Turchia, verso il presidenzialismo?
Ecco chi sfida il disegno di Erdogan

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Com’era prevedibile Recep Tayyip Erdogan è stato eletto come nuovo presidente turco. Il 28 agosto si è insediato. Quella del dieci agosto è stata l’ennesima tornata che lo ha visto primeggiare, ancora una volta con ampio margine.

Il primo ministro uscente ha ottenuto il 51,79% dei consensi, superando il migliore dei risultati ottenuti dal suo partito, l’Akp, evitando il ballottaggio e vincendo in molte circoscrizioni elettorali, sia in quelle meno urbanizzate, sia nelle due metropoli del paese, Ankara e Istanbul. A conferma che il consenso di Erdogan, come ribadito da un recente articolo di Osservatorio Balcani e Caucaso, trascende la divisione tra voto urbano e rurale.

Link mappa: http://icube.milliyet.com.tr/YeniAnaResim/2014/08/11/turkiye-haritasinda-tablo-yine-degismedi-4658017.Jpeg

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La lotta contro Hizmet e l’opzione cesarista

Se l’esito del voto era sotto molti aspetti scontato, il modo in cui Erdogan interpreterà la presidenza sta facendo accapigliare. C’è chi è dell’avviso che voglia fare l’uomo solo al comando, tentato dall’opzione cesarista. Questa visione si lega agli sviluppi degli ultimi mesi, che lo hanno visto dapprima contrastare in modo nerboruto le proteste di Gezi Park e in seguito scontrarsi ferocemente con Fetullah Gulen, influente imam autoesiliato negli Stati Uniti. È il fondatore di Hizmet, una confraternita religiosa con collegamenti tentacolari nella burocrazia, nel sistema mediatico e nell’istruzione.

Gulen, sotto certi aspetti, è considerato l’interprete moderato dell’Islam politico turco. Inizialmente è stato al fianco di Erdogan e dell’Akp. Ne ha sostenuto l’ascesa al potere, mobilitando le sue leve di consenso e favorendo in sede giudiziaria, dove il gulenismo ha diverse sponde, le battaglie nei confronti della casta militare. L’esercito, in quanto guardiano ortodosso del laicismo introdotto dal fondatore della Turchia repubblicana, Mustafa Kemal Ataturk, ha infatti rappresentato un ostacolo all’ascesa dell’Akp, ma anche – è convinzione di molti – allo sviluppo democratico.

Una volta indeboliti i militari, Erdogan e Gulen hanno iniziato però a divergere. Ultimamente l’imam ha criticato la gestione delle proteste di Gezi Park, così come le rimodulazioni in politica estera, segnate dall’incrinatura dei rapporti con Israele, dalla postura assertiva assunta all’interno del vecchio perimetro ottomano e dall’allentamento delle relazioni con l’Unione europea. Erdogan, secondo Gulen, non ha saputo mettere dei limiti alla sua sete di potere, virando verso l’autoritarismo e mettendo a repentaglio il “modello turco”, cocktail equilibrato di Islam, democrazia e progresso economico. A sua volta Erdogan ha sostenuto che Gulen ha cercato di rovesciare il governo, manovrando polizia, magistratura e giornali.

La tenzone s’è condensata nel grosso scandalo della corruzione, che ha tenuto banco nei mesi addietro, quando è emerso che alcuni rampolli di ministri dell’Akp e imprenditori vicini ai vertici del partito avrebbero gestito qualche giro di mazzette. Una macchinazione orchestrata da questure e procure vicine a Gulen, a detta di Erdogan, che ha lanciato una serie di purghe e impostato una campagna, sia in vista delle amministrative di fine marzo che delle stesse presidenziali, fortemente polarizzante e non immuni da tensioni populiste.

I numeri gli hanno dato ragione ma, sostiene qualcuno, tutto questo sfoggio di muscoli indicherebbe che Erdogan ha intenzione di gestire la presidenza in modo personale e accentratore, senza troppi filtri e contrappesi.

La presidenza al centro del sistema

Al contrario, c’è una corrente di pensiero che sottolinea come la natura della campagna e delle lotte politiche di questi mesi sia stata fisiologica, funzionale alle elezioni. Una volta incassata la vittoria Erdogan tenderà a moderarsi, si sostiene. In effetti il discorso pronunciato dal politico a urne chiuse e conta effettuata è apparso conciliante. Erdogan, come riporta l’agenzia Reuters, ha usato un lessico meno divisivo, spolverando tra l’altro il concetto di Turkiyeli (cittadini della Turchia) anziché quello di turchi. Come a segnalare una volontà inclusiva, opposta a certi toni radicali e nazionalisti esibiti in campagna.

A prescindere dalle diverse percezioni sul modo in cui Erdogan svilupperà la presidenza, pochi sono i dubbi sul fatto che intenda trasformare questa carica da notarile, com’è attualmente, a cabina di regia del sistema politico. Anche sulla scorta del fatto che l’elezione è stata diretta (prima volta).

Tecnicamente parlando, in ballo c’è il passaggio a un’architettura presidenzialista. Ma serve una riforma costituzionale e serve, soprattutto, una maggioranza parlamentare capace di assicurarla. L’Akp, attualmente, non ce l’ha.

L’orizzonte da inquadrare è dunque quello delle elezioni politiche del 2015. Si terranno a giugno. Nel frattempo i primi indicatori da seguire, in vista dell’evolversi delle cose, sono la nomina del nuovo primo ministro e l’economia.

Il dissidio con Abdullah Gül

Erdogan ha nominato come capo dell’esecutivo l’attuale ministro degli esteri Ahmet Davutoglu. È l’artefice della dottrina della “profondità strategica”, ribattezzata dai giornali “neo-ottomanesimo” e fondata sul rilancio dei rapporti con vicini scomodi (Siria e Iran) e sull’esercizio di influenza, economica e politica, nell’area un tempo controllata dalla Sublime Porta: Golfo, Africa settentrionale, Balcani.

Non sono pochi gli esperti che dicono che questa strategia non ha sortito risultati eclatanti. La Turchia ha sostenuto la rivoluzione egiziana, ma l’ha vista fallire. S’è riappacificata con la Siria, salvo poi chiedere – invano – un intervento militare contro il regime di Assad. Nel frattempo il dialogo con Bruxelles s’è fatto più complicato e nei Balcani ha assunto anche sfumature competitive.

Ma questo conta poco, nella scelta di Erdogan. Davutoglu sarà primo ministro perché è un alleato fedele, riscuote fiducia nella nomenklatura dell’Akp e risulta essere una figura sì di rilievo, ma non così influente da mettere in discussione la leadership di Erdogan.

L’incarico a Davutoglu ha avuto però una conseguenza collaterale di non poco conto, determinando uno screzio tra Erdogan e un’altra personalità di spicco dell’Akp: il presidente uscente Abdullah Gül. È uno degli uomini di maggiore prestigio del partito. È stato primo ministro prima che Erdogan, nel 2003, potesse assumere la guida del paese (su di lui gravava un divieto a ricoprire incarichi pubblici). Poi ha fatto il ministro degli esteri, fintanto che nel 2007 non è stato nominato capo dello stato, il primo di dichiarata fede islamica nella storia del paese.

Gül si aspettava che fosse nominato primo ministro al posto di Davutoglu, contro il quale tuttavia non ha nulla da dire: lo apprezza e lo sostiene. È inoltre contrario all’idea di Erdogan di riorganizzare i ranghi del partito dando più spazio e potere alle nuove leve, come segnala The Voice of America. In più Gül, la cui posizione è più moderata rispetto a quella di Erdogan, è stato attaccato nelle settimane passate dalla stessa stampa di area Akp, quella più vicina all’ala conservatrice del partito. La cosa lo ha amareggiato, si racconta.

Gül ha spiegato che, abbandonato il palazzo presidenziale, non intende lasciare la politica. Una dichiarazione che si presta a svariate letture, tanto è generica. Da una parte si va sussurrando che potrebbe costituire una nuova formazione politica. Dall’altra si ipotizza che questa sarebbe una scelta perdente. Gül non è in grado di contrastare l’egemonia di Erdogan e uscendo dall’Akp rischierebbe di fare il gioco di Fetullah Gulen, cosa che non vuole, dal momento che i suoi rapporti con l’imam sono tutt’altro che buoni, evidenzia Al Monitor.

Dal canto suo Erdogan non può sbarazzarsi di Gül. La sua linea moderata è in grado di allargare l’attrattività elettorale dell’Akp. Fattore decisivo, in vista del voto chiave del 2015. In altre parole, Gul primo ministro limerebbe il ruolo da capo indiscusso che Erdogan si sta ritagliando, ma l’Akp senza Gül potrebbe non raggiungere la mole di voti utile a ottenere i due terzi del parlamento. Nei prossimi mesi si giocherà una partita di sottili equilibri.

Il fattore economia

La crescita sostenuta vissuta dalla Turchia dal 2002 a oggi è alla base delle scorpacciate elettorali dell’Akp. L’economia si è espansa, triplicando i redditi individuali e sdoganando una vera e propria classe media.

Le previsioni indicano che il Pil, nei prossimi anni, continuerà a crescere con buoni ritmi. Il che avvantaggia Erdogan. Ma sotto la superficie dei numeri crudi si nascondono delle insidie. La Turchia presenta degli squilibri. L’inflazione galoppa, il deficit delle partite correnti suscita allarme, la propensione al risparmio si sta assottigliando e l’andamento dell’economia è trainato dai capitali stranieri, affluiti copiosamente dall’occidente, a causa della crisi e della politica di stimoli lanciata dalla Federal Reserve (acquisto di titoli pubblici e riduzione dei tassi), che ha spostato questi stessi capitali verso le aree emergenti, dove il rischio è maggiore, ma ci sono più margini di profitto.

Ora la stessa Federal Reserve sta tagliando gli stimoli e i capitali, tendenza già visibile, stanno rispostandosi verso il primo mondo, dove i rischi sono minori. Nel frattempo la lira turca s’è indebolita e la Banca centrale ha dovuto effettuare qualche sostanziosa manovra. Erdogan, in altre parole, è tenuto a tenere d’occhio il piano dell’economia, contenendo le possibili ricadute negative che l’andamento della finanza globale potrebbe avere sul paese e potenzialmente sul consenso dell’Akp.

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