Libia, le tappe della crisi IS
Slalom italiano sull’intervento

Da Reset-Dialogues on Civilizations

L’attenzione sulla Libia è tardiva: in questo paese nordafricano si combatte oramai dal maggio 2014 e i livelli di violenza sono sempre stati alti fin dallo scoppio della rivoluzione il 15 febbraio 2011. Solo nel mese di febbraio 2014 ci sono stati cinquanta omicidi politici nella città di Benghazi. Nel 2014 e nelle prime settimane del 2015 sono morte più di tremila persone, mentre non c’è un calcolo preciso degli individui scomparsi.

Il conflitto sembra essere arrivato a un nuovo punto di svolta e a una decisa escalation tra la fine di gennaio e la metà di febbraio. Il 27 gennaio, la provincia della Tripolitania di Daesh, ovvero dell’autoproclamatosi “stato islamico”, ha condotto un attacco in grande stile all’Hotel Corinthia di Tripoli, uccidendo tra gli altri uno statunitense e un francese. Da quel momento la presenza del gruppo jihadista in diverse parti del Paese è stata evidente a tutti.

La prima base di Daesh in Libia era stata stabilita a ottobre nella cittadina di Derna, strategicamente posta tra Baida, dove ha sede il governo riconosciuto dalla comunità internazionale, e Tobruk, sede del Consiglio dei Rappresentanti, il parlamento uscito dalle elezioni del 25 giugno 2014. Gli osservatori europei hanno appena avuto il tempo di accorgersi della presenza dello “stato islamico” in Libia che questo ha prodotto il secondo significativo colpo con lo sgozzamento di 21 copti egiziani. Questo è stato seguito da un video nel quale è stata minacciata direttamente l’Italia.

Dura la reazione egiziana, con ripetuti raid aerei condotti in collaborazione con l’aviazione del governo di Baida/Tobruk. Questa apparente svolta in realtà rende pubblica una politica egiziana di interferenza in Libia che dura da almeno un anno. La presenza di numerosi elementi dei servizi segreti del Cairo in Cirenaica veniva riportata già a gennaio 2014. Con lo scoppio delle ostilità e la rivolta armata del generale Khalifa Haftar contro tutti gli islamisti (compresa naturalmente la Fratellanza Musulmana, accomunata ai jihadisti), arrivava anche il sostegno egiziano che si intensificava dopo il trasferimento di governo e parlamento proprio verso il confine egiziano: Tobruk e Baida sono straordinariamente decentrate rispetto al resto della Libia, ma molto vicine al confine orientale.

In agosto, anonimi funzionari statunitensi accusavano sia l’Egitto che gli Emirati Arabi Uniti di aver condotto raid aerei nei dintorni di Tripoli e simili bombardamenti da parte di “aerei non identificati” venivano segnalati nelle settimane successive. Il Primo Ministro Abdullah Al Thinni si recava al Cairo e ad Abu Dhabi quasi a cadenza settimanale, venivano firmati accordi di assistenza militare e l’Egitto difendeva in sede internazionale la “legittimità” del governo di Baida/Tobruk contro quella del governo di Tripoli, dove era stato riesumato il vecchio parlamento ed eletto un esecutivo espressione della coalizione Alba Libica: un’alleanza tra milizie di Misurata, parte dei berberi e islamisti.

A novembre Al Thinni dichiarava l’arrivo di cinque nuovi aerei Sukhoi per la sua aviazione, dono di un “paese non identificato”. Sempre dalla stessa fonte “senza volto” arrivavano munizioni e armi leggere per combattere la battaglia di Benghazi contro Ansar al-Sharia.

Tutto ciò, nonostante sia in vigore un embargo Onu contro le forniture di armi a qualsiasi soggetto libico e ci sia un regolamento europeo che specifica come questo includa anche il governo. Non a caso, una precisa richiesta egiziana al Consiglio di Sicurezza Onu è stata quella di eliminare questo embargo e permettere all’esecutivo di Baida/Tobruk di armarsi ulteriormente.

Difficile dire se l’Egitto si limiterà a quanto fatto finora. Raid aerei ed armi al proprio alleato libico potrebbero non bastare e tuttavia il Cairo potrebbe non avere abbastanza risorse per una vera presenza di truppe di terra con relativa occupazione del Paese.

In questo quadro, la politica italiana è stata ambigua. L’ambasciata a Tripoli manteneva l’equidistanza tra le parti e svolgeva un ruolo di primo piano nei negoziati Onu per la creazione di un governo di unità nazionale – un anatema sia per l’Egitto che per i suoi protettori negli Emirati che non accettano l’inclusione degli islamisti. Nel frattempo il premier Matteo Renzi e il ministro della Difesa Roberta Pinotti si profondevano in lodi per il presidente egiziano Abdel Fattah Al-Sisi, accordi di assistenza militare e dichiarazioni di comunanza di obiettivi sulla Libia.

Con l’arrivo di Daesh a Tripoli, è cresciuta l’ansia interventista di Roma. Domenica, la titolare della Difesa ha rilasciato un’intervista a Il Messaggero, promettendo addirittura truppe di terra e una missione Onu a guida italiana per combattere lo “stato islamico.” Il tutto insieme a riferimenti espliciti “ai nostri amici egiziani e degli Emirati”. L’ansia interventista italiana si è poi raffreddata e Roma si è allineata con altre capitali occidentali nella richiesta di accelerare i negoziati coordinati dall’Onu. Non è dato sapere se Renzi o Pinotti avessero chiaro che l’intervento di cui aveva parlato anche il ministro degli esteri Paolo Gentiloni una settimana fa, in assenza di un governo di unità nazionale, si sarebbe svolto su richiesta dell’esecutivo libico filo-egiziano. Ciò avrebbe schierato le truppe italiane su un lato preciso della guerra civile libica, rendendole quindi potenziale obiettivo non solo di Daesh, ma anche di tutti gli oppositori di Tobruk e Baida.

Anche se l’ipotesi di un tale intervento sembra essere stata al momento accantonata, non è detto che non torni d’attualità molto presto e per diversi motivi. Primo, i negoziati Onu sono molto difficili e lo saranno ancora di più se continueranno i raid egiziani. Non è detto quindi che, rebus sic stantibus, si arrivi a un governo di unità nazionale in tempi abbastanza stretti da poter bloccare l’ascesa di Daesh. Secondo, l’alleanza tra Renzi, Al-Sisi e i suoi protettori del Golfo è uno degli elementi cruciali della sua politica estera, ma anche di quella economica, di cui l’accordo Alitalia-Etihad è solo un pezzo. Terzo, la minaccia dello “stato islamico” in Libia è destinata a farsi sempre più forte e sempre più forte sarà il tentativo da parte dei jihadisti di “chiamare” l’Italia nel paese così da poter produrre quell’estrema polarizzazione che ne ha favorito il successo in Siria ed Iraq.

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