Turchia: dimentichiamo Erdoğan per un minuto, questo è capitalismo primitivo

Da Hurriyet Daily News, Turchia

Sociologa conosciuta in tutto il mondo per i suoi studi sulle relazioni tra Islam, spazio pubblico e modernità, Nilüfer Göle si trovava in Turchia poco dopo i tragici eventi della miniera di Soma[1]. Professoressa e Directrice d’études presso l’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi, ha coordinato un panel sul tema “risorse e limiti del pluralismo nella Turchia di oggi” nell’ambito degli Istanbul Seminars che ogni anno in maggio Reset-DoC organizza presso l’Università Bilgi nella città sul Bosforo.

Nilüfer Göle sostiene che la Turchia di oggi non dia un buon esempio dal punto di vista del pluralismo. Spiega che su temi come questo il governo turco, negli ultimi anni, si sia allontanato dalla precedente posizione “islamico-riformista” scivolando pericolosamente verso un nuovo capitalismo autoritario. Secondo Göle la tragedia di Soma ha visto convergere, in un solo momento, le diverse fasi e i diversi volti del capitalismo di oggi. Critica l’atteggiamento di coloro che pongono il primo ministro Recep Tayyip Erdoğan al centro di ogni analisi. Per Göle, questa è la dimostrazione di una Turchia-“moglie” che vuol vedere nel proprio marito l’origine e la causa di ogni suo problema. “Cerchiamo di dimenticare per un minuto il primo ministro”, propone Nilüfer Göle, “facciamo una nuova analisi”.

Come analizza i fatti di Soma?Nilufer Gole1

Tutto il mondo ha assistito alla tragedia di Soma. Ma il vero dolore, la vera sofferenza è ricaduta sugli operai, sulle loro famiglie, su chi viveva a Soma. In Turchia, abbiamo visto convergere nello stesso momento le diverse fasi e i diversi momenti storici del capitalismo. Una combinazione tra il capitalismo moderno globalizzato e quello pre-industriale. Un intreccio tra “pre” e “post” capitalismo.

Soma ha cambiato la favola dello sviluppo della Turchia, la percezione che le persone hanno del capitalismo, della vita e delle condizioni di lavoro degli operai. La tragica morte di questi minatori ci si è anche il risultato delle privatizzazioni e del capitalismo sfrenato della Turchia di oggi. La combinazione di questo tipo capitalismo con le condizioni economiche globali impone una corsa a sempre maggiori profitti e a una produzione sempre più intensa che non dà valore né all’individuo né alla sicurezza sul lavoro.

Le condizioni di questi minatori ci hanno ricordato il significato dell’impossibilità di un processo di sindacalizzazione in Turchia. L’incidente di Soma cosa ci dice realmente sulla classe operaia nel Paese?

Nemmeno il primo maggio è riuscito a essere occasione per una vera discussione sui diritti dei lavoratori e sulle questioni sociali. Ha dominato la repressione. Ai lavoratori non è stato permesso di discutere delle questioni inerenti ai diritti sindacali e dei lavoratori. In termini di sviluppo, la Turchia sembra entrare nell’orbita dei modelli dei nuovi paesi emergenti, capitalisti ed autoritari. Ma la Turchia non è una nuova Cina o una nuova Malesia. È parte del continente europeo. In questo paese nemmeno i sindacati riescono a proteggere l’insieme dei lavoratori. Chi porterà all’agenda politica di oggi i diritti sociali? In che modo potrà farlo? Queste questioni possono essere discusse solo nella misura in cui nella società vi siano formazioni indipendenti come i sindacati, le associazioni civili, i media. Questa è la vera funzione della democrazia. Altrimenti potere e operai, governo e cittadini rimangono faccia a faccia l’uno contro l’altro. E in questo caso le alternative sono due: o un abbraccio o uno scontro. Questa situazione mette in luce un importante deficit democratico. Noi non vogliamo né uno scontro né un abbraccio con il potere, vogliamo una giusta distanza e relazioni adeguate.

Per quanto le classi operaie abbiano mantenuto una generale tendenza “a sinistra” negli anni 2000, dal primo governo AKP sembrano essersi schierati ancor più nettamente in questa direzione. Nei primi anni di governo AKP questo si è reso ancora più evidente. Dopo un evento così drammatico come quello di Soma, fino a che punto è arrivata la tensione nelle relazioni tra il governo e gli operai?

Sinceramente non lo so, questa è una questione da lasciare ai ricercatori. Quello di cui sono certa è che il modello di sviluppo dell’AKP ha raggiunto i suoi limiti. Gli eventi di Gezi Park ne avevano già dato un primo segnale. Parlando di mega-progetti, di sviluppo verticale, di crescita globale ci si è dimenticati dell’importanza dell’uomo e dell’ambiente che lo circonda. Abbiamo iniziato a chiederci non tanto come continuare a crescere ma in che modo farlo. Si è svelata la faccia di un capitalismo aggressivo che non ha cura della qualità della vita, della sicurezza sul lavoro, della salute del cittadino. Proteggere l’integrità dell’individuo oggi è il comune denominatore dei movimenti sociali. Sia per i colletti bianchi delle città, sia per gli operai nelle miniere.

Si è voluto leggere Gezi come il tentativo di un colpo di stato al posto di un forte segnale su questi temi.

Sì, non solo il governo ma anche un movimento che si è creato attorno al governo stesso sembra aver intrapreso una nuova “operazione di percezioni”. Il grado di intolleranza a cui è arrivato il potere oggi è ben riassunto nella fotografia che ha ritratto un consigliere del primo ministro, in giacca e cravatta, pestare un cittadino locale[2]. Dopo Gezi tanti scrittori hanno assunto quello stesso atteggiamento. Danno calci e pugni dai loro editoriali. Tutti coloro che hanno espresso critiche nei confronti del governo sono stati accusati di essere terroristi aleviti, controrivoluzionari, intellettuali repressivi, golpisti, rivoltosi.

Ma alla base di tutto questo non c’è forse un solo uomo e una cerchia di quadri che lavorano con lui? Non prendono forse tutti forza dal primo ministro?

Dimentichiamo Erdoğan per un momento. Cerchiamo di riflettere per un minuto senza chiamarlo in causa. Tutte le analisi che facciamo ruotano sempre attorno al primo ministro e le conclusioni che ne traiamo non sono sempre le più adatte. Questa è proprio la sindrome di una “Turchia-donna”, di una Turchia che come una moglie vede la causa di ogni suo problema nel marito.

Secondo lei ponendo il primo ministro al centro di ogni dibattito stiamo cercando un alibi?

Sì, in un certo senso è una semplificazione. Se anche il primo ministro si facesse da parte oggi, ci troveremmo comunque faccia a faccia con questi problemi, di questo dobbiamo essere consapevoli. Prima di tutto cerchiamo di fare un’analisi più ampia della situazione. Stiamo parlando di un potere in crescita da dieci anni. In Turchia la tesi dello scontro tra civiltà di Huntington tra l’Islam e l’occidente è rimasta in un limbo. Proprio per questo era stata indicata da molti come il paese condannato a risolvere questo conflitto. La Turchia confermerà la tesi di Huntington oppure, all’opposto, sarà proprio il paese in grado di invertire e superare questo scontro? Questo era il vero motivo per cui la Turchia è stata messa sotto i riflettori. Con la primavera araba si era iniziato a parlare della Turchia come di un paese modello, in grado di combinare stabilità politica, benessere e ricchezza culturale.

Ma è successo l’esatto opposto. Proprio a partire dalla primavera araba le cose in Turchia hanno iniziato ad andare male.

Sì, ha ragione. Come è possibile che sia accaduto l’opposto? Quando propongo di analizzare per un momento il nostro paese senza considerare il primo ministro, propongo di ripensare anche ad alcune delle nostre sconfitte. In primis, le travagliate relazioni con l’Europa. Tutti ci siamo serrati dietro questa questione. Avendoci vissuto a lungo, sono la prima ad essere consapevole delle riluttanze europee.

Ma anche la Turchia ha perso un appuntamento molto importante con l’Europa. Certo, abbiamo fatto del nostro meglio. Dopo di che, la palla è passata di nuovo a noi. La Turchia, ancora rifiutata dall’Europa, con la primavera araba era diventata l’“oggetto del desiderio” di molti. Ma la sconfitta di Morsi ha rovinato la chimica del nostro potere.

La terza sconfitta in Turchia è connessa all’incapacità della comunità internazionale di risolvere la questione siriana. Era corretta l’idea di una Turchia ago della bilancia degli equilibri mediorientali. Ne conseguiva l’idea di una democratizzazione della regione che rifiutava la legittimità di un potere appoggiato dai militari. Per questo bisognava evitare di demonizzare la questione islamica. Questa era la particolarità della primavera araba e anche dell’atteggiamento dell’AKP. Ma non è andata così. E questa non è solo una sconfitta turca e non è una situazione che si può spiegare analizzando un solo attore. Eppure abbiamo un leader che legge queste sconfitte come i colpi di coda di un complotto ordito contro di lui. Ma non si può riscrivere così la storia.

Lei è stata tra i primi ad affrontare il problema del vittimismo, il discorso dei “poveri musulmani” sfruttati dal potere. Se l’AKP dovesse continuare sulla scia dei Fratelli Musulmani..cosa può accadere quando i “poveri musulmani” arrivano al potere?

Già dieci anni fa facevo notare che quelli che stavano prendendo il potere non erano più “poveri musulmani”. Oggi vediamo bene gli effetti della patologia a cui ha portato questa vittimizzazione. Un potere che dice “io sono la vittima” è un potere che travisa i diritti dei cittadini. E a quel punto la sofferenza altrui, il disprezzo dei ceti repubblicani, la marginalizzazione degli aleviti[3] e le condizioni di lavoro degli operai passano inosservate. Sembra che percepiscano ogni voce dissonante come un tentativo di derubarli del proprio potere. Il denaro, il potere, la brama di notorietà sono tutte questioni che andrebbero contenute. Da un movimento religioso e islamico vi aspettereste più auto-controllo. Un tale eccesso di ambizione dovrebbe offendere i veri credenti.

Mentre accadono tutte queste cose, qual è il quadro ideologico che sta nascendo?

Con l’ascesa dell’AKP la destra conservatrice ha cominciato a cambiare. La tradizione di centrodestra iniziata con il Partito Democratico[4] sta per scomparire. L’esclusione di scrittrici come Nazli Ilicak[5], rappresentante dagli anni sessanta del pensiero politico democratico, conservatore e liberale, contrario all’esercito, mostra un punto di rottura molto importante. La possibilità di mettere a tacere duramente una voce come la sua dimostra che siamo entrati in un una nuova pericolosa era. Dopo aver messo a da parte Erbakan[6], suo padre politico, e distruggendo la tradizione di un liberalismo di destra, Erdoğan sta costruendo un nuovo centro tutto per sé. In questo secondo periodo di governo, l’AKP è sembrato lentamente scivolare da un “riformismo islamico” verso un capitalismo autoritario. L’AKP sembra una formazione in grado di combinare il capitalismo con una nuova operazione di “ingegneria sociale”.

L’AKP si è mai preoccupato di appartenere a una destra liberale? Il  conservatorismo non ha subito sempre una pressione molto forte?

Certo, anche questa è la critica più seria che dobbiamo rivolgere agli intellettuali come noi: avete aperto le porte a queste persone, ma costoro non sono mai stati dei liberali. Negli anni ottanta, gli intellettuali islamici riflettevano e scrivevano sul tema del pluralismo e dei confini dello Stato. Oggi non si rispetta il pluralismo, ma la maggioranza.

Secondo lei qual è l’aspetto più problematico nel modo di fare politica dell’AKP?

Siamo continuamente immersi in una politica della tensione. Una frase di Turgut Özal[7] mi aveva molto colpito quando ero ancora una giovane sociologa. “Le persone di questo paese non si amano. E se insegnassimo loro a rasserenarsi nell’unione con Dio?” Ora capisco quanto fossero vere quelle parole. Come può trovare serenità la gente se non può avvicinarsi allo stato, alla nazione, al governo, alla religione? Il governo AKP oggi si è spinto verso una polarizzazione fortissima, verso un odio che non sa perdonare. È un discorso che allontana l’AKP dalla tradizione di Özal e Menderes[8]. Secondo me oggi l’AKP ha rotto il legame con Özal. Non ha la sua capacità di inclusione. Eppure anche allora esistevano voci critiche del governo. Emin Çolasan[9] aveva scritto un libro intitolato “Da chi fugge Turgut?”, una pubblicazione molto critica. Persino gli studenti dell’università Boğazici avevano apprezzato quel libro allora. E anche questa è democrazia: può succedere che qualcuno vi scriva un libro del genere. Ma Özal non ha mai fomentato gli scontri. È sempre stato un leader pronto al compromesso e al dialogo. Io allora credevo che in Turchia non potesse vincere un modo di fare politica diverso da questo. Mi sbagliavo. Bisognerebbe capire quali fossero le radici di quell’atteggiamento conciliante. Fino a che punto ci spingeremo? Penso che un atteggiamento sordo al dialogo non porterà nulla di buono per la Turchia. Forse è un mio desiderio ma è molto difficile continuare con questa tensione. Oggi tutti si sentono presi in giro e feriti nella propria dignità, non solo le minoranze e le classi repubblicane. Vi ricordate il pestaggio di quel consigliere…quei calci li abbiamo sentiti un po’ tutti. Ci sentiamo tutti oltraggiati.

Perché l’AKP ha abbandonato il suo atteggiamento conciliante? Eppure era politicamente molto forte. Ha conquistato a fatica il potere e per non perderlo si è poi irrigidito sulle spaccature della società, non è così?

Bisogna capire che la Turchia, dopo l’eredità dei militari, non è più proprietà di nessuno Stato. Per questo sono importanti la costituzione, l’indipendenza della magistratura, la stabilità della burocrazia. Questo errore l’hanno fatto anche le élite repubblicane, si sono comportate come se la repubblica fosse di loro proprietà. Noi invece non ci sentivamo padroni, abbiamo voluto condividere questa repubblica con tutti. Ma ora c’è una parte della società che la reclama solo per sé. Questa è solo una nuova espressione di quella che ho chiamato “patologia dell’unico attore” nel mio scritto Muhendisler ve Ideoloji (“Ingegneri e ideologia”, Iletisim Yayinlari, Istanbul, 1986).

Apriamo un’altra parentesi. Per quanto i fatti del 17 dicembre possano essere connessi allo scontro tra il governo e la cemaat di Fethullah Gülen[10], hanno sollevato gravi accuse sui fenomeni di corruzione all’interno del governo. Perché i credenti non hanno dato peso a queste accuse?

Noi abbiamo creduto che la democrazia fosse un regime di verità. Ma nei paesi in cui Twitter viene oscurato non esistono più verità, non si riescono a ricevere notizie. Durante i colpi di stato noi cercavamo di ascoltare la BBC da piccole radio. Informarsi e avere accesso alla verità sono le vere arterie della democrazia. Oggi con l’incredibile sviluppo delle tecnologie abbiamo accesso alle notizie in modo estremamente veloce e allo stesso tempo vengono svelati continuamente nuovi segreti. Prima Wikileaks, poi le intercettazioni, anche in Francia sono successe cose simili. Le democrazie oggi sono entrate in una nuova era. Né lo Stato né l’individuo hanno più segreti. Ma anche con tutta questa trasparenza, non riusciamo ad arrivare alla verità. Possiamo avere le registrazioni, le immagini, ma queste non ci bastano a cogliere la verità. Nonostante tutte queste informazioni siano oggi disponibili, i regimi democratici hanno smesso di essere regimi di verità. Non sappiamo più cosa è vero e cosa non l è. La Turchia deve ricollocare il proprio regime di verità. Di fronte ad accuse così pesanti il governo dovrebbe cercare la verità e renderla pubblica.

Anni fa lei ha scritto un libro intitolato Intimità moderna. Oggi però ci sta dicendo che la privacy non esiste più non solo per le donne, ma per nessuno in generale. Siamo veramente pronti a vivere in modo così trasparente?

Già in passato sostenevo che non esiste una relazione semplice tra modernità e intimità, che nell’era moderna la privacy andrebbe protetta. La trasparenza è uno dei concetti più importanti di quest’epoca, ma rimane un concetto limitato. Vi faccio un esempio: oggi in Europa si dibatte molto circa la forma delle moschee, su quale debba essere l’estetica della loro architettura. Si vuole che le moschee siano visibili in modo che dall’esterno non siano guardate con sospetto.

Un tempo contavano le ideologie, ora contano le forme. Gli architetti provano a rendere le moschee belle agli occhi degli europei. Cercano di dare loro una bella forma. La moschea di Colonia è riuscita a dare una nuova immagine all’Islam in Europa, con il suo stile moderno ma allo stesso tempo tradizionale, visibile e trasparente al punto giusto per rassicurare i sospettosi sguardi europei. Attraverso l’estetica, è riuscita a superare le più profonde spaccature politico-culturali. Chi non sa creare una bella forma, non può creare civiltà. Restiamo dubbiosi rispetto ai propositi ‘civilizzatori’ del progetto della moschea a Çamlica[11]. Ma il governo, parlando sempre in termini di “noi e gli altri”, “noi e le élite” non porterà mai a una bella forma. È possibile creare una bella forma senza creare élite?

In realtà hanno reso elitario anche il governo. Si sono già resi elitari nella gestione del paese.

Con un atteggiamento elitario così ostile è difficile creare qualcosa di migliore, di più bello, di più vero. Lo sviluppo moderno non porta con sé il bello. La modernità, come lo schermo di un televisore, ha un volto piatto, scivoloso, senz’anima. Sembra che la caratteristica fondamentale della modernità sia proprio questo essere trasparente, liscia, levigata. Sembra che la Turchia apprezzi molto quest’idea in questo momento storico..stiamo persino ristrutturando interi palazzi in modo che non rimanga traccia della loro storia.

Il governo ha etichettato il momento che stiamo vivendo come la fase di una “nuova Turchia”.

“Nuovo” non vuol per forza dire “migliore”. E qui viene la parte ironica. È proprio un movimento conservatore a tagliare le nostre radici con la tradizione. Questo movimento non ha più alcuna relazione con il passato ma è sempre in cerca del nuovo. Per questo assomiglia ai paesi in via di sviluppo e per questo trova ormai superato il ruolo che aveva all’interno del vecchio continente europeo.

Molti paesi hanno sperimentato in momenti storici diversi la crescita di città verticali, leader forti, un capitalismo e un consumismo sfrenato. Come la Cina, la Malesia o l’India. Non teniamo più l’occidente al centro delle nostre analisi. E anche questo è un segno di sviluppo. Le sfide della democrazia infatti oggi non riguardano più solo la storia dell’occidente. Anche i nuovi movimenti di piazza oggi hanno sviluppato nuove visioni, è nata una nuova energia creativa. Gezi Park è riuscita a creare un nuovo modo di comprendere la cittadinanza tra quelli che pregavano, quelli che facevano yoga, quelli che preparavano l’iftar[12]. Preparare cene di strada condivise a Beyoğlu[13] è stato un gesto forte quanto tante parole e anche di più. È stata una nuova forma di espressione politica. Senza cercare rappresentanti, la gente è scesa in piazza e ha fatto una nuova prova di cittadinanza.

Traduzione dal turco di Emanuela Pergolizzi

Note (a cura di Emanuela Pergolizzi)

[1] Il tredici maggio 2014 un’esplosione in una miniera di carbone a Soma, cittadina della Turchia occidentale, ha causato la morte di 301 minatori nella più grande tragedia sul lavoro della storia della repubblica turca.

[2] Il riferimento è ad una notizia che risale a giovedì 14 maggio 2014. Il giorno seguente alla tragedia in miniera, durante la visita del primo ministro alla città di Soma, alcune fotografie hanno ritratto il pestaggio di un manifestante da parte di uno dei consiglieri del primo ministro.

[3] Gli aleviti sono la più grande minoranza religiosa presente in Turchia, i cui membri sono stimati tra i 10 e i 15 milioni, circa il 25 percento della popolazione turca. Durante gli ultimi dieci anni, il governo turco ha mostrato primi importanti segni d’apertura, come l’inclusione di note sul credo alevita nei libri di testo per il corso di “cultura religiosa ed etica” nelle scuole. Tuttavia le cemaevi, luoghi di culto alevita, non sono ancora legalmente riconosciute dallo stato turco e la minoranza non è rappresentata all’interno del Diyanet, il Ministero degli Affari Religiosi turco. I rapporti tra il governo AKP e la minoranza alevita ha raggiunto il punto di massima tensione nel maggio 2013 a seguito della decisione del primo ministro Erdoğan di dedicare il terzo ponte sul Bosforo – oggi in costruzione – al sultano Selim I, detto anche “Il crudele”, responsabile del massacro di circa centinaia di alevita nel 1514.

[4] Il Partito Democratico (Demokrat Parti, DP) è stato una formazione politica di centro-destra fondata nel 1945 da Adnan Menderes. Usciti dal sistema monopartitico kemalista, dominato dal Partito del Popolo Repubblicano (Cumhuriyet Halk Partisi, CHP), il Demokrat Parti è stato protagonista della prima vera alternanza politica nella storia della repubblica turca e il primo partito di opposizione a passare al governo nel 1950.

[5] Nazli Ilicak, giornalista ed ex-parlamentare, ha lavorato per molti anni per il quotidiano Sabah, noto per le sue posizioni filo-governative. Nel dicembre 2013, durante gli scandali di corruzione che hanno colpito membri chiave della compagine governativa, dalle colonne di Sabah, Ilicak ha criticato apertamente il Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) circa la gestione delle indagini sul caso. Il 18 dicembre 2013 Ilicak ha perso il posto al giornale Sabah e ora scrive per il quotidiano Bügün.

[6] Necmettin Erbakan è stato un uomo politico turco, primo ministro tra il 1995 e il 1996 e leader del movimento islamico della “visione nazionale” (Milli Görüş) di cui era parte negli anni novanta anche l’attuale primo ministro Recep Tayyip Erdoğan. Al governo di Erbakan è stata posta fine con il cosiddetto “colpo di stato post-moderno” o “golpe bianco” del 28 febbraio 1997, ultimo intervento diretto militare nella vita politica turca. Erbakan fu costretto alle dimissioni e la sua formazione, il Partito del Benessere (Refah Partisi, RP), fu chiusa dalla Corte Costituzionale turca per violazione del principio di separazione tra religione e lo stato. La fine politica di Erbakan e la chiusura del RP ha innescato un vasto processo di riflessione interno al Movimento della Visione Nazionale e la separazione di una corrente riformista da cui ha avuto origine l’attuale Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP).

[7] Turgut Özal è stato primo ministro per due volte in Turchia tra il 1983 e il 1989 e presidente della repubblica turca tra il 1989 e il 1993. Segretario e fondatore del partito della madrepatria (Anavatan Partisi, ANAP), Özal è ritenuto uno dei leader storici del centro-destra in Turchia in continuità rispetto ad Adnan Menderes (primo ministro tra il 1950 e il 1960).

[8] Adnan Menderes è stato fondatore del Partito Democratico (Demokrat Parti) nel 1945 in opposizione al Partito del Popolo Repubblicano (Cumhuriyet Halk Partisi, CHP) di ispirazione kemalista. E’ stato il primo leader di una formazione politica di centro destra a ricoprire la carica di primo ministro dopo la fine del sistema monopartitico in Turchia. Il governo di Menderes è stato bruscamente interrotto dal colpo di stato militare del 1960, a seguito del quale lui stesso è stato processato e condannato a morte.

[9] Emin Çolasan è un giornalista turco. Ha lavorato per 22 anni per il quotidiano turco Hurriyet, dal 1985 al 2007. Le forti critiche contro il governo del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) sono ritenute la causa del suo licenziamento dal quotidiano Hurriyet il 13 Agosto 2007. Negli anni Ottanta, invece, Colasan si è distinto per le violente critiche dirette al primo ministro Özal, protagonista dei suoi primi bestsellers (“Le avventure di Turgut” e “Turgut da chi sta scappando?”).

[10] Per cemaat si intende il movimento islamico fondato da Fethullah Gülen, carismatico predicatore residente negli Stati Uniti e leader di una rete internazionale di strutture scolastiche e centri culturali islamici. A seguito della divulgazione anonima, il 17 dicembre 2013, di intercettazioni telefoniche che hanno portato alle accuse di corruzione di membri chiave del governo, Fethullah Gülen è stato accusato dall’AKP e dal primo ministro Erdoğan di essere segreto artefice e manovratore di una campagna diffamatoria contro il governo.

[11] Nilüfer Göle fa riferimento al progetto governativo, inaugurato nell’agosto 2013, di costruire una gigantesca moschea alta 288 metri a Çamlica, la collina più alta della città, storica isola verde punto di passaggio e osservazione delle migrazioni di uccelli sul Bosforo. Con una superficie di 15 mila metri quadrati e disegnata per ospitare 30 mila credenti, la moschea è stata progettata in modo tale da essere visibile da ogni angolo di Istanbul.

[12] L’iftar è il pasto serale che al calare del sole interrompe il digiuno durante il mese del Ramadan.

[13] Beyoğlu è il cuore laico di Istanbul e il quartiere di piazza Taksim, dove hanno avuto luogo gli scontri di Gezi Park nel maggio-giugno 2013. In un evento senza precedenti, nel luglio 2013 le diverse anime delle proteste di Gezi Park si sono incontrate nella preparazione di grandi cene collettive di strada per l’iftar, lungo la via Istiklal.

Leggi la versione inglese su www.resetdoc.org

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