La Serbia non può entrare in Europa
senza aver fatto i conti con Srebrenica

L’11 luglio del 1995 è una data particolare, terribile. Segna l’atto del genocidio di Srebrenica. Sono passati vent’anni, ma poco o nulla sembra cambiato. La commemorazione di quella strage, in cui morirono più di ottomila bosgnacchi (musulmani di Bosnia), fa emergere le solite crepe, le consuete divisioni. I bosgnacchi chiedono ai serbi che il genocidio venga riconosciuto, i serbi – serbi di Bosnia e serbi di Serbia – evitano di compiere questo passo.

Stavolta s’è persino rischiato di cancellare le commemorazioni. Questo perché l’ex comandante della difesa di Srebrenica, Naser Oric, è stato fermato all’inizio di giugno dalle autorità svizzere sulla base di un mandato di cattura spiccato dall’Interpol su richiesta del governo di Belgrado, che lo ritiene responsabile di crimini di guerra contro civili serbo-bosniaci. Oric era in transito all’aeroporto di Ginevra. La Svizzera però non ha dato seguito alla richiesta, ritenendo che i delitti imputati all’ex militare siano già stati giudicati dal Tribunale internazionale per i crimini nell’ex Jugoslavia, con sede all’Aia. I suoi giudici, in effetti, hanno già processato e successivamente assolto Oric. Il verdetto aveva irritato Belgrado e Banja Luka, la capitale della Republika Srpska, l’entità serbo-bosniaca. Entrambe denunciano il fatto che la giustizia internazionale sta perseguendo solo i crimini commessi dalla parte serba, lasciando impuniti quelli perpetrati dagli esponenti delle altre forze belligeranti.

A ogni modo Oric è tornato in Bosnia, qualche giorno fa. Il suo rientro in patria ha sbloccato il discorso sulle commemorazioni del genocidio. Le autorità avevano minacciato di non tenerle, se l’ex comandante non fosse stato rispedito a casa. La vicenda non fa che confermare quanto Srebrenica e l’eredità della guerra in Bosnia siano temi sempre delicati, capaci di mettere in moto un vortice di emozioni tra loro contrastanti, anche oggi che i due principali accusati per quello sterminio, Radovan Karadzic e Ratko Mladic, sono stati assicurati dalla Serbia alla giustizia internazionale. Abbiamo chiesto alla giornalista bosniaca Azra Nuhefendic, ex cronista della radio-tv jugoslava, in Italia dal 1995, di guidarci in questo ginepraio. Premessa doverosa. La nostra interlocutrice ha una visione netta su Srebrenica: fu genocidio e il genocidio viene ancora negato.

Perché si fa fatica, da parte serba, a parlare di genocidio?

I politici oggi al potere, a Banja Luka e Belgrado, sono gli stessi che al tempo delle guerre sostennero quelle politiche nazionaliste che prima determinarono lo scoppio del conflitto e poi produssero Srebrenica.

Eppure Milorad Dodik, il presidente della Republika Srpska, all’inizio della sua carriera era ritenuto un moderato.

Sì, ma la sua moderazione era solamente funzionale a interessi utilitaristici. Con il tempo la sua postura è diventata rigida.

Molti sostengono che se la minaccia di indire un referendum secessionista, lanciata periodicamente dallo stesso Dodik, dovesse avere uno sbocco concreto in futuro, equivarrebbe alla negazione permanente del genocidio. È d’accordo?

Sarebbe proprio così. Ogni giorno i politici di Banja Luka e di Belgrado negano il genocidio, manipolano i fatti in modo che se ne depotenzi la portata. Addirittura, ammettono che la creazione della Republika Srspka, all’interno dei cui confini amministrativi Srebrenica è situata, è il solo “bottino” di guerra che i serbi hanno potuto incamerare. Pertanto sì, se la Republika Srpska secedesse dalla Bosnia e si unisse alla Serbia ci troveremmo di fronte alla formalizzazione della negazione del genocidio.

Nel 2010 il parlamento della Serbia, su impulso dell’ex presidente Boris Tadic, promosse una risoluzione in cui si ammetteva il crimine di Srebrenica, benché non si usasse il concetto di genocidio. Non è comunque un qualcosa?

Sì, è stato un passo in avanti. Ma serviva e serve un vero atto di coraggio. La politica del fiato corto, su cose come queste, non può funzionare. La Serbia deve avere il coraggio di riconoscere il genocidio, evitando che il negazionismo duri cent’anni, com’è nel caso della Turchia nei confronti degli armeni. Bisogna invece scegliere la strada che ha intrapreso nel dopoguerra la Germania.

Qualcosa sul fronte della società civile si muove. Se tutto andrà bene, l’11 luglio si terrà una commemorazione per le vittime di Srebrenica davanti al parlamento serbo, organizzata da associazioni civiche e organizzazioni non governative. Non è forse un bel segnale?

Sì lo è. Ma mi preme ricordare che le “donne in nero” (un gruppo femminista e pacifista, ndr) fanno questo da vent’anni. Ogni 11 luglio, con ostinazione, chiedono ai politici serbi di riconoscere il genocidio. I loro gesti vanno ricordati, e sottolineati.

In che misura l’Europa può aiutare la Serbia a superare il tabù di Srebrenica?

Il processo di integrazione europea non può avvenire senza un “battesimo”, intendo dire un percorso di redenzione che deve contaminare le coscienze individualmente e a livello di società nel suo insieme. La Serbia non può entrare in Europa senza aver fatto i conti con Srebrenica. Ci si può e ci si vede pentire. Ricordiamoci che l’Europa non è solo economia. C’è un bagaglio di diritti e valori da acquisire e rispettare.

Nel 2010 gli allora presidente di Serbia e Croazia, Boris Tadic e Ivo Josipovic, si recarono assieme a Vukovar, centro croato simbolo delle guerre balcaniche. Tadic chiese scusa per i crimini commessi dai serbi durante l’assedio della città, Josipovic fece lo stesso per l’uccisione di civili serbi da parte delle milizie croate. Secondo lei i politici bosgnacchi dovrebbero recitare un mea culpa, per far sì che quelli serbi si rechino senza imbarazzi o fastidi a Srebrenica?

No, a mio avviso non devono ammettere nulla. Vediamo oggi che da parte serba si cerca di costruire una storia di parificazione delle vittime e dei crimini (Mentre il premier serbo Alexandar Vucic ha annunciato la propria partecipazione alle celebrazioni del ventennale, il presidente serbo Nikolic ha detto che andrà a Srebrenica solo quando i bosgnacchi riconosceranno i crimini nei confronti dei civili serbi dei villaggi situati intorno al luogo del genocidio, ndr). Questo è sbagliato. I tribunali internazionali hanno dimostrato cosa è successo a Srebrenica e chi ha fatto cosa. Non si può dire questo in merito ai civili serbo-bosniaci. Con questo non intendo dire che i bosgnacchi non debbano rispondere delle proprie colpe. Ma non si può mettere sullo stesso livello la sofferenza dei serbo-bosniaci con il genocidio di Srebrenica.

A dirla tutta il Tribunale internazionale dell’Aia ha sentenziato che la Serbia non è colpevole per il genocidio di Srebrenica.

Qui bisogna fare attenzione, perché questo è vero, ma lo stesso Tribunale ha stabilito che Belgrado che non ha fatto quello che doveva e poteva per prevenire il genocidio.

Cosa suscita Srebrenica tra i bosgnacchi?

Purtroppo il tema viene strumentalizzato politicamente. I politici lo evocano solo quanto può tornare utile in termini di voti e consenso, in funzione del difendere il loro potere e i loro privilegi. Le vittime di Srebrenica sono dimenticate e le associazioni dei parenti di chi a Srebrenica è morto denunciano non da ieri l’incoerenza dei politici. Arrivano persino a chiedere che non parlino, durante le commemorazioni dell’11 luglio.

Nella foto: Donne alla cerimonia annuale in memoria delle vittime del massacro di Srebrenica, luglio 1995. Potocari (Bosnia-Erzegovina), 11 luglio 2007.
(Credits: Adam Jones/Wikimedia Commons)

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