Siria, uno Stato mancato all’origine dell’impasse

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Una recente apparizione del presidente siriano Bashar Al-Assad in occasione di un incontro con i media turchi Ulusal e Aydilnik lo ha proposto alle televisioni e ai giornali di tutto il mondo sicuro di sé, ancora convinto della vittoria militare dell’esercito siriano lealista e della centralità del regime baathista siriano per la stabilità della regione. Occasione in cui non ha mancato di minacciare tutti coloro che ne vorrebbero la fine: se la Siria cade, ha affermato, sottintendendo di esserne tuttora l’unico legittimo rappresentante, ci sarà un effetto domino nella regione, che travolgerà anche gli altri paesi della regione, non esclusa la Turchia.

Il 14 febbraio scorso, in un’intervista concessa alla Cnn a Damasco, il vice ministro degli Esteri siriano, Faisal Al-Maqqad, aveva asserito senza esitazioni: abbiamo già vinto la guerra. Perché senza dubbio con il passare dei mesi, e ormai degli anni, la rivoluzione siriana si è trasformata in una guerra. Questo conflitto è stato definito in diversi modi: guerra civile, sollevazione o rivoluzione. Ma è chiaro che dall’inizio dell’“intifada” siriana (come la chiamano gli stessi siriani) gli avvenimenti hanno cambiato forma, luogo e spesso anche protagonisti.

In un libro pubblicato nel 2012, “L’intifada siriana dalla A alla Z” (Al-Intifada as-suuryya min Alif ila Ya), la ricercatrice Mona Matar descrive e analizza nei dettagli l’evoluzione e le diverse alternative della sollevazione sin dal suo inizio, avvenuto nel marzo del 2011. Si tratta di un conflitto che ha subito una mutazione radicale nel corso del tempo: dalle manifestazioni civili, pacifiche e urbane (represse nel sangue), con appelli alla partecipazione lanciati attraverso Facebook (venerdì della dignità, dei martiri, eccetera) e canti che invocavano la libertà (“Dio, libertà e Siria”), la fine dell’oppressione e che criticavano aspramente la corruzione del regime – rappresentata, tra gli altri, da Rami Makhlouf, cugino di Bashar Al-Assad da parte materna, simbolo di un “capitalismo” intollerabilmente clientelare –, a una situazione dai contorni sempre più militari, le cui vittime principali sono i civili. Dopo le prime repressioni, le manifestazioni e le proteste del popolo siriano sono continuate, ma i gesti e i simboli evocati e le azioni compiute durante gli scontri hanno progressivamente assunto toni e contorni più violenti e talvolta inequivocabilmente militari.

Si è in presenza di una guerra di logoramento in cui, come ha spiegato in diverse interviste Patrick Seale – biografo di Hafez Al-Assad e grande esperto del potere siriano – entrambe le parti cercano di vincere la guerra e sono certe di riuscirci. Se da una parte la ricerca di una negoziazione con il regime da parte di Moaaz Al-Khatib alla fine di febbraio è stata accolta male dal resto delle forze di opposizione, dall’altro lato la posizione del regime e dei suoi alleati è chiara: restare al potere, costi quel che costi. Nessuno slogan fa più riferimento alla possibilità di una trasformazione dello stato siriano attraverso le “riforme”, a una maggiore integrazione democratica di tutti gli abitanti, di tutte le comunità e di tutte le classi sociali del paese e neppure alla democrazia.

Oggi si può dire che nel conflitto siriano sono presenti tre parti in causa ben definite. Innanzitutto il regime, che si comporta sempre più come una milizia: chiaramente quella meglio armata ed equipaggiata. È però più difficile dire se il regime possa ancora contare su un controllo efficiente degli apparati dello Stato, del funzionamento della burocrazia e, soprattutto, delle frontiere del paese. D’altro canto si può osservare che i gruppi armati che affrontano il regime si dividono in due, soprattutto con riferimento alle armi e al sostegno logistico che ricevono, ma anche ai propri principali fornitori e obiettivi. Un gruppo, i cui principali esponenti sono Jabhat Al-Nusra (Fronte della luce), le Brigate Faruk o ancora Ahrar Al-Sham (diminutivo del Movimento Islamico degli uomini liberi della Grande Siria), che rappresentano l’islamismo politico, è sostenuto e finanziato dal Qatar e dall’Arabia Saudita. L’altro, sovvenzionato e appoggiato da alcuni paesi occidentali, è formato dai gruppi secolari che confluiscono in gran parte nell’Esercito siriano libero. Si potrebbe e dovrebbe aggiungere come quarto attore l’opposizione politica all’interno del paese e all’estero, divisa dalla molteplicità delle posizioni personali e dei progetti politici, ma anche sulle influenze straniere e sulla necessità o meno dell’intervento di una o più forze internazionali.

È possibile, e ormai assai probabile, che la caduta di Bashar al-Assad non porterà alla fine di questo conflitto, poiché una lotta tra le diverse forze e individui “interni” all’opposizione si profila come uno scenario sempre più verosimile. E, ancora una volta, gli Stati del mondo arabo, soprattutto quelli della mezzaluna fertile, mostrano la loro debolezza e la loro permeabilità di fronte alle potenze regionali e globali. Come spiega Adham Saouli nella sua opera The Arab State: Dilemmas of Late formation, gli stati come la Siria e alcuni dei suoi vicini hanno tre caratteristiche che ne determinano la debolezza e permeabilità: la mancanza di omogeneità culturale, la conformazione e la natura dei loro regimi politici e le capacità economiche altalenanti di cui dispongono. Sono tre variabili che spiegano il successo o meno dei regimi nel monopolizzare il potere e neutralizzare le influenze esterne. Da questo punto di vista, sarà utile osservare più da vicino la struttura dello Stato siriano. Infatti, anche prima delle rivolte dietro a una grandiosa facciata di stabilità e di invincibilità del regime si nascondeva la debolezza dello Stato. Durante i quarant’anni di regime della famiglia Assad, e soprattutto dopo l’insurrezione islamista del 1976-82, il regime siriano non ha voluto né potuto né saputo costruire uno Stato veramente moderno e lo Stato siriano, come altri, è tuttora un apparato sviluppato soltanto a metà.

Lo Stato siriano si è cristallizzato in un gruppo di sistemi sociali disseminati, non istituzionalizzati, un campo di battaglia che all’inizio il regime ha cercato di monopolizzare, incorporando i diversi gruppi e classi nelle proprie numerose ramificazioni economico-sociali. Ma allo stesso tempo il regime degli Assad non ha mai voluto rinunciare al controllo del potere e delle decisioni politiche, rinuncia – almeno progressiva – che il completamento di una integrazione politica, economica e in qualche modo democratica del popolo siriano avrebbe invece prima o poi richiesto. Ed è per questo che, soprattutto dopo il 1982 – anno in cui furono repressi in maniera violentissima e con migliaia di vittime i focolai della rivolta islamista che erano venuti originandosi nella città di Hama – il regime siriano ha cessato di integrare le popolazioni nelle proprie ramificazioni sociali. In un certo senso, lo Stato siriano ha comunque mantenuto lo stesso schema istituzionale dell’inizio degli anni Settanta che aveva consentito al regime di integrare le popolazioni povere e rurali nella struttura dello Stato, soprattutto nell’amministrazione pubblica o nelle proprie imprese, attraverso misure fortemente populiste che, seppur popolari all’inizio, ne hanno rapidamente determinato la completa paralisi politica e burocratica.

Il cambiamento si è successivamente sviluppato in direzione di un modello ibrido di conservazione di istituzioni statali deficitarie (ma che allo stesso tempo producevano clientele legate al regime) e di una lenta liberalizzazione economica mirata, che invece di favorire l’integrazione economica e democratica delle classi meno abbienti ha di fatto favorito l’emergere di una borghesia clientelare che è diventata il vero e proprio simbolo del capitalismo clientelare promosso dal regime degli Assad. Per mantenere questo sistema, il regime siriano aveva bisogno di introiti finanziari importanti, anche perché, da decenni, nel paese è in corso una crescita demografica fuori controllo che ha fatto sì che le periferie delle grandi città si riempissero e continuino a riempirsi di abitanti impoveriti. Quella che si configurava praticamente come una “rendita” che la Siria riceveva dai paesi del Golfo o grazie alle estorsioni in Libano è diminuita nel corso dell’ultimo decennio, in seguito al ritiro della Siria dal paese dei cedri e al progressivo allontanamento del regime dalle monarchie del Golfo. Questa situazione ha sollecitato cambiamenti a tutti i livelli, ma il regime non ha mai voluto rischiare di perdere il monopolio del potere. Lo Stato siriano è diventato sempre meno inclusivo in tutte le articolazioni sociali ed economiche, creando dopo molto tempo le condizioni per una sollevazione sociale. Lo scoppio della primavera araba in Tunisia, Egitto, Yemen e Libia è poi servito di ispirazione alle rivendicazioni che il regime aveva fino ad allora respinto e negato.

Con ogni probabilità, il futuro della Siria non vedrà la famiglia Assad al potere. Gli scenari possibili sono ancora difficili da discernere e vanno dalla divisione del paese in diversi micro-stati a carattere etnico o religioso alla costruzione di una nuova Siria inclusiva e democratica, o all’emergere di una nuova forma di autoritarismo. In ogni caso, tuttavia, la sfida principale per i nuovi dirigenti sarà quella di evitare un clima di vendetta ciclica, di prendere una serie di decisioni politiche ed economiche molto difficili, ma soprattutto di costruire uno Stato più inclusivo per i diversi ed eterogenei elementi che compongono la società siriana.

Traduzione di Francesca Gnetti

Agustin Galli è un ricercatore e dottorando presso Sciences Po Grenoble

Nella foto: Un monumento a Hafez Al-Assad, padre di Bashar

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