Turchia e Armeni, la riconciliazione passa per la società civile

Da Reset-Dialogues on Civilizations – La Turchia non è pronta a riconoscere il genocidio armeno. Qualche suo cittadino, invece, sì. È il caso di Orhan Pamuk, il premio Nobel per la letteratura. La sua vicenda è nota. Nel 2005, l’anno prima di ricevere l’ambito premio, venne intervistato dal settimanale svizzero Das Magazin e in quell’occasione sottolineò il silenzio tombale fatto calare, dai compatrioti, sul milione abbondante di armeni uccisi tra il 1915 e il 1918. Ne seguì un processo, poi terminato senza conseguenze penali rilevanti, che rimbalzò in testa ai titoli della stampa internazionale.

Il nipote del pascià

Il giornalista Hasan Cemal è andato oltre. Recentemente ha dato alle stampe il volume 1915: Ermeni Soykirimi. Il titolo non ha bisogno di essere decodificato, dal momento che indica l’anno dell’inizio dello stermino, le vittime – ermeni, gli armeni – e il rango dell’operazione criminale – soykirimi, genocidio – effettuata mentre era in corso lo stadio finale del processo di dissoluzione dell’impero ottomano.

Quello di Hasan Cemal è un libro molto autobiografico, che ha una dimensione familiare e personale. L’autore è il pronipote di Cemal Pasha, uno degli architetti delle violenze perpetrate a danno della minoranza armena, colonna portante, insieme ai greci, della borghesia ottomana. È analizzando le responsabilità dell’antenato che Cemal edifica la tesi che sta alla base del suo scritto e che era stata snocciolata anche da Pamuk: la Turchia non può più nascondere la testa nella sabbia e se intende proporsi al mondo come nazione matura e pienamente democratica deve fare i conti con gli aspetti ingloriosi del suo passato.

L’operazione non è delle più semplici. Lo stato turco moderno, fondato da Mustafa Kemal Ataturk, ha una vocazione solidamente democratico-repubblicana e sembra sempre più rappresentare un faro per l’area mediorientale, come evidenziano i continui riferimenti al cosiddetto modello turco, combinazione equilibrata di Islam e democrazia. Eppure la Turchia sconta anche un difetto originario, essendo stata forgiata sulla base di un credo nazionale fortemente segnato dal primato della componente turca sulle altre. Il genocidio armeno, i pogrom antigreci, la decennale tensione con i curdi stanno lì a dimostrarlo. Uscire da questo schema è difficile e si è visto quanto la classe politica di Ankara s’irrigidisca ogni qualvolta che tali argomenti vengono sollevati.

È il caso della legge contro la negazione del genocidio armeno approvata all’inizio di quest’anno dall’Assemblea nazionale francese. Ha provocato un vero e proprio corto circuito diplomatico tra i due paesi. Due anni prima, quando la commissione esteri della House of Representatives americana votò una risoluzione sulla questione armena, stessa scena: Ankara reagì con rabbia, giungendo a richiamare in patria l’ambasciatore negli Stati Uniti.

Lo spartiacque Dink

Gli ultimi anni raccontano non solo di schermaglie diplomatiche. Ci sono stati anche dei passi in avanti. Il punto di partenza è stato l’omicidio del giornalista Hrant Dink, direttore di Agos, settimanale armeno di Istanbul, freddato nel gennaio del 2007 da un giovane esponente dell’ultranazionalismo turco. Era stato proprio Dink a spiegare a Cemal – così ha raccontato quest’ultimo – la reale storia dell’ecatombe del 1915-1918, che i libri e manuali turchi rimuovono, facendo propria la narrativa ufficiale dello Stato.

L’uccisione di Dink ha sdoganato un fenomeno di ricerca della verità, che già negli anni addietro s’era andato delineando in alcuni segmenti della società. Non solo. Le autorità, proprio sulla scia dell’affaire Dink e della grande ondata di partecipazione emotiva che esso ha fatto scattare, hanno edulcorato il famigerato articolo 301 del codice penale, appiglio giuridico con cui, sulla base dell’offesa alla cosiddetta “turchità”, sono stati più volte perseguiti coloro che hanno messo in discussione i punti fermi della narrazione nazionale. Nella nuova versione dell’articolo, meno etnica, si parla di nazione turca e non di “turchità”.

Nel 2009, poi, sono stati firmati dei protocolli tra Turchia e Armenia, ritenuti il possibile apripista di uno storico, mutuo riconoscimento diplomatico. La ratifica dei rispettivi parlamenti è tuttavia saltata dopo che Ankara ha posto come condizione la soluzione del conflitto congelato del Nagorno-Karabakh, enclave armena all’interno dell’Azerbaigian, sostenuto dai turchi in funzione anti-armena. Volendo però guardare al bicchiere mezzo pieno, i protocolli costituiscono una base da cui ripartire. Quando i tempi per il dialogo saranno davvero maturi.

Dialogo e fede

Al fiasco sul piano delle relazioni Ankara-Erevan, è corrisposta un’apertura sul fronte dei diritti degli armeni di Turchia, come delle altre minoranze. Il governo Erdogan, nel 2011, ha varato un’importante legge sulla restituzione, alle congregazioni religiose, di una lunga lista di beni requisiti dallo stato turco a partire dal 1936.

Nello stesso anno è stata riaperta la chiesa armena di San Giragos, a Diyarbakir, città del sudest turco, il territorio dove la presenza armena era in passato più significativa. L’edificio di culto, uno dei più imponenti del cristianesimo di rito armeno, era stato chiuso all’epoca del genocidio. Fu successivamente adibito a deposito. Negli anni ’60 fu restituito in condizioni pietose alla comunità armena di Diyarbakir, ridotta a un pugno di uomini e donne. Negli anni più recenti alcuni facoltosi armeni di Istanbul si sono riproposti di raccogliere fondi per la ristrutturazione della chiesa, tornata in funzione nell’ottobre dell’anno scorso. Anche grazie alla collaborazione delle autorità locali e della comunità islamica.

Questa vicenda, così come la legge sulla restituzione dei beni delle comunità religiose, attesta che c’è una parte di società turca pronta a riconciliarsi e che, benché sia indietro rispetto ai cittadini, anche lo Stato sta cercando di mettere in fila qualche giusto passo. Stimolato anche dalla pressione europea (dovuta ai negoziati sull’accesso turco nell’Ue). È assai poco percettibile, ma quasi sempre, senza alimentare strappi o virate troppo brusche, fa maturare dei discreti risultati.

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Nella foto: 23 gennaio 2007, manifestazione in memoria di Hrant Dink (cc)

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