Qui Teheran: tra ISIS e crisi russo-turca,
lo sguardo preoccupato dell’Iran

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Teheran – Un “grave errore”, una “provocazione”, e un “azzardo” che rischia di determinare una pericolosa escalation in Medio Oriente: sono di questo tenore i commenti circolati in Iran dopo che aerei da guerra turchi hanno abbattuto un jet russo sul confine turco-siriano, il 24 novembre. Con qualche differenza di toni: il presidente Hassan Rohani ha condannato il gesto turco («anche se si fosse trovato vicino al confine, gli aerei non si buttano giù come giocattoli»), ma ha anche fatto appello alla moderazione: «L’incidente sullo spazio aereo siriano in prossimità del confine turco è allarmante e molto pericoloso, e complica la situazione», ha detto, infatti, rivolgendosi al Consiglio del ministri a Tehran, ma ha anche aggiunto: «Vogliamo che il nostro amico e vicino, la Turchia, consideri che le circostanze sono molto delicate»; un deterioramento delle relazioni tra Ankara e Mosca non è nell’interesse dell’Iran né della regione, e anzi aiuterebbe “i terroristi”.

Voci vicine alle correnti più oltranziste invece tengono i toni più accesi: la Turchia “gioca col fuoco”, ha titolato il quotidiano Vatan-e Emrooz. Ankara aiuta le forze del terrorismo, dicono commentatori citati dall’agenzia di stampa Fars (considerata vicina alle Guardie della Rivoluzione). Peraltro la Fars proprio giovedì ha riferito che il pilota russo sopravvissuto al crollo del suo aereo, fatto prigioniero da ribelli siriani, è stato tratto in salvo da un’azione di commando condotta dal generale Qassem Soleimani, il comandante delle forze speciali delle Guardie della Rivoluzione iraniane (che hanno contribuito in modo determinante a fermare l’avanzata dello Stato Islamico verso Baghdad, e in Siria a sostegno delle forze di Bachar al Assad): un tassello che sembra rafforzare la leggenda costruita attorno a questo comandante, dipinto dai media conservatori come un eroe nazionale.

«Abbattere l’aereo russo è stato un grave errore da parte della Turchia», dice Hossein Sheikholeslam, deputato, che ho incontrato mercoledì a Tehran. Ex ambasciatore iraniano in Siria, oggi è consigliere per la politica internazionale di Ali Larijani, Speaker del parlamento iraniano (ex negoziatore iraniano, considerato molto vicino all’ayatollah Khamenei). Sheikholeslam fa notare che l’aereo è stato colpito dalla coda, prima di abbattersi in territorio siriano: «Dunque è stato colpito mentre si allontanava, dunque non minacciava la Turchia. In ogni caso abbatterlo è stata una decisione pericolosa, la regione non può tollerare una ulteriore escalation di tensione. Ma mi domando se la Turchia abbia agito in tutta indipendenza». (L’agenzia Fars è più esplicita: accusa Washington di aver spinto la Turchia a compiere il gesto bellicoso per poter valutare meglio la capacità difensiva russa).

L’incidente tra Turchia e Russia ha dato una ulteriore accelerazione agli eventi nel Vicino Oriente.  La scena è cambiata in modo drastico in pochi mesi: all’inizio di quest’anno sarebbe stato impensabile vedere l’Iran al tavolo dei colloqui sulla crisi siriana; ora la presenza di Tehran è riconosciuta come indispensabile ai fini d’una soluzione politica al conflitto. La svolta è avvenuta nel luglio scorso, quando l’Iran e il gruppo dei 5 più 1 (le potenze del Consiglio di sicurezza dell’Onu più la Germania e l’Unione europea) hanno firmato l’accordo sul programma nucleare. Da allora il Ministro degli Esteri iraniano Zarif ha partecipato a due round di colloqui del cosiddetto “Gruppo di sostegno alla Siria”: il secondo, il 14 novembre a Vienna, ha delineato un percorso per mettere fine a 5 anni di conflitto sanguinoso. Si tratta di una “road map” ancora molto vaga (idealmente dovrebbe cominciare il 1 gennaio con un cessate-il-fuoco monitorato dall’Onu, passare per un governo di transizione in cui conviveranno l’attuale governo e la frastagliata opposizione siriana, per poi arrivare a elezioni nel 2017). Vago e disseminato di problemi irrisolti, eppure sembrava un risultato in sé, una rara opportunità per la diplomazia, proprio perché per la prima volta attorno al tavolo ci sono tutte le potenze che hanno diretta influenza sul conflitto: in particolare Stati Uniti, Russia, Iran e Arabia Saudita.

L’incidente tra Turchia e Russia rischia di rendere tutto più difficile, ma in fondo dimostra anche quanto “mondiale” stia divenendo la guerra siriana. Insomma, la pace in Siria dipende dalla possibilità di trovare un equilibrio tra gli interessi strategici di queste potenze.

Proviamo dunque a vederla dal punto di vista dell’Iran. Un primo messaggio che raccolgo qui è che Tehran punta all’interlocuzione con l’Europa. Dopo la firma dell’accordo sul nucleare l’Ayatollah Khamenei, che pure aveva aperto all’ipotesi di dialogo a tutto campo («potremo anche negoziare con loro [gli Stati uniti] su altre questioni», aveva detto), ha cambiato tono: l’Iran non farà altre concessioni, non parlerà con Washington altro che sul nucleare, almeno «finché non avremo visto che gli Stati Uniti mantengono la propria parte di impegni».

Questo non ha impedito al Ministro degli Esteri Zarif di partecipare ai colloqui di Vienna. Contraddittorio? Non poi tanto. «Sì, l’accordo sul nucleare ha aperto la possibilità per l’Iran di affrontare attraverso la diplomazia le difficili crisi del Medio Oriente», mi dice Hossein Sheikholeslam, voce che possiamo considerare rappresentativa dell’establishment vicino al Leader: «Ma è chiaro che il presupposto per il dialogo è la fiducia. Approvare un accordo è una cosa importante, ma poi bisogna applicarlo: siamo solo a metà». In altre parole, l’Iran reputa di aver fatto grandi concessioni (si è impegnato a ridurre in modo davvero drastico le sue attività nucleari, e a quanto pare ha cominciato a farlo), ma vuole vedere contropartite concrete: per ora è cambiato il clima che circonda il paese, ma il muro di sanzioni resta in piedi.

«Per affrontare la crisi in Siria il dialogo è necessario, gli Stati uniti e l’Europa hanno bisogno di parlare con noi. Non sarà un dialogo bilaterale tra noi e gli Usa, ma piuttosto un processo multilaterale», continua Sheikholeslam. E insiste: «l’Europa ha l’occasione di essere protagonista in questo dialogo, e spero che non la lascerà cadere».

In fondo, osserva, «gli europei stanno pagando il prezzo di scelte politiche fatte dagli Stati Uniti in Medio Oriente. Cinque anni fa gli Usa hanno deciso che il governo della Siria andava cambiato, lo hanno detto in modo esplicito, seguiti da Arabia Saudita e Qatar: e ora è tutta la regione a soffrirne le conseguenze. Armi, soldi, esplosivi e terroristi hanno potuto passare attraverso la frontiera della NATO. I terroristi possono vendere petrolio per finanziarsi, sempre attraverso la frontiera della NATO». Traduciamo: gli Stati Uniti e le monarchie del Golfo hanno finanziato, armato e sostenuto ribelli siriani, inclusi gruppi legati ad al-Qaeda e quelli poi divenuti lo Stato Islamico (Daesh, nell’acronimo in arabo); questi hanno trovato appoggio e retroterra logistico in Turchia («la frontiera della NATO»).

«L’Europa ne paga le conseguenze, con l’afflusso di migranti e poi con l’attacco a Parigi e la paura che si diffonde in tutto il continente», continua l’interlocutore iraniano. L’Occidente ha fatto un calcolo sbagliato in Siria, «hanno creato un mostro che ora non riescono a controllare».

La priorità dunque è «unirsi per distruggere il mostro». Di chi parliamo? «Daesh, Jabat al-Nusra, le milizie affiliate ad al-Qaeda, tutti coloro che definiamo terroristi». Questo però è uno dei punti irrisolti, perché oggi i “terroristi” di alcuni sono i “ribelli” di altri. Chi è, quindi, in un contesto siffatto, l’“opposizione legittima”? «Per noi, tutte le forze che accettano di deporre le armi devono avere il diritto a unirsi alla transizione», risponde Sheikholeslam: «Ma è vero, è ancora  questione contesa e sarà sul tavolo nei prossimi colloqui».

Quali sono le linee rosse per l’Iran, nel dialogo sulla Siria? «Una linea rossa è che siano i siriani a decidere sul futuro. Non possono essere interventi esterni a determinare chi governerà, né a decidere chi potrà candidarsi alle elezioni», aggiunge Sheikholeslam (leggi: se potrà candidarsi anche l’attuale Presidente). Il ruolo futuro di Bachar al Assad è un altro punto conteso nella “road map” (anche se dopo gli attentati di Parigi, anche per le potenze occidentali la sua uscita di scena sembra diventata meno urgente che fermare Daesh).

«Altrettanto irrinunciabile per l’Iran è che la Siria resti integra, unita e indipendente», continua Sheikholeslam («poi saranno i siriani a decidere se darsi un governo laico o religioso»). Attribuisce agli Stati Uniti (e a Israele) il disegno di sacrificare gli Stati nazionali nella regione per ridisegnarla su base confessionale-etnica, con piccoli Stati o entità sunnite, sciite, alawite, curde, cristiane e così via: ma «disintegrare la regione sarebbe catastrofico», insiste.

È chiaro che l’Iran ha in ballo i suoi interessi strategici: che il futuro governo di Damasco non gli sia ostile, mantenere una via d’accesso in Libano, dove l’Iran sostiene il movimento Hezbollah (la sua “profondità strategica” contro Israele). Per “mantenere le sue posizioni” è probabile che l’Iran continuerà a sostenere l’esercito governativo di Damasco e anche la Forza di difesa nazionale, una milizia filo-Assad in cui sono confluite negli ultimi due anni diverse comunità e minoranze del paese: ora pare che questa forza sia addestrata e organizzata proprio dalle Guardie della rivoluzione iraniane (cosa di cui nessuno ovviamente darà conferma formale): ed è facile immaginare che non rinuncerà a farlo almeno finché al-Nusra e altre milizie avranno i loro sponsor.

L’altro messaggio che raccolgo a Tehran è che tra l’Iran e la Russia si sta costruendo un’alleanza strategica. La Russia ha insistito perché l’Iran entrasse nel processo di dialogo sulla Siria. «Interesse strategico di Mosca è mantenere una base navale nel Mediterraneo», fa notare il mio interlocutore: «La sua flotta dal Mar Nero ha lo svantaggio che il passaggio attraverso il Bosforo e i Dardanelli è controllato dalla NATO: dunque la base navale di Tartous è essenziale per Mosca». In secondo luogo, «le regioni musulmane della Russia, nel Caucaso e in Asia Centrale sono diventate terreno d’addestramento per terroristi», continua Sheikholeslam: si riferisce ai movimenti jihadisti attivi dalla Siria fino alle regioni musulmane della Cina, «attaccano sciiti, cristiani, e minacciano la Russia stessa». Già: uno degli obiettivi dei missili russi in Siria sono le milizie cecene che combattono con il Daesh.

«Mosca ha deciso che non accetterà in Siria ciò che è successo in Libia», dice Sheikholeslam. E l’Iran è l’unico paese che ha permesso ai caccia e ai missili russi di sorvolare il proprio spazio aereo per colpire in Siria. «Noi permettiamo il passaggio ai missili russi in partenza dalla regione del Caspio; le testate vengono attivate solo quando sono usciti dal nostro spazio aereo, e anche gli obiettivi sono concordati. Questo permette alla Russia di avere una presenza più forte in Siria: ovvio che la Russia avrà interesse a mantenere relazioni di fiducia con l’Iran, o altrimenti perderebbe questa possibilità». Sheikholeslam ammette che non c’è sempre stata tanta fiducia tra Tehran e Mosca, al contrario: c’è una storia di secoli in cui la Persia si è confrontata con l’espansionismo russo da un lato e colonialismo britannico dall’altro. Ma quello è il passato, afferma, perché adesso la Russia vuole stabilire relazioni solide. I simboli contano: martedì scorso a Tehran il presidente Putin ha regalato all’ayatollah Khamenei un antico Corano manoscritto. «Non era solo un bel manufatto antico: era una copia di quello che quattro secoli fa i russi tolsero ai persiani dopo averli sconfitti in guerra. Insomma, è stato un messaggio chiaro, “quel tempo è passato”».

In una intervista concessa al nuovo quotidiano Vaghaye Ettefaghieh (ultimo nato tra i giornali riformisti in Iran), il Ministro degli Esteri Zarif si è detto molto preoccupato per l’esito dei colloqui sulla Siria: «La mia preoccupazione è che certi paesi optino per una soluzione militare. Spero che abbiano imparato dal caso dello Yemen, dove l’intervento militare non ha dato frutti». L’allusione all’Arabia Saudita è chiara; del resto gran parte dell’intervista tratta proprio dell’ostilità saudita verso l’Iran.

Secondo Sheikholeslam, la successione degli eventi non lascia dubbi: dopo la conferenza di Vienna, in rapida successione, un aereo russo è caduto sul Sinai, poi l’attentato in Libano e quello a Parigi: «le forze terroriste stanno dicendo “non potere decidere senza di noi”. Ora anche la Turchia ha lanciato il suo messaggio, attaccando i russi». Anche vista da Tehran, la pace in Siria resta lontana.

Nella foto di copertina: grattacapi per il Ministro degli Esteri iraniano Mohammad Zarif

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