Lo Yemen tra guerra civile e Al Qaeda:
il rischio di un’altra Siria

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Non si erano mai visti tanta pioggia e tanto vento a Mukalla, città portuale nel Sud dello Yemen, capoluogo della regione di Hadramawt controllata da Al Qaeda nella Penisola arabica (Aqap), dove il 3 novembre si è abbattuto il ciclone Chapala che ha colpito le regioni meridionali di Hadramawt e Shabwah, facendo almeno otto morti, decine di feriti e migliaia di sfollati, oltre a ingenti danni.

Una rarissima calamità (in 24 ore è caduta la pioggia di oltre un anno) che si aggiunge alla crisi umanitaria in cui versa il Paese, teatro dello scontro tra i ribelli sciiti conosciuti come Houthi, spalleggiati dall’Iran, e le forze governative. Al fianco del presidente Abd Rabbuh Mansur Hadi, sostenuto da potenze internazionali, si è schierata una coalizione di Paesi arabi sunniti capeggiata dall’Arabia Saudita. Sette mesi di bombardamenti della coalizione, con il consenso e le armi degli Stati Uniti, hanno fatto almeno 5.000 morti, oltre 25.000 feriti e decine di migliaia di sfollati, secondo le Nazioni Unite. Una guerra dimenticata in un Paese poverissimo, in cui gli interessi locali si intrecciano a quelli internazionali. Un conflitto dal potenziale devastante per l’intera regione – tale da indurre alcuni a credere che possa essere una prossima Siria – e da cui sta traendo vantaggio Al Qaeda.

A Mukalla non ci sono né le forze governative, né gli Houthi. Intorno alla mezzanotte del 2 aprile scorso la città è caduta nelle mani di Aqap, la filiale più forte dell’organizzazione guidata da Ayman al Zawahiri, che molti analisti ritengono la reale vincitrice del conflitto. Circa duecento miliziani del posto, riporta Ayisha Amr sul magazine Foreign Affairs, si sono uniti ad altrettanti qaedisti arrivati da fuori e dopo tre giorni di combattimenti l’esercito si è arreso. Il governatore e gli ufficiali hanno lasciato il centro portuale ed è iniziato il dominio di Al Qaeda che controlla circa un terzo dello Yemen, in cui è presente dal 2009 con basi e campi di addestramento contro cui Washington continua a inviare droni. Subito dopo la presa di Mukalla, in un raid statunitense sulla città è stato eliminato l’intero gruppo dirigente di Aqap, compreso il leader Nasir al Wuhayshi. Ma l’organizzazione riesce a ricostituire i suoi quadri in fretta.

A Mukalla non ci sono stati annunci roboanti della conquista e l’amministrazione della città è stata lasciata a un consiglio di sessanta membri (capi tribali e anziani), secondo un modello di condivisione del potere che non era mai stato adottato prima. Inoltre, in questo caso Aqap si è cambiata il nome in Fratelli di Hadramawt. Tuttavia, sempre Ayisha Amr, spiega che le istituzioni sono paralizzate e che il consiglio è soltanto una copertura per Aqap che ha fatto della città portuale una base per il traffico di armi e per l’addestramento di uomini. La popolazione, invece, non se la passa benissimo e adesso deve affrontare anche i danni causati dal ciclone Chapala.

Sfruttando la componente settaria del conflitto, il braccio yemenita di Al Qaeda sta costruendo una rete di alleanze con i clan locali delle aree del sud-est, prevalentemente sunniti, presentandosi come il difensore dei sunniti contro i ribelli sciiti. L’avanzata degli Houthi, iniziata a settembre dell’anno scorso con la conquista della capitale Sana’a e proseguita con quella che nello Yemen diviso era la capitale del Sud, Aden, ha reso la popolazione meridionale meno ostile alla presenza dei qaedisti. D’altronde, le rivendicazioni indipendentiste non sono mai state sopite al Sud ed è diffusa l’avversione verso il potere centrale. A quanto pare, Aqap è riuscita a ingraziarsi fette di popolazione supplendo alle mancanze del governo di Sana’a, creando così un bacino di consenso e di reclutamento fondamentale.

Al momento gli Houthi sono impegnati a mantenere le posizioni dopo essere stati ricacciati da Aden e da diverse regioni del Sud a luglio. Le Forze armate yemenite sono attraversate da divisioni e comunque sono impegnate contro gli Houthi. I raid della coalizione iniziati il 26 marzo scorso hanno sostanzialmente risparmiato Aqap. Riad considera lo Yemen il suo giardino di casa (ma anche l’anello debole del suo bacino di influenza) e punta a sbarazzarsi dei ribelli sciiti, ritenuti un’avanguardia delle mire espansionistiche di Teheran nell’area. Secondo un report di Soufan Group, società statunitense specializzata in servizi di intelligence, miliziani di Al Qaeda hanno affiancato le truppe della coalizione nella liberazione di Aden e il gruppo è ancora presente in città. Per il regno wahhabita, i qaedisti sono un problema del governo yemenita ma, fintanto che persiste il vuoto di potere in cui è piombato il Paese, l’organizzazione terroristica si rafforza.

Anche se a Mukkala non pochi temono che la presenza di Aqap prima o poi trasformi la città in un bersaglio dei raid della coalizione, al momento la filiale yemenita di Al Qaeda ha forse il suo principale nemico nell’Isis che sta prendendo piede in Yemen e ha firmato una serie di attacchi suicidi in moschee del Paese. Il gruppo di Abu Bakr al Baghdadi negli ultimi anni ha scalzato in notorietà quello di al Zawahiri, erodendone la base di reclutamento, ma Al Qaeda è viva e vegeta, è ancora forte ed è stata capace di trarre vantaggio dal caos regionale. Non soltanto in Yemen, dove ha la sua base più forte, ma anche in Siria, dove c’è il Fronte al Nusra, e in Libia, dove gestisce traffici illegali e controlla Derna.

Al Qaeda nella Penisola arabica ha rivendicato gli attentati di Parigi dello scorso inverno. Nell’anno della sua nascita ha colpito direttamente nel territorio statunitense: nella base di reclutamento di Little Rock, in Arkansas, e a Fort Hood, in Texas. Sempre nel 2009 è stata collegata al fallito attentato con “mutande esplosive” al volo di Natale Amsterdam-Detroit e l’anno dopo alla spedizione di pacchi bomba alle sinagoghe di Chicago. Aqap è di fatto legata alla maggior parte degli attentati contro gli Stati Uniti dopo l’11 settembre. È la filiale qaedista che tiene alta la reputazione dell’organizzazione, anche con le sue conquiste territoriali in Yemen, in un momento di maggiore notorietà per l’Isis.

Per gli Stati Uniti resta una minaccia e il conflitto yemenita non sta aiutando la campagna antiterrorismo. Senza più un esercito di supporto a terra (quello yemenita è impegnato contro gli Houthi), Washington può contare solo sui droni. La strategia è colpire i leader del gruppo, ma anni di raid Usa hanno fatto numerose vittime anche tra la popolazione civile e questo gioca a favore di Aqap che, inoltre, si riorganizza in fretta anche quando il suo vertice viene decapitato, come accaduto a Mukalla.

Per Katherine Zimmerman, dell’American Enterprise Institute, citata da Public Radio International (PRI), gli Stati Uniti dovrebbero cambiare strategia ed essere più presenti in Yemen, tessendo alleanze con i clan avversari dei qaedisti, che però talvolta sono anche ostili al presidente Hadi amico degli Usa. Ma la Casa Bianca è riluttante a rafforzare la sua presenza sul terreno, gli esiti di una tale scelta sono imprevedibili. Inoltre, il sostegno alla coalizione è già un grattacapo per gli statunitensi, anche se non è messo in discussione. Su Politico si parla di “frustrazione dell’amministrazione Obama” nei confronti di Riad. I bombardamenti sauditi sono indiscriminati, hanno fatto centinaia di vittime tra la popolazione, hanno distrutto le infrastrutture del Paese e hanno colpito scuole e ospedali, tra cui una struttura di Medici senza Frontiere a fine ottobre, nonostante la Ong avesse fornito le coordinate del nosocomio alla coalizione. Il blocco aereo e navale imposto al Paese sta aggravando la crisi umanitaria e diverse organizzazioni internazionali parlano di crimini di guerra (anche riguardo agli Houthi).

Washington, che agita spesso le ragioni umanitarie e la difesa dei popoli e delle minoranze (vedi Siria e Libia), sta foraggiando un intervento armato che per molti sta facendo ripiombare lo Yemen all’età della pietra, dettato dalla volontà dell’alleato saudita di affermare il proprio dominio sulla Penisola e di mostrare i muscoli agli ayatollah, tornati sulla scena internazionale dopo anni di isolamento (l’Iran ha preso parte ai colloqui sulla Siria) grazie all’accordo sul programma nucleare della Repubblica islamica. Mentre i droni non sembrano aver scalfito il potere di Aqap che ha sempre ribadito che il nemico è l’Occidente, gli Stati Uniti in primis, e accusa l’Isis, invece, di spargere il sangue dei musulmani.

La via della pacificazione pare ancora lunga e piena di ostacoli. Dopo vari tentativi e tregue umanitarie violate, per metà novembre si dovrebbe tornare al tavolo delle trattative. Nel gioco di alleanze e rivalità tra clan, gruppi armati, unità delle Forze armate, potenze straniere si rischia che la guerra diventi un pantano e a trarne vantaggio è Al Qaeda nella Penisola arabica (anche l’Isis, ovviamente) che per gli Usa rappresenta ancora una minaccia globale.

Vai a www.resetdoc.org

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *