“Stato fallito”. Dove comincia la difficile rinascita della Somalia

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Da anni occupa il primo posto nella classifica mondiale degli stati falliti, ma ora la Somalia sta cercando di imprimere un nuovo corso alla sua storia. O forse sarebbe meglio parlare di storie differenti e di realtà distinte perché, pur nella sua integrità nazionale, la Somalia è divisa in regioni caratterizzate da condizioni politiche e sociali molto diverse tra loro. E gli attriti tra le varie entità e tra i clan nemici minano le fragili fondamenta di un processo democratico che dovrebbe portare alle elezioni generali nel 2016. La speranza di una rinascita somala, alimentata dalla nomina a settembre del 2012 del presidente Hassan Sheikh Mohamud, si scontra con gli strascichi di oltre vent’anni di guerra civile: un apparato statale inesistente, una tensione latente tra il governo centrale e le autorità locali, gli attacchi del gruppo islamista al-Shabaab, la questione dei profughi e degli sfollati interni, la gestione delle risorse naturali.

Le possibilità di superare lo stallo politico e di ristabilire un governo centrale assente sin dal crollo del regime di Siad Barre nel 1991 sono legate all’attuazione della costituzione approvata nel 2012, che prevede l’applicazione di una struttura federalista allo stato somalo. Il principio del federalismo inciampa però nelle spinte secessioniste di diverse regioni, soprattutto Somaliland e Puntland, che nel corso degli anni Novanta hanno consolidato istituzioni politiche proprie e indipendenti da Mogadiscio. L’Articolo uno della costituzione stabilisce che “la Somalia è una repubblica federale, sovrana e democratica fondata sulla rappresentazione inclusiva della popolazione, su un sistema multipartitico e sulla giustizia sociale”. Pur delineando i legami tra il governo centrale e gli stati membri della federazione, la costituzione evita di precisare i ruoli e le responsabilità dei diversi livelli di governo. La stessa formazione degli stati membri è ancora in corso e il ramo del Parlamento che li dovrebbe rappresentare, la Camera Alta, non è stato ancora creato.

L’armonizzazione delle diverse autorità sparse sul territorio – le milizie legate ai clan rivali, le amministrazioni locali nascenti, le istituzioni degli aspiranti stati membri e quelle dei governi regionali – resta una questione aperta. I critici del federalismo sostengono che il nuovo progetto politico accentuerà le divisioni esistenti e porterà a una maggiore frammentazione e a una nuova ondata di violenza tra i clan. “Il genere di federalismo promosso in Somalia è un’iniziativa straniera volta ad annullare la riconciliazione nazionale e a istituzionalizzare la frammentazione sociale”, ha scritto l’analista politico somalo Mohamud M. Uluso, “l’assegnazione dei territori a specifici clan sta avendo conseguenze negative sulla stabilità politica e sulla sicurezza, sullo sviluppo economico e sulla distribuzione delle risorse tra i cittadini”.

In un contesto in cui gli sforzi sono tesi a ripristinare le istituzioni del passato e a crearne di nuove, il ruolo dei diversi attori regionali nella transizione verso la coesistenza pacifica non è ancora definito. Tra le varie entità territoriali, quella più prossima alla definizione di stato federale è il Puntland, nel nordest del paese, che si è dichiarato semi-autonomo dal 1998. L’elezione all’inizio dell’anno dell’ex primo ministro somalo Abdiweli Ali Gas a presidente del Puntland ha posto fine a un periodo di tensioni con Mogadiscio e ha sancito il sostegno della regione al progetto federalista.

Più difficile è invece l’integrazione del territorio settentrionale del Somaliland, autoproclamatosi indipendente nel 1991. Una serie di recenti incontri con i rappresentanti del governo centrale ha nutrito l’ottimismo delle autorità del Somaliland di vedere riconosciuta l’indipendenza della regione che negli anni è riuscita a costruirsi una propria storia slegata dal resto del paese. Mentre la Somalia sprofondava nel caos della guerra civile, infatti, gli abitanti del nord hanno istituito un governo autonomo, hanno tenuto una serie di elezioni libere e realizzato un pacifico trasferimento dei poteri e hanno coniato una propria valuta. Le aspirazioni separatiste del Somaliland si scontrano però con la volontà di Mogadiscio di tenere unito tutto il territorio e con le resistenze dei paesi occidentali e dell’Unione Africana (Ua), restii a creare un precedente per altri conflitti irrisolti.

Ancora in via di definizione sono anche i processi politici negli stati del centro e del sud, tra cui Jubaland e Galmudug, dove le lotte per il potere a livello locale si alternano alle tensioni con il governo centrale sulla suddivisione delle responsabilità e delle competenze. “Il cammino delle diverse istituzioni che dovrebbero formarsi nel paese e unirsi in vista delle elezioni del 2016 è molto difficile”, ha spiegato Mario Raffaelli, vice presidente di Amref, durante il convegno ‘Somalia: scenari attuali e prospettive di sviluppo’, che si è svolto il mese scorso a Roma, “la precondizione perché ciò avvenga è la sicurezza”. In un paese in cui due milioni di persone sono considerate a rischio e quasi tre milioni hanno bisogno di assistenza umanitaria, la questione della sicurezza resta un nodo fondamentale da sciogliere per rimettere in sesto lo stato.

Nonostante gli sforzi compiuti dal governo e dalle truppe Amisom (la missione dell’Ua nel paese), il movimento islamista al-Shabaab non è ancora stato sradicato, come dimostrano i recenti attacchi che hanno colpito un convoglio Onu, il complesso presidenziale e la sede dei servizi segreti. Il gruppo nato nel 2005 all’interno del più ampio movimento delle Corti islamiche, entità rette da un’autorità religiosa che si ponevano l’obiettivo di amministrare la giustizia, ha perso forza rispetto a cinque anni fa, quando aveva conquistato gran parte del centro-sud della Somalia. L’aumento della presenza dell’Amisom, gli errori militari e politici dei vertici dell’organizzazione – come la pessima gestione della carestia del 2011, che ha fatto 200mila morti – e le lotte intestine per il potere hanno indebolito al-Shabaab e ne hanno trasformato la struttura, ma non hanno cancellato la minaccia che rappresenta. “Al-Shabaab ha assunto un’organizzazione più fluida e non centralizzata e ha iniziato a reclutare militanti anche nei paesi vicini”, ha confermato Mario Raffaelli, “la sua forza è la capacità di strumentalizzare i problemi locali irrisolti e di sfruttare la debolezza istituzionale e militare della Somalia. Oggi però al-Shabaab non è più un problema soltanto somalo”.

Il controllo del territorio resta comunque una prerogativa del movimento legato ad al Qaeda. Mentre i principali centri urbani della Somalia sono stati riconquistati dal governo federale, la maggior parte delle zone rurali è ancora nelle mani di al-Shabaab, che impone alla popolazione una rigida interpretazione della sharia, la legge islamica. È per questo che molti profughi e sfollati esitano a fare rientro nelle loro terre, da dove sono fuggiti nel corso degli ultimi vent’anni. La Somalia è uno dei paesi con il più alto numero di profughi al mondo. Secondo le Nazioni Unite, sono oltre un milione quelli fuggiti all’estero e altrettanti sono sfollati interni. “È impossibile raccogliere dati scientifici all’interno del paese, ma è certo che oltre il 20 per cento della popolazione somala è sradicata”, ha detto Christopher Hein, direttore del Consiglio italiano per i rifugiati (Cir) nel suo intervento al convegno sulla Somalia, “Questo significa che buona parte delle persone che potrebbero ricostruire il paese si trova all’estero”.

Nel rapporto ‘No place like home’, Amnesty International sottolinea che in molti casi i problemi che hanno costretto gli abitanti ad abbandonare le loro case non sono stati risolti ed esorta le autorità di Mogadiscio e dei paesi accoglienti, in testa il Kenya, a non imporre ai profughi il rientro in luoghi dove la loro vita e la loro libertà potrebbero essere a rischio. Diritti fondamentali come il cibo, l’istruzione e la salute non sono garantiti in molte zone del paese. Secondo Save the Children, la Somalia è il quarto paese al mondo (dopo Pakistan, Nigeria e Sierra Leone) per il numero di bambini morti entro le prime ventiquattro ore dalla nascita; mentre Human Rights Watch ha denunciato livelli elevati di stupri e violenze sessuali commessi ai danni di donne e bambine somale. È proprio sulla tutela delle fasce più deboli della popolazione che il governo di Mogadiscio e la comunità internazionale dovrebbero puntare per vincere la scommessa della rinascita somala. Solo un tessuto sociale risanato dalle ferite di decenni di guerra e violenza sarà in grado di reggere le fondamenta delle istituzioni protagoniste del nuovo corso della politica somala.

Vai a www.resetdoc.org

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *