Dopo la virtù ci sono anche i vizi
del compromesso tunisino

Da quando nel 2011 le rivoluzioni arabe hanno iniziato a innescare un terrificante mix di guerre civili e minacce terroristiche rapidamente dilagato dalla Siria alla Libia allo Yemen, analisti e politici di estrazione sia araba che occidentale hanno sentito l’urgenza di individuare almeno un caso di successo nella regione. La Tunisia si è rivelata l’esempio positivo che stavano cercando, malgrado finora – nel solo 2015 – abbia già subito due attacchi terroristici mortali sul proprio territorio, il secondo dei quali è stata la strage che il 26 giugno è costata la vita a 38 turisti in un resort di Sousse.

Ciò nonostante, la fase di transizione che ha visto la Tunisia liberarsi dalla dittatura di Zine El-Abidine Ben Ali resta per molti versi un successo. Si è riusciti infatti a ratificare una nuova Costituzione e a fondare nuove istituzioni democratiche, con un corollario di episodi violenti relativamente circoscritto, e nel processo è emersa una sfera pubblica estremamente dinamica. La Tunisia è stata anche il primo Paese del mondo arabo in cui un partito islamista, Ennahda, sia salito al potere e abbia poi accettato di farsi da parte nel rispetto della volontà popolare. Dopo aver vinto le elezioni del 2011 per la nomina dei membri dell’Assemblea Costituente di transizione, Ennahda ha infatti ammesso la sconfitta alle elezioni parlamentari del 26 ottobre 2014, in cui è stato il partito laico del Nidaa Tounes (NT) a conquistare la maggioranza alle urne. In quell’occasione, e a seguito della corsa alla poltrona presidenziale del dicembre successivo, la ragionevolezza degli islamisti ha permesso un sereno passaggio di poteri tra funzionari uscenti e di nuova nomina.

La retorica del “successo tunisino” – che spesso dipinge la nazione come un’“eccezione” o un “modello” – si presta però anche ad alcune critiche. [1] Tutto il plauso nei confronti della Tunisia, sia da parte degli intellettuali arabi che di quelli occidentali, è di fatto un contraltare alle legittime rimostranze di cui è stato oggetto l’andamento seguito dal processo di transizione post-Ben Ali. I commenti positivi si fondano spesso sul condiscendente assunto per cui le conquiste fatte dalla Tunisia acquisirebbero un “certo valore” commisurate al fatto che si tratta di un Paese arabo, o sulla constatazione occidentocentrica secondo cui in fondo alla Francia e all’America ci sono sempre voluti due secoli per raggiungere molti degli obiettivi democratici che hanno fatto da fondamenta alle rispettive rivoluzioni nei due Paesi.

All’indomani dell’attentato di Sousse, molti commentatori ed esponenti politici hanno espresso una condivisibile preoccupazione per le conseguenze economiche a breve termine – con il prevedibile crollo del turismo – e per il rischio ai fini del consolidamento dei progressi democratici compiuti dal Paese. Nel complesso, però, la retorica del successo ha retto. In prima battuta la strage di Sousse è stata ricondotta a un tentativo dei radicali riuniti sotto la bandiera dello Stato Islamico (ISIS) di sabotare un governo regolarmente eletto e di orientamento laico. [2] Alle altre possibili interpretazioni – per cui l’episodio potrebbe anche essere visto come estrema manifestazione del livello di disperazione a cui è giunta una parte consistente della gioventù tunisina, o come dimostrazione dello scarso addestramento delle forze di polizia – si è accennato, ma con toni ben più velati.

Nella dichiarazione che ha rilasciato a poche ore dall’attentato, il presidente Beji Caïd Essebsi ha puntato il dito contro i movimenti sociali, gli scioperi e la campagna attivista nota con il nome di winou el petrol che fa appello alla trasparenza e alla rendicontazione sull’utilizzo dei fondi pubblici, dando per inteso che tutte queste attività avessero in qualche misura spianato la strada al terrorismo in Tunisia. Essebsi ha poi ulteriormente rilanciato e sottolineato la netta distinzione tra libertà d’espressione e terrorismo in un altro suo intervento del 4 luglio, giorno in cui ha annunciato la decisione di ripristinare lo stato d’emergenza. La legge sullo stato d’emergenza – che risale al 1978, anno in cui Ben Ali, all’epoca Direttore Generale della Sicurezza Nazionale, stroncò uno sciopero generale – conferisce poteri straordinari ai governatori provinciali, che rispondono direttamente al ministero degli Interni. In base allo statuto del periodo di Habib Bourguiba, tale legge dà ai governatori la facoltà di interdire scioperi e proteste, di controllare la stampa e l’editoria, di chiudere le moschee, i ristoranti e le sedi delle associazioni civili. In Tunisia lo stato d’emergenza è rimasto in vigore da gennaio del 2011 a marzo del 2014, ma ciò non ha compromesso lo stato di salute della sfera pubblica. Reintrodurre tale legge in quello che si supponeva dovesse essere un periodo di post-transizione, però, e con un governo il cui partito di maggioranza, Nidaa Tounes, ha improntato tutta la propria campagna elettorale al tema della “sicurezza nazionale”, suona da una parte come ammettere un fallimento e dall’altra come una minaccia ad alcune libertà civili che sono state conquistate a fatica. A seconda di come lo stato d’emergenza verrà applicato, rischia addirittura di mettere a repentaglio la democrazia e il pluralismo stessi della Tunisia.

In altre parole, per quanto possa valere il discorso – portato avanti dai commentatori liberali – che l’ISIS stia cercando di sovvertire l’esempio positivo del successo tunisino, gli ostacoli all’esperimento democratico del Paese hanno radici ben più profonde di una temporanea vulnerabilità alla furia cieca del terrorismo. I veri intoppi sono legati alla genesi stessa della retorica della positività.

Il doppio standard e la “mentalità” del compromesso

Ai risultati delle consultazioni elettorali tunisine del 2011 e 2014 sono state attribuite interpretazioni molto diverse. Laddove qualsiasi dichiarazione fatta da Ennahda nel 2011 era stata accolta con marcato scetticismo e beneficio di inventario, l’NT sembra godere di un favore incredibile presso analisti e autorità politiche di tutto il mondo. La vittoria islamista nel 2011 aveva dato origine a tutta una serie di ipotesi su presunte agende nascoste che avrebbero riguardato le pari opportunità e la legge islamica, ed erano stati sollevati seri dubbi circa il reale impegno del partito al rispetto dei valori democratici. Nel 2014, vuoi per una spontanea simpatia nei confronti dell’NT o in virtù di un abbassamento degli standard, la maggior parte dei commentatori ha chiuso un occhio su alcuni tratti della coalizione laica che a rigor di logica avrebbero dovuto destare preoccupazione. [3] Più di metà degli 86 deputati NT che oggi siedono in Parlamento ricoprivano alte cariche nel Rassemblement Constitutionnel Democratique (RCD), il partito al governo sotto Ben Ali. Oltretutto – stando a quanto emerso da un rapporto della commissione di vigilanza Lobby Leaks – l’NT coltiva rapporti privilegiati con le grandi aziende, i media e le forze di polizia. La campagna per la presidenza di Essebsi si è contraddistinta per il recupero empatico dell’estetica del vecchio regime, con grandi primi piani del candidato che hanno richiamato alla memoria il culto della personalità proprio di Ben Ali e del suo predecessore Bourguiba. Il genero di Ben Ali, Slim Chiboub, ha fatto provocatoriamente ritorno dall’esilio negli Emirati Arabi. Ed Essebsi, in prima persona ex funzionario dell’RCD, ha fatto commenti sgradevoli sui martiri della rivoluzione e sugli elettori delle regioni meridionali, liquidandoli come “terroristi”. Le prime settimane di legislatura hanno inoltre visto l’arresto del blogger Yassine Ayari e di molti altri attivisti.

Alla luce di questo doppio metro di valutazione viene spontaneo chiedersi a cosa esattamente i vari commentatori si riferiscano con le loro sperticate lodi alla transizione tunisina. Nel leggere gli articoli, si ha l’impressione che il trionfo dell’NT abbia riportato la storia sul giusto binario, come se il governo di Ennahda e di fatto tutta la politica intercorsa tra il 2011 e il 2014 fossero stati solo un’aberrazione. La stessa cesura della rivoluzione viene vista come parentesi accessoria di una presunta lunga tradizione di riformismo tunisino.[4]

Di fatto, un concetto essenziale per portare avanti questa retorica del successo è quello del compromesso. La scelta islamista di farsi da parte, l’adozione della nuova Costituzione nel 2014 e le successive elezioni sono tutti fattori che hanno contribuito a determinare questa inclinazione decisamente più unica che rara della politica tunisina. È interessante notare come, a fronte di tutto ciò, il termine arabo che sta per “compromesso” (hall wasat) venga in realtà usato molto di rado nei dibattiti. Vengono piuttosto impiegati e portati avanti una serie di concetti correlati: consenso (ijma‘), alleanza (tahaluf), cooperazione (ta‘awun), unione (ittihad), accordo (safaqa), patto (ittifaq), contratto (‘aqd), negoziazione (tafawud), dialogo (hiwar), moderazione (i‘tidal), solidarietà (tadamun) e perdono (tasamuh). A tutti questi termini viene attribuita una valenza positiva o negativa a seconda dell’occasione e di chi li usa, per benedire accordi che fanno gli interessi di un dato partito e/o del bene comune o, al contrario, per condannarne altri che quegli stessi interessi mettono a repentaglio e/o compromettono le logiche democratiche. Tali duelli a colpi di oratoria sottolineano la complessità dei dibattiti che hanno luogo in Tunisia fin dal 2011, e celano da una parte la retorica deterministica di una mentalità incline all’arbitrato e dall’altra il tropo orientalista che vuole la cultura politica araba fondamentalmente incompatibile con il compromesso.

Evitare i rischi e la strategia del contenimento

Da quando il leader di Ennahda, Rachid Ghannouchi, ha fatto ritorno in Tunisia, nel gennaio del 2011, la maggior parte delle decisioni prese dal partito islamista è parsa orientata a una strategia volta a scongiurare rischi e a non farsi nemici né tra gli avversari laici né tra gli occasionali sostenitori salafiti. Dopo anni di esilio e repressione, il principale obiettivo di Ennahda era diventare un partito politico normale, che le altre forze politiche riconoscessero come alleato necessario o quantomeno avversario accettabile. Inoltre, esso aspirava anche a consolidare la propria base di consenso a livello locale. In un clima di diffusa incertezza, molti leader locali hanno optato per l’approccio del “piede in due staffe”, che consisteva in “un’apparente tendenza alla conciliazione unita però a una resistenza decisa e a varie manovre dietro le quinte”. [5] Ennahda ha dato un colpo al cerchio e uno alla botte anche in occasione delle crisi che si è trovata a gestire dopo essere salita al potere. Sotto il governo di Hamadi Jebali (dicembre 2011 – febbraio 2013), formato dalla troika di Ennahda insieme ai due partner laici del Congrès pour le République (CPR) ed Ettakatol, il partito non ha opposto ferma resistenza alla radicalizzazione jihadista delle fasce più giovani di popolazione urbana, per non alienarsi le simpatie dei salafiti. Allo stesso modo, non ha spinto l’acceleratore sulla giustizia transizionale, per timore di apparire come degli éradicateurs agli occhi degli appartenenti ai circoli dell’ex regime. Diversi leader di Ennahda si sono inoltre opposti alla bozza originaria di “legge a tutela della rivoluzione”, che sarebbe stata bocciata da tutte le altre realtà politiche ufficiali che avevano servito nei governi RCD.

Su molte questioni, i leader di Ennahda sono andati contro il volere di gran parte degli elettori del partito. Ghannouchi e i suoi alleati del Consiglio della Shūra hanno imposto decisioni impopolari, come la rinuncia a ogni riferimento alla shari‘a nella nuova Costituzione. A loro giudizio, il rischio di scontentare gli elettori è stato inferiore al pericolo che il partito, una volta allontanatosi dalla via della rispettabilità, potesse non sopravvivere. Finora, dopo ogni episodio, sono sempre riusciti a riappacificarsi con la propria base, grazie all’opera di mediazione in ambito locale e all’enfasi posta sull’urgenza di normalizzazione del partito.

Dopo le elezioni del 2011, le forze anti-islamiste hanno – seppur a malincuore – metabolizzato nella propria visione del mondo il fatto che Ennahda facesse ormai parte dello scenario politico. Visto che una repressione alla Ben Ali non era un’opzione praticabile, l’obiettivo principale è diventato il contenimento, che a tendere è sfociato in una contro-egemonia. Tale strategia ha assunto nel tempo la fisionomia di una campagna di diffamazione ai danni degli islamisti, costellata di travisamenti delle loro parole e diffusione di voci infondate. Su qualsiasi frase ambigua pronunciata da un esponente politico islamista si è ricamato per alimentare polemiche. Quando il primo ministro Jebali ha usato il termine khilafa (califfato) in un suo intervento, per esempio, il fatto è stato immediatamente interpretato come uno scivolone rivelatorio di quanto il vero progetto di Ennahda fosse in realtà non dissimile da quello dell’ISIS. I media vicini ai circoli dell’ex regime hanno fatto disinformazione (insinuando che gli islamisti incentivassero alla poligamia, che facessero il lavaggio del cervello ai bambini e spingessero le ragazzine a sposare i jihadisti in Siria). La politica della contro-egemonia ha fatto anche affidamento sulle alleanze interne all’Assemblea Costituente e sulla lenta riattivazione delle ex reti RCD. La fondazione dell’NT da parte di Essebsi, nel giugno del 2012, è arrivata in un momento chiave. Il colpo di Stato militare in Egitto, a luglio del 2013, e la persecuzione ai danni dei Fratelli Musulmani che ne è seguita hanno consentito all’NT di capitalizzare la furia anti-islamista e di accattivarsi le simpatie di poteri regionali come gli Emirati Arabi e l’Algeria.

Il fatto che il confronto politico arrivasse a strutturarsi in una dialettica tra la strategia di Ennahda di non correre rischi e la politica di contenimento dell’NT ha impedito l’emergere di uno spazio di pluralismo in cui ci si potesse confrontare con le differenze invece che scansarle.

Lo stratagemma della risoluzione del conflitto

L’Assemblea Costituente è stata in questo senso un’eccezione importante. La sua funzione è stata quella di un tavolo su cui attuare un diverso tipo di transazione politica, volta a innescare meccanismi di pluralismo e non solo a mantenere la stabilità. Dai dibattiti in seno all’Assemblea sono emerse divergenze fondamentali circa il ruolo che la religione avrebbe dovuto avere in Tunisia, a quale fosse il tipo di regime (presidenziale o parlamentare) più adatto al Paese, alla libertà di coscienza, alla parità tra i sessi e al diritto internazionale. Alla luce della discordanza di opinioni su tutti questi temi, la strategia retorica dell’evitare il conflitto si è rivelata inefficace. I delegati si sono trovati costretti a un esercizio collettivo – e pubblico – di riflessione e contraddittorio. Non è stato facile. Si è spesso cercato di aggirare il dibattito con la proposta di delegare la stesura della Costituzione a “esperti competenti” e di formare un “governo neutrale”. Ci sono stati anche proteste e accordi sottobanco volti a far deragliare le delibere. Malgrado ciò, dopo la presentazione di quattro bozze (ad agosto 2012, dicembre 2012, aprile 2013 e giugno 2013), il 29 gennaio 2014 l’Assemblea ha finalmente approvato la nuova Costituzione.

I delicati equilibri dentro e fuori l’Assemblea, sommati alla portata delle divergenze ideologiche, hanno fatto sì che in definitiva i fronti contrapposti non avessero altra alternativa che quella di raggiungere un compromesso attraverso la negoziazione. In seno alla troika Ennahda era il partito di maggioranza, ma con soli 89 seggi aveva bisogno dell’appoggio del CPR e di Ettakatol. Nell’Assemblea, Ennahda e i suoi due alleati hanno dovuto fronteggiare l’opposizione sempre più decisa di partiti come il Blocco Democratico e l’Alleanza Democratica, che avevano forti legami con i media, la società civile laica, i sindacati e i circoli dell’ex regime. Quel che più importa, nessun partito e nessuna organizzazione aveva l’ascendente necessario a far scendere la gente in massa per le strade. Le forze anti-troika ci hanno provato con le proteste del luglio 2013 fuori dal Museo Nazionale del Bardo, ma le manifestazioni non hanno mai raggiunto una portata o un’intensità paragonabile alla campagna del Tamàrrud che ha portato alla cacciata del presidente Mohamed Morsi in Egitto. Visto che tutti i soggetti in gioco erano troppo deboli per imporre la propria volontà, sono stati costretti a tornare a sedersi al tavolo, seppur a malincuore.

Un secondo aspetto che spiega la riuscita delle deliberazioni all’interno dell’Assemblea è il fatto che della maggior parte delle questioni più delicate si dibatteva già dai primi anni del 2000. A ottobre del 2005, i principali oppositori del regime di Ben Ali – sia laici che islamisti – avevano siglato un accordo a Aix en Provence, nel quale elencavano i principi fondanti di una futura Tunisia democratica. Tra i punti chiave del documento rientravano le pari opportunità, la libertà di coscienza e il fatto che non venisse fatta menzione alcuna della shari’a in una futura Costituzione tunisina. [6] Nella misura in cui le discussioni in seno all’Assemblea erano una prosecuzione di conversazioni già avviate in precedenza, più che un effettivo nuovo inizio, la tentazione di temporeggiare era poca: ogni fazione conosceva già la posizione dell’interlocutore e allo stesso modo sapeva che la sua era già nota.

Da ultimo, il colpo di stato del luglio 2013 in Egitto ha avuto un effetto decisivo. La cacciata di Morsi ha drasticamente alterato la percezione che entrambe le fazioni avevano della propria capacità di conquistare l’egemonia nelle istituzioni politiche. L’accaduto ha anche portato alla formazione di due entità ad hoc la cui funzione era quella di trovare soluzioni alle dispute in seno all’Assemblea. Nella tesissima estate del 2013, segnata in Tunisia dall’assassinio del politico di sinistra Mohamed Brahmi e dall’intensificarsi della minaccia terroristica, i lavori dell’Assemblea sembravano fermi a un punto morto. Con il montare delle proteste fuori dal Bardo, il 6 agosto il presidente dell’Assemblea, Mustapha Ben Jafar, ha deciso unilateralmente di sospendere le consultazioni finché la situazione non fosse migliorata. La sospensione dei lavori implicava che gli attori esterni non potessero più dare la colpa all’Assemblea del fatto che non c’erano progressi. A prescindere dall’Assemblea, venne riunito un quartetto composto da federazione dei lavoratori, principale unione degli imprenditori, Human Rights League e Consiglio dell’Ordine degli Avvocati per dar vita a un “dialogo nazionale” che riguardasse procedura e tempistiche oltre che aspetti ideologici. Mentre i partiti all’opposizione – in particolare l’NT – chiedevano come prerequisito al dialogo che il governo si dimettesse, il quartetto propose che esso si assumesse l’impegno di farsi da parte tre settimane dopo l’inizio dei negoziati. Ennahda, dal canto suo, respinse entrambe le opzioni, annunciando che avrebbe lasciato il potere solo una volta che l’assemblea avesse finito il proprio lavoro e fosse stato nominato un candidato di compromesso al ruolo di Primo Ministro.

Dopo settimane di discussioni, e malgrado diverse battute d’arresto, alla fine si è arrivati a un quasi accordo a metà dicembre del 2013. Le parti in causa hanno concordato la nomina dell’ex ministro dell’Industria, Mehdi Jomaa, che sarebbe stato a capo di un governo no-partisan di tecnici il cui mandato avrebbe avuto termine con le elezioni successive. A settembre del 2013, l’Assemblea ha ripreso i lavori, nella speranza che il dialogo nazionale facilitasse le delibere interne. Nel frattempo, era stata ricostituita anche la Commissione del Consenso, creata in seno all’Assemblea a luglio del 2013. Quest’organismo ad hoc aveva il compito di trovare un terreno di dialogo comune su questioni controverse prima che la bozza finale arrivasse al voto. “È imperativo”, aveva dichiarato Ben Jafaar nel corso di una conferenza stampa a luglio, “che si arrivi a un compromesso prima di iniziare a prendere in esame il progetto di Costituzione articolo per articolo in sessione plenaria”. Quando la sessione plenaria è iniziata, la maggior parte delle divergenze su questioni come il tipo di regime, il contenuto del preambolo e la libertà di culto erano già stata risolte.

La Costituzione che è stata alla fine approvata da 209 delegati è stata frutto di quasi tre anni di pubbliche riflessioni e dibattiti. Si è trattato di un processo chiassoso e caotico, ma che ha portato a quello che Richard Bellamy definisce un “compromesso profondo”, in cui “tutti i partiti hanno trovato nelle proprie concezioni morali un motivo valido per farsi alcune concessioni a vicenda”.[7] In questo senso, la Costituzione tunisina va letta esattamente per quello che è: una giustapposizione di mutue concessioni. Il documento è stato oggetto di molte critiche per la sua mancanza di coerenza, ma è proprio la sua assenza di una puntuale compattezza a rappresentarne l’utilità politica. Alla fine, il processo costituzionale tunisino, in tutta la sua drammaticità, è riuscito a produrre l’opposto della sintesi senza soluzione di continuità che avrebbero elaborato i cosiddetti esperti neutrali e l’opposto anche dell’accordo a buon mercato che i partisan di entrambe le fazioni avrebbero voluto far digerire all’altra parte.

Uno sporco compromesso

Il processo collettivo di formulazione della Costituzione e le successive elezioni presentano però un rovescio della medaglia. Hanno infatti comportato l’accantonamento di tre questioni – rinnovamento dello scenario politico, riforma legislativa e giustizia transizionale – che ai fini della transizione sarebbero state altrettanto importanti.

Alle elezioni dell’ottobre 2011 erano in lizza più di 100 partiti. La mancanza di tempo, esperienza e risorse, però, ha impedito alla maggior parte di essi di formare coalizioni o costituire piattaforme elettorali che potessero fare ampia presa, e molti sono finiti successivamente inghiottiti dalla netta spaccatura tra islamisti e anti-islamisti che ha contraddistinto le consultazioni del 2014. A parte l’NT ed Ennahda, la maggior parte dei partiti politici tunisini è più simile a dei club, dei clan o dei think tank. Come nel caso dei movimenti di protesta che hanno avuto luogo nel 2011, l’espressione delle loro politiche, caratterizzata da elevata spontaneità e dall’ampio ricorso all’arte e ai social media, ma concentrata più sulle piccole rimostranze del quotidiano che non sugli aspetti ideologici, era certamente genuina ma fondamentalmente mancava di una direzione precisa. Per cui la sfera politica tunisina è stata segnata da una parte dal proliferare di partiti deboli e instabili e dall’altra da una cittadinanza vivace, attenta, ma sostanzialmente indifferente alla politica di partito.

La scelta di sacrificare la riforma legislativa al’urgenza di formulare una nuova Costituzione ha fatto sì che restassero in vigore diverse leggi in netto contrasto con la logica del pluralismo. La legge sullo stato d’emergenza del 1978 è un caso lampante. Anche il codice penale è rimasto invariato, e include ancora oggi clausole che condannano la diffamazione e le “pubblicazioni proibite”. Il famigerato Codice sulla Stampa non esiste più, ma molti dei suoi articoli sono andati a confluire nel Codice Penale, circostanza dalla quale continuano a derivare vergognose limitazioni alla libertà di espressione.

Da ultimo, la giustizia transizionale ha avuto contorni confusi fin dall’inizio. Malgrado il processo vada farraginosamente avanti, la maggior parte degli ex vertici dell’RCD che avrebbero dovuto sedere sul banco degli imputati si sta invece nel frattempo riaffacciando alla vita pubblica. Corinna Mullin e Brahim Rouabah hanno lucidamente riassunto il fallimento con queste parole:

Malgrado siano stati compiuti alcuni significativi passi avanti, finora i progressi della giustizia transizionale sono stati più di facciata che sostanziali. Nell’ex regime la violenza ha assunto forme sia materiali che concettuali. Un’aula di tribunale non è certo la sede ideale per rivedere e giudicare i lasciti intellettuali, pur tuttavia la giustizia transizionale è idealmente un processo ben più olistico. Le forme giuridiche di riparazione possono costituire parte integrante di tale processo, ma altrettanto cruciali sono la ridistribuzione della ricchezza e dei poteri (e nel contesto tunisino questo problema non riguarda solo le diverse classi sociali, ma anche le varie aree del Paese dal momento che le regioni più interne, il sud/sudovest e il nord sono storicamente ai margini, sia in termini materiali che di influenza politica) e il fatto che si riescano a colmare le profonde disparità sociali create dal regime repressivo.[8]

Il pluralismo e lo smorzare i conflitti all’interno dell’Assemblea hanno portato a uno stile claustrofobico di transazione politica, segnato dalla falsificazione delle preferenze e da preaccordi circa la condivisione dei poteri. Avishai Margalit definisce questo tipo di accordo uno “sporco compromesso”, obbligato dal fatto che fosse a rischio l’esistenza stessa di un singolo partito. [9] E puntualizza che quando un compromesso compromette le stesse regole che rendono in prima battuta possibile un dialogo efficace, esso sia in definitiva suscettibile di decadere presto.

Le discussioni che hanno avuto luogo in Tunisia dall’estate del 2014, e in particolare dopo le elezioni parlamentari di ottobre vinte dall’NT, si configurano come passaggio alla politica – appunto – dello sporco compromesso. Per quanto Ennahda sia ancora il secondo partito di maggioranza, staccando di netto – con 69 seggi – il suo più prossimo rivale, la leadership islamista ha optato per il basso profilo, al punto da indurre molti a chiedersi se finirà per fare da alleato all’NT. I vertici del partito hanno rifiutato di schierarsi a favore di un qualsiasi candidato alla presidenza, e hanno preso le distanze anche da Moncef Marzouki del CPR, malgrado l’ampio supporto di cui egli gode presso la base Nahdawi. Ennahda non si è opposta nemmeno alla nomina di un membro dell’NT a capo del nuovo Parlamento, a quanto pare accontentandosi della vicepresidenza. Gli islamisti hanno chiesto incarichi di governo nell’esecutivo guidato da Habib Essid, ma ne hanno ottenuti solo tre, lo stesso numero di cariche andate al partito della destra neoliberale Afaq Tunis, che conta appena otto seggi in Parlamento.

Il ricordo della dura repressione subita negli anni Novanta e delle persecuzioni di cui gli islamisti sono stati oggetto dopo il colpo di Stato del 2013 in Egitto ha solo rafforzato la determinazione di Ennahda a non correre rischi. Gli islamisti temono per la propria sopravvivenza stessa come partito, ma soprattutto per la sicurezza dei membri dell’organizzazione. In quanto compromesso obbligato, l’accordo tra gli islamisti e l’NT potrebbe davvero contribuire a pacificare momentaneamente lo scenario politico, ma è assai poco probabile che inauguri una politica di pluralismo. L’apertura dell’NT a Ennahda segue la logica di contenimento che ha guidato il vecchio partito di regime dal 2012. Cooptando gli esponenti islamisti, l’NT spera di riuscire a insinuarsi nella base Nahdawi e in quelle frange della società in cui Ennahda gode di maggiore influenza. Il programma dell’NT è vago, un miscuglio di incanti della “modernità”, “eredità di Borguiba” e “prestigio statale”, e l’intesa con Ennahda, che ha radici ideologiche più profonde, potrebbe comportare una significativa iniezione di contenuti sociali. Per quanto però l’NT si stia tenendo il nemico al fianco, il suo obiettivo finale resta quello di disfarsi degli islamisti, o inglobandoli o debellandoli.

Gli attentati del Bardo e di Sousse hanno rafforzato la logica del compromesso fondata sullo scongiurare e contenere i rischi. I rappresentanti di Ennahda, da Ghannouchi a scendere, hanno fatto eco agli appelli di Essebsi per l’unità e la sicurezza nazionale. E gira voce di un possibile rimpasto in autunno, con un maggiore coinvolgimento di ministri di Ennahda. [10] Un rinsaldamento della partnership tra Ennahda e l’NT servirebbe solo a rendere ancora più marcio il compromesso di maggioranza, nella misura in cui gli islamisti guadagnerebbero terreno in termini di normalizzazione, ma perderebbero sempre più credibilità agli occhi della propria base elettorale e dell’opinione pubblica in generale. Nel frattempo, i due partiti continuano a perseguire la mutua tendenza alla strategia in corso d’opera, basando le proprie decisioni più su valutazioni a breve termine circa gli equilibri di potere che non su un qualcosa che assomigli a un programma economico, a una visione politica o a un concreto impegno a favore della giustizia sociale. Ennahda ha rinviato diverse volte il Congresso Nazionale. aspetta di vedere che succede, probabilmente nel timore di scissioni interne. Per quanto invece riguarda l’NT, ha dovuto fare i conti con diverse lotte intestine, tra cui la grave frattura – a marzo – tra l’assemblea costituente del partito e una frangia dissidente capeggiata dal figlio del presidente, Hafed Caïd Essebsi. Anche il suo congresso deve ancora avere luogo. Alla luce di tutti questi problemi dentro e fuori i partiti, le promesse di una sana competizione politica scaturite dall’esperimento dell’Assemblea Costituente sono al contrario sfociate in meschine e raffazzonate tattiche volte unicamente a raggiungere una calma di facciata.

Di fatto, lo sporco compromesso della fase post-transizione espone entrambi i partiti e il futuro stesso della politica democratica in Tunisia a enormi rischi, che nello specifico derivano da: 1) lo scollamento tra base e leadership, che vede quest’ultima fondamentalmente isolata; 2) la mancanza di chiarezza ideologica; e 3) l’eccessiva enfasi posta sulla retorica dello “Stato” e della “nazione” a scapito della realtà sociale. Molti elettori sia dell’NT che di Ennahda sono infastiditi dagli accordi stretti dai loro leader. La prospettiva che Ennahda finisca per essere inglobata da una nuova classe di governo sincretica molto probabilmente alienerà ulteriormente la base di consenso dei due partiti. A quel punto quanto saranno rappresentativi? Il riavvicinamento tra Ennahda e l’NT solleva inoltre alcuni dubbi circa l’autenticità delle tensioni che tra il 2011 e il 2014 hanno preoccupato sia politici che elettori in occasione della campagna per le elezioni parlamentari. A posteriori, la linea anti-islamista dell’NT e l’opposizione di Ennahda al vecchio regime si configurano più come pose che come convinzioni reali. Gli stessi dubbi sorgono riguardo all’alleanza elettorale tra l’NT neoliberale e il Fronte Popolare, partito di estrema sinistra che conta tra le proprie fila parecchi fieri oppositori del vecchio regime. Tutta questa confusione ideologica rischia solo di esacerbare l’avversione popolare nei confronti della politica di partito, rafforzando il convincimento che la rivoluzione abbia di fatto portato a una mera ridistribuzione di potere tra le elite. Razionalizzare gli sporchi compromessi in termini di unità nazionale e autorità statale minimizza l’urgenza della questione sociale. La dimensione sociale, nella retorica dell’NT, figura solo come un qualcosa da addomesticare. Ma gli scioperi e le frequenti proteste che hanno luogo da gennaio 2015 dimostrano come le disparità tra le regioni, le rivendicazioni sociali e le richieste di giustizia e libertà siano ancora pressanti e come la società sia ancora in elevato stato di mobilitazione.

Estrema cautela

Una delle conseguenze degli attacchi dell’ISIS in Tunisia è stata la ferma condanna del dissenso in nome dell’unità nazionale e della lotta al terrorismo. Il processo era in realtà già iniziato all’indomani dell’assassinio di Mohamed Brahmi, nell’estate del 2013. Il ministro degli Interni ha dichiarato fuorilegge il partito salafita, l’Ansar al-Shari‘a, e ha ordinato la chiusura di numerose organizzazioni della società civile. La campagna elettorale dell’NT, l’autunno successivo, è stata tutta fondata sulla manipolazione dei timori dell’opinione pubblica. Su giganteschi cartelloni, a Tunisi e in altre grandi città, campeggiavano foto di vittime di percosse e quartieri pieni di spazzatura, con slogan che associavano la fase di transizione al caos. I movimenti sociali sono oggi regolarmente oggetto di discredito, definiti eversivi ed estremisti, un ulteriore rimando all’epoca di Ben Ali.

Tutte queste misure sono state adottate prima dell’attentato del 18 marzo 2015 che è costato la vita a 24 persone al Museo del Bardo. Da allora, i movimenti sociali sono stati ancora più oggetto di stretta sorveglianza e repressione. La polizia ha attaccato i giornalisti che hanno coperto le manifestazioni di winou el petrol a giugno. Da gennaio a oggi le organizzazioni per i diritti umani hanno documentato più di 30 aggressioni a reporter.

Oggi, sull’onda della brutale strage di Sousse, non solo è stato reintrodotto lo stato d’emergenza, ma sono state prese anche tutta un’altra serie di misure che destano preoccupazione per le libertà civili. È in fase di studio il progetto di costruzione di un muro al confine tra la Tunisia e la Libia.[11] Più di 80 moschee salafite sono state chiuse, senza che a ciò si accompagnasse un tentativo di dialogo con i predicatori salafiti più pragmatici. Per quanto scelte del genere fossero prevedibili, alla luce del clima generale, esse richiamano comunque alla mente la condanna dell’islamismo a cui si è assistito negli anni Novanta e indicano come lo stato d’emergenza in sé sia il pericolo principale per la democrazia. Come spiegato a Le Monde da Amna Guellali, capo della sezione tunisina di Human Rights Watch, “tra il 2011 e il 2014 la legge sullo stato di emergenza è stata applicata per certi versi in modo approssimativo. Questa volta sarà diverso. In primo luogo, c’è stato un aggravarsi della minaccia terroristica, specialmente nei centri cittadini. In secondo luogo, la stessa opinione pubblica preme per una stretta sulla sicurezza”.[12] Gli attentati del Bardo e di Sousse hanno di fatto esacerbato il fastidio generalizzato nei confronti dell’instabilità politica ed economica. Non è chiaro, però, se questo malessere si tradurrà in un’acquiescenza di massa al ritorno all’autoritarismo. Alcuni intellettuali della vecchia guardia, notoriamente sostenitori delle politiche dell’ex regime, si sono subito appellati alla necessità che lo Stato riaffermi la propria autorità e punisca il presunto lassismo del governo della troika nei confronti dei salafiti. Ma molti attivisti, giornalisti e blogger hanno richiamato con altrettanta veemenza alla fragilità di libertà che sono state conquistate così di recente e così a caro prezzo. Insomma, la società è profondamente dibattuta. Ma tutte queste divisioni sono mascherate da un’apparente logica autoritaristica di discorso politico, per cui si vuol dare a intendere che i tunisini siano tutti compatti e uniti.

La retorica del successo tunisino fondato sul compromesso deve quindi essere impiegata con estrema cautela. Malgrado gli importanti traguardi raggiunti dal 2011 a oggi, il Paese è ben lungi dall’aver conquistato un solido pluralismo politico o dall’aver trovato delle soluzioni politiche atte a canalizzare le rimostranze sociali.

L’approccio occidentale al mondo arabo oscilla sempre tra l’indifferenza e il plauso indiscriminato. Dall’autunno del 2014, la Tunisia è stata inondata di complimenti da editorialisti e politici occidentali. Ma dal momento che diversi riconoscimenti, tra cui quello dell’International Crisis Group a Essebsi e Ghannouchi in quanto “pionieri del processo di pace” sono andati a dei politici, più che al popolo tunisino, tutti gli encomi sembrano inserirsi in un tentativo su scala globale di legittimare la controrivoluzione nel mondo arabo. Corollario di questa tendenza è il deprezzamento dell’esperimento democratico del 2011-2014. Nel frattempo, gli scioperi della fame si moltiplicano, i parlamentari vogliono condannare la “diffamazione” di poliziotti e militari, lo Stato intimidisce i dissidenti come Yassine Ayari e i media ufficiali tornano all’era di Ben Ali, blandendo il governo e mettendone a tacere i critici.

L’articolo originale è pubblicato sul sito del Middle East Research and Information Project (MERIP)
Traduzione dall’inglese di Chiara Rizzo

Note

[1] Nadia Marzouki e Hamza Meddeb, “Tunisia: Democratic Miracle or Mirage?” Jadaliyya, 11 giugno 2015.

[2] Si veda, per esempio, Alice Su, “‘Look What Freedom Has Brought Us: Terrorism on the Beach,’” The Atlantic, 29 giugno 2015.

[3] Con occasionalmente alcune eccezioni, tra cui Monica Marks, “The Tunisian Election Result Isn’t Simply a Victory for Secularism Over Islamism,” Guardian, 29 ottobre 2014; Vance Serchuk, “Give Tunisian Democracy the US Support It Needs and Deserves,” Washington Post, 2 gennaio 2015; e Steven Cook, “Beji Caïd Essebsi and Tunisia’s Identity Politics,” Dal Potomac all’Eufrate, 20 maggio 2015.

[4] Béatrice Hibou, “Le réformisme: Grand récit politique de la Tunisie contemporaine,” Revue d’histoire moderne et contemporaine 56/4bis (2009).

[5] Julia Clancy-Smith, Rebel and Saint: Muslim Notables, Populist Protest, Colonial Encounters (University of California Press, Berkeley 1997), p. 72.

[6] Per maggiori dettagli circa tale dibattito, si veda Nadia Marzouki, “Dancing by the Cliff: Constitution Writing in Post-Revolutionary Tunisia, 2011-2014,” in Constitution Writing and Religious Freedom a cura di Aslı Bali e Hanna Lerner (Cambridge University Press, Cambridge, in corso di pubblicazione).

[7] Richard Bellamy, “Democracy, Compromise and the Representation Paradox: Coalition Government and Political Integrity,” Government and Opposition 47/3 (2012), p. 447.

[8] Corinna Mullin e Brahim Rouabah, “Requiem for Tunisia’s Revolution?” Jadaliyya, 22 dicembre 2014.

[9] Avishai Margalit, On Compromise and Rotten Compromise (Princeton University Press, Princeton, NJ 2013).

[10] Soufiane Ben Farhat, “Tunisie: Nouveau gouvernement Nida-Ennahdha en vue: Le scénario de la rentrée?” AllAfrica.com, 6 luglio 2015.

[11] Le Monde, 8 luglio 2015.

[12] Le Monde, 4 luglio 2015.

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