warum Deutsche Bank & Co. zerschlagen werden müssen”, in Blätter, 3/2012, 65-76.

[16]Colin Crouch, Über das befremdliche Überleben des Neoliberalismus, Frankfurt-main 2011, 170.

[17]Ernst-Wolfgang Böckenförde, “Kennt die europäische Not kein Gebot?”, in Neue Zürcher Zeitung del 21 giugno 2010.

[18]Böckenförde, Diritto e secolarizzazione. Dallo Stato moderno all’Europa unita, a cura di G. Preterossi, Roma-Bari 2007, p. 200-201.

Nella foto: il simbolo dell’Euro davanti alla Banca Centrale Europea

Leggi su Resetdoc:
Democrazia o capitalismo? La miseria capitalistica di una società planetaria integrata economicamente e frantumata in Stati nazionali
di Jürgen Habermas

  1. Un articolo talmente colmo di inesattezze da far dubitare fella buona fede dell’autore. Hayek condivideva la filosofia del diritto di Schmitt? O l’autore non ha letto Law Legislation and Liberty, l’opera fondamentale per le concezioni giusfilosofiche di Hayek (in cui l’austriaco critica esplicitamente il decisionismo di Schmitt) oppure sta semplicemente mistificando il pensiero hayekiano (che per essere criticato seriamente dovrebbe almeno essere conosciuto… ). Gli ordoliberali stavano a destra di Hitler? Muller-Armack ordoliberale? C’è da rimanere basiti…

  2. Sono i possidentes che non hanno voluto l’Europa democratica affidandosi alla protezione americana. La Germania è sempre stata in prima fila, e lo è anche oggi, magari dicendo che il diritto alla proprietà privata fa parte dei Grundprinzipien costituzionali immutabili e metafisici tedeschi. E europei. La Germania, in quest’ottica, si è fatta costruire una posizione privilegiata e di blocco evolutivo. Ma non durerà. La Germania è prigioniera delle sue esportazioni (vedi Crimea). E dell’Euro, che se ne uscisse il NordEuro si rivaluterebbe troppo. Ma forse sarebbe la soluzione più pratica e democratica per tutti, tranne la Germania. In ogni caso, l’Europa democratica non può più supportare – a suo detrimento – la Germania e i suoi (per lei) comodi Grundprinzipien.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *