Turchia: il tentato golpe ha spianato la strada a un’autocrazia

La proclamazione dello stato di emergenza il 20 luglio 2016, quattro giorni dopo il fallito colpo di stato, ha spianato la strada al regno dell’arbitrarietà generale. Il governo, violando i limiti che la Costituzione impone per quanto riguarda lo stato di emergenza, da allora utilizza questo potere straordinario per epurare in modo massiccio l’amministrazione dagli elementi indesiderabili e per chiudere scuole, università, giornali, fondazioni e associazioni con un semplice provvedimento amministrativo, senza alcuna possibilità di ricorso legale. Il bilancio della repressione è molto pesante: oltre 150.000 funzionari licenziati o sospesi, di cui un quarto sono insegnanti, 53.000 arresti, accuse di tortura durante gli interrogatori, divieto di recarsi all’estero per i parenti dei sospetti…

Approfittando dello stato di emergenza, il governo ha cominciato a rimodellare lo Stato da cima a fondo per portare a compimento il processo di fusione tra lo Stato e l’AKP (il Partito per la giustizia e lo sviluppo), in corso da diversi anni. Il capo dello Stato, Recep Tayyip Erdoğan, ha sfruttato il tentato colpo di stato del 15-16 luglio 2016 per adottare un regime di contro-golpe, la cui forza repressiva continua a crescere senza sosta da un anno.

Il regime di contro-golpe gli ha permesso anche di far approvare dal Parlamento la proposta di emendamento costituzionale, preparata in tutta fretta con l’inatteso sostegno del leader del partito di estrema destra, il Partito del movimento nazionalista (MHP). Questa alleanza sunnita-nazionalista che si è costituita dopo il 15 luglio, soprattutto per soffocare le rivendicazioni curde in Turchia e nella regione, ha dato il via libera all’introduzione di un regime iperpresidenziale in cui il presidente eletto accentra tutti i poteri, compresi il controllo del sistema giudiziario e la capacità di governare attraverso i decreti.

Questi emendamenti costituzionali sono stati sottoposti a referendum, il 16 aprile 2017, e adottati con una debolissima maggioranza. Il rapporto degli osservatori dell’Organizzazione per sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE) sottolinea l’enorme disuguaglianza tra i sostenitori del “Sì” e quelli del “No” durante la campagna referendaria e la sospensione del diritto di riunione con il pretesto dello stato di emergenza. Il rapporto segnala, inoltre, l’esistenza di gravi irregolarità avvenute durante lo spoglio dei voti con il beneplacito dell’autorità giudiziaria responsabile di sorvegliare il corretto svolgimento delle elezioni.

La campagna referendaria ha fornito anche l’occasione al presidente Erdoğan di giustificare un’accesa polemica con l’Unione europea, in particolare con la Germania e i Paesi Bassi, a seguito dei limiti imposti da questi paesi, di tenere incontri a sostegno del ‘Sì’ organizzati con la presenza dei ministri del governo appartenenti al Partito della giustizia e dello sviluppo (AKP). Da allora i rapporti con molti paesi europei sono degenerati e la Germania, i Paesi Bassi e l’Austria hanno dichiarato i membri del governo dell’AKP persona non grata. Il Parlamento europeo ha votato due raccomandazioni per sospendere i negoziati di adesione con la Turchia e il Consiglio d’Europa ha deciso di riaprire una procedura di controllo nei confronti della Turchia (procedura chiusa nel 2004).

Infine la detenzione di una decina di deputati del HDP – in particolare dei suoi due co-presidenti – la nomina di commissari di governo in tre quarti dei comuni gestiti dal partito pro-curdo e l’arresto dei sindaci eletti, così come la ripresa delle operazioni militari contro le posizioni mantenute dal partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), hanno allontanato ulteriormente la speranza di una ripresa dei negoziati per risolvere pacificamente il problema curdo.

Il referendum del 16 aprile 2017 rappresenta la consacrazione di Tayyip Erdoğan come il Reis (capo) onnipotente della “nuova Turchia”. La riforma costituzionale prevede l’attuazione del nuovo regime in due passaggi. Permette immediatamente al Presidente di diventare membro di un partito politico e istituisce un nuovo Consiglio della magistratura. Si tratta di disposizioni sulla cui entrata in vigore Tayyip Erdoğan ha insistito particolarmente. All’inizio di maggio, ha nuovamente aderito nell’AKP e, nel corso di un congresso straordinario tenutosi il 21 maggio, ne è ridiventato il presidente. Quindi, in pratica, la Turchia ha attualmente un presidente della Repubblica che è anche presidente del partito di maggioranza in Parlamento. La separazione – per quanto simbolica – tra il potere legislativo e quello esecutivo non esiste più. Tayyip Erdoğan è un leader di partito che gode, allo stesso tempo, dell’irresponsabilità politica riconosciuta ai presidenti della Repubblica. Ridiventato presidente dell’AKP, Erdoğan ha sostituito immediatamente gli alti dirigenti del partito che è diventato, a tutti gli effetti, il partito di Erdoğan.

A fine maggio, sono stati nominati gli undici membri del nuovo Consiglio dei magistrati e dei pubblici ministeri, quattro direttamente da Tayyip Erdoğan e gli altri sette dalla sua maggioranza parlamentare. Le nomine e le promozioni dei magistrati sono state bloccate. Dopo il colpo di stato, un quarto dei membri della magistratura è stato destituito e le nuove nomine ai posti vacanti dei giudici sono state fatte con procedure accelerate speciali, con una forte maggioranza degli avvocati membri dell’AKP tra i neo-nominati.

Le altre disposizioni previste dagli emendamenti costituzionali approvati entreranno in vigore dopo le prossime elezioni presidenziali che si terranno nel 2019; tra queste, l’eliminazione della carica di primo ministro. Il capo di stato sarà l’unico capo dell’esecutivo e il governo dovrà rispondere esclusivamente a lui. Il parlamento diventerà, quindi, un semplice strumento di ratifica, privo di funzioni specifiche, mentre il capo dello stato disporrà del potere legislativo attraverso i decreti presidenziali.
Il referendum ha rivelato l’estrema polarizzazione della Turchia, divisa in due parti uguali: da un lato i sostenitori di Erdoğan, che hanno nei suoi confronti una specie di venerazione; dall’altro, coloro che lo odiano profondamente. Tale polarizzazione è chiaramente visibile nella distribuzione geografica dei risultati del referendum. “La marcia per la giustizia” da Ankara a Istanbul, di Kemal Kilicdaroglu, presidente del principale partito di opposizione, il CHP, nel giugno 2017, ha mostrato nuovamente la forte mobilitazione della Turchia che dice “no a Erdoğan”. Il successo di questa marcia, culminata il 9 luglio in una manifestazione a cui hanno partecipato più di un milione e mezzo di persone in un sobborgo di Istanbul, ha dato nuova forza all’opposizione, che spera di poter mantenere l’unità del fronte del ‘no’ per le prossime elezioni presidenziali. Speranza che si rivela per il momento una chimera.

Come definire l’attuale regime politico in vigore in Turchia?

Tale regime è molto più di un semplice autoritarismo, sebbene non si tratti di una classica dittatura. È un’autocrazia elettiva. Un’autocrazia, perché tutti i poteri, senza eccezione, sono concentrati nelle mani di una sola persona. La giustizia è sotto il controllo personale di Erdoğan, così come il potere religioso attraverso la Direzione degli affari religiosi. Infine, l’esercito è stato totalmente stravolto dalle epurazioni che si sono susseguite dal 2008. Attualmente il 40% dei generali dell’esercito turco è in stato di detenzione e circa il 10% degli ufficiali è stato congedato.

Tayyip Erdoğan esprime sempre più apertamente la propria volontà di perseguire una politica di re-islamizzazione dello spazio pubblico. In particolare, sta facendo inserire i corsi di religione nei programmi scolastici e sostiene attivamente lo sviluppo delle scuole religiose. Per garantire la sua rielezione nel 2019, sta procedendo nel processo di assorbimento del partito di estrema destra grazie a un atteggiamento islamista-nazionalista. Al Congresso straordinario dell’AKP, ha fatto scrivere nell’atto costitutivo “quattro principi”: un solo stato, una sola nazione, una sola patria e una sola bandiera. Altri due principi, non espliciti, si aggiungono per inciso agli altri quattro: una sola lingua (il turco) e una sola religione (l’islam sunnita). E, inutile dirlo, un solo leader!
Questa autocrazia elettiva è innanzitutto il regno dell’arbitrarietà del potere. Non solo lo stato di diritto è abrogato, ma non è neanche più uno stato basato su leggi che rimangono in vigore. La perdita totale della certezza del diritto accompagna questo Stato dell’arbitrarietà. La Turchia è intrappolata in un tumulto autoritario caratterizzato da una progressiva perdita di potere che porterà ad una repressione sempre maggiore, alimentata dalla crescente paura di perdere un giorno il potere. La Turchia subisce gli effetti di uno slancio autoritario le cui conseguenze rischiano di essere per tutti ancora più catastrofiche.

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foto: Cristoforo Spinella – Commemorazione per l’anniversario del fallito golpe in Turchia al Parlamento di Ankara, 15.07.2017

Tradotto da Orsetta Spinola

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