Violenza sulle donne. La Convenzione di Istanbul: un sì che non basta

Da Reset-Dialogues on Civilizations

È stata approvata alla Camera con voto unanime (545 sì, su 545 presenti) e in Italia se ne parla come se fosse già cosa fatta. Ma al di là dei segnali positivi, la Convenzione di Istanbul è ancora lontana dall’entrare in vigore, e non solo nel nostro Paese. Manca, infatti, il secondo passaggio al Senato, fondamentale per il nostro iter legislativo, ma soprattutto mancano le ratifiche di almeno altri cinque Stati (ne servono dieci di cui almeno otto membri del Consiglio d’Europa) affinché la carta dei diritti delle donne non resti, appunto, solo carta.

La “Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica” – è questo il vero nome della Convenzione di Istanbul – nasce da un dibattito in seno all’Unione Europea a partire dagli anni Novanta per segnare delle norme uniche che proteggano le donne contro ogni forma di violenza e sfruttamento e, ancora di più, per mettere fine all’impunità di chi questa violenza la opera. Adottata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 7 aprile 2011, e aperta alla firme un mese dopo, è oggi l’unico strumento transnazionale che, agendo sullo stesso impianto giuridico dei Paesi in cui è stata ratificata, crea un quadro completo per difendere le donne e sanzionare le violazioni nei loro confronti.

Più precisamente, come si legge sul sito del Consiglio d’Europa, si tratta del “primo strumento internazionale giuridicamente vincolante”.

Lo spirito della convenzione emerge sin dalle sua prima pagine, nel Preambolo, in cui si riconosce che “la violenza contro le donne è una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi, che hanno portato alla dominazione sulle donne e alla discriminazione nei loro confronti da parte degli uomini e impedito la loro piena emancipazione”. E ancora che la natura strutturale della violenza contro le donne è “basata sul genere” e che tale violenza “è uno dei meccanismi sociali cruciali per mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini”. Un approccio che parte da quella dimensione sociale e culturale che per anni, anche in epoca contemporanea, è stata ritenuta quasi inevitabile, storicamente determinata, e che ora, invece, viene indicata apertamente come responsabile di una realtà distorta. Non esiste, relativismo culturale, né indulgenza quando si parla di abusi.

Dare un nome alle cose è il primo passo per identificarli e denunciarli. In questa prospettiva la Convenzione di Istanbul lo fa sin dall’articolo articolo 3, passando in rassegna le principali formule utilizzate per indicare generalmente violazioni, soprusi, maltrattamenti nei confronti del cosiddetto sesso debole. A partire dall’espressione “violenza nei confronti delle donne” con cui “si intende designare una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica, che nella vita privata”. Si passa poi a definire la “violenza domestica” che riguarda tutti quegli atti compiuti all’interno del nucleo familiare o affettivo, anche quando il suo autore non abbia “condiviso la stessa residenza con la vittima”, il “genere” e la “violenza contro le donne basata sul genere”, diretta cioè “contro una donna in quanto tale, o che colpisce le donne in modo sproporzionato”. Infine, il concetto di “vittima” e di “donne”, ragazze anche con meno di 18 anni. La vera novità è quella di rappresentare questo tipo di violenza come una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione.

Altro passo importante, tra gli ottantuno articoli che compongono la convenzione, è quello relativo agli “ Obblighi degli Stati e dovuta diligenza” in cui si attribuisce di fatto la responsabilità suprema alle istituzioni: “gli Stati si astengono da qualsiasi atto che costituisca una violenza nei confronti delle donne e garantiscono che le autorità, i funzionari, i rappresentanti statali, le istituzioni e ogni altro soggetto pubblico che agisca in nome dello Stato si comportino in conformità con tale obbligo”.

Il discorso vale anche, e soprattutto, quando ci si limita ad un ruolo passivo perché non vigliare equivale a permettere. Quello che cambia dunque è l’orientamento, prima di tutto mentale e poi giuridico, sulla questione.

Tanto che nel testo si legge che “le parti vigilano affinché la cultura, gli usi e i costumi, la religione, la tradizione o il cosiddetto ‘onore’ non possano essere in alcun modo utilizzati per giustificare nessuno degli atti di violenza che rientrano nel campo di applicazione della presente Convenzione”.

A tal proposito, gli Stati che l’hanno ratificata adotteranno “le misure legislative e di altro tipo necessarie, conformemente al loro diritto interno” e qui si parla di delitti come matrimoni, aborti e sterilizzazioni forzate; stalking, mutilazioni genitali, violenza psicologica, fisica e sessuale compreso lo stupro; molestie sessuali e crimini in nome dell’onore. In tema di onore, è di queste ultime ore la notizia di una donna picchiata selvaggiamente dal marito, la prima notte di nozze, perché lei avrebbe pronunciato il nome di un altro: una coppia giovane, istruita e di una classe abbiente.

È prevista, inoltre, una serie di misure per il sostegno anche economico delle vittime di violenze, a partire dalla realizzazione di rifugi fino all’esistenza di fondi per il risarcimento, e una politica di educazione, sensibilizzazione e prevenzione. Peccato, però, che il testo approvato alla Camera non contempli alcuno stanziamento, senza il quale sarà difficile dare seguito ai principi siglati.

Resta, inoltre, il problema sostanziale dell’effettiva entrata in vigore della Convenzione che avverrà “il primo giorno del mese successivo alla scadenza di un periodo di tre mesi, dopo la data in cui 10 firmatari, di cui almeno otto Stati membri del Consiglio d’Europa, avranno espresso il loro consenso a essere vincolati dalla Convenzione”. Uno strumento monco, dunque, se i ventinove Stati firmatari non accelereranno le pratiche di ratifica che ad oggi riguarda solo Albania, Montenegro, Portogallo e Turchia, sebbene la violenza sulle donne sia un fenomeno che investe tutta l’Europa, da Nord a Sud. Difficile raccogliere dati unitari in merito; l’ultimo rapporto che ha tentato di fare una fotografia d’insieme risale al 2010 e segue di dieci anni quello precedente. I risultati non sono confortanti: secondo il Consiglio d’Europa il 25% delle donne in Europa, cioè una su quattro, a un certo punto della propria vita ha subito violenza domestica.

Vai a www.resetdoc.org

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