Siria. Splendore e Dramma. La guerra che uccide esseri umani e storia collettiva

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Come un colpo al cuore, un pugno nello stomaco. Alcune sale che ti conducono per mano nei fasti di una cultura millenaria, dell’impero Omayyade e di quello romano, fra le rovine di Palmira, il palazzo reale di Ebla e il Crac des Chevaliers, per arrivare poi nel bel mezzo di bombardamenti e distruzione, trascinati da un video, nella sala rossa, in un tumulto di musica e immagini. È la Siria, con il suo splendore e il suo dramma, che ci racconta la mostra esposta a Palazzo Venezia, a Roma, fino al 31 agosto.

“Siria. Splendore e Dramma” è proprio il nome dell’esposizione organizzata dall’Associazione Priorità Cultura e dal suo fondatore Francesco Rutelli, assieme a Paolo Matthiae, il noto archeologo italiano che dal 1964 è a capo della Missione Archeologica Italiana a Ebla, per accendere i riflettori su ciò che sta accadendo in Siria sul versante culturale da quando hanno avuto inizio i combattimenti. Tesori archeologici, beni ritenuti in alcuni casi “patrimonio dell’umanità” dallo stesso Unesco, distrutti o più semplicemente danneggiati. E, in molti altri casi, trafugati.

È questo l’aspetto meno noto, ma certamente non meno drammatico e gravoso quando si calcolano le perdite causate da una guerra, perché al di là della tragica scomparsa di vite umane in questi casi ad essere cancellate sono anche la memoria, le tracce dell’ingegno, delle capacità dell’uomo e, in generale, la storia collettiva. Come ricordava nel XVIII secolo il giurista svizzero Emmerich de Vattel, distruggendo quegli edifici che fanno onore all’umanità, “è come dichiararsi nemici del genere umano”. Tanto che nel 1954, dopo i disastri causati dalla Seconda Guerra Mondiale, è stata adottata la Convenzione dell’Aia per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato.

I siti Unesco e le zone danneggiate

Quello che chiede l’Unesco, e su cui vorrebbe sensibilizzare la mostra, è la smilitarizzazione delle zone archeologiche in Siria per impedire quello che già è accaduto nella città vecchia di Aleppo, ad esempio, trasformata letteralmente in campo di battaglia, o al Crac des Chevaliers, dove fino allo scorso marzo erano assiepati i ribelli. Ma, dati alla mano, di fronte all’impossibilità di creare anche solo un corridoio umanitario ad Aleppo, sotto assedio dal 2012, e nelle altre aree colpite, con un totale di circa 10 milioni di persone che soffrono gli effetti devastanti della guerra, la creazione di una ‘zona franca’ sembra difficilmente attuabile.

Nei due casi citati, i danni si calcolano nella distruzione del minareto della Moschea degli Omayyadi e del suq medievale, da un lato, e nelle lesioni di alcune parti del castello di età crociata, dall’altro. Eppure entrambi sono luoghi inseriti nella Lista del Patrimonio Mondiale Unesco assieme pure al sito di Palmira, alle città vecchie di Damasco, la capitale, e di Bosra, a sud nella martoriata provincia di Dara’a, e ai 40 antichi villaggi del Nord. E pensare che nel 2006 Aleppo era stata nominata Capitale culturale del mondo islamico.

Non sono, però, solo questi i beni che rischiano di crollare sotto i colpi dell’aviazione governativa, di barili-bomba, di mortaio o di mitragliatrici. Nel mirino, ad esempio, sono finiti anche altri edifici storici, moschee, chiese e suk ad Homs e Hamai, i due grandi centri urbani che si trovano sulla linea dell’autostrada che collega Damasco ad Aleppo.

Scavi clandestini, razzie e iconoclastia

“I siti archeologici del Medio Oriente sorgono su delle colline artificiali, create nel tempo con la sovrapposizione delle costruzioni, che si trovano in zone molto spesso lontane dai centri abitati e che, venendo a mancare un potere centrale in grado di controllare, sono oggetto di scavi clandestini”. A parlare con Reset è Davide Nadali, archeologo impegnato dal 1998 nei lavori di ricerca e di scavo guidati dal professor Matthiae a Ebla. La missione italiana in loco è ferma dal 2010 a causa della situazione sul terreno, ma la fase di studio prosegue, qui in Italia, in attesa di tempi migliori. Il problema, ci spiega il ricercatore e responsabile del cantiere, è anche “il recupero di oggetti che vengono venduti e contrabbandati”. Si tratta di un traffico che, in alcuni casi, come dimostrano i recenti eventi che hanno visto protagonista l’Isis, serve anche come mezzo di finanziamento per i gruppi che operano nel Paese. A questo proposito l’Icom, l’International Council of Museums, che dal 1946 rappresenta musei e associazioni museali di tutto il mondo con l’obiettivo di proteggere il patrimonio culturale universale, collaborando anche con l’Interpol, ha stilato una lista rossa di opere ad alto rischio per allertare gli addetti ai lavori, e non solo, sul traffico illegale dei reperti.

“Ora alcune di queste zone – spiega ancora Davide Nadali – sono di nuovo sotto controllo della Direzione generale della antichità di Siria, che è un po’ come la nostra Soprintendenza e che sta facendo davvero un ottimo lavoro di recupero e di restauro degli edifici danneggiati, ma anche di alcuni centri come Apamea, la città romana che ha subito scavi clandestini pesanti, così come accaduto a Dura Europos, sull’Eufrate. E in parte anche a Palmira”. Un ente che, sottolinea Nadali, “pur dipendendo dal governo si pone come istituto che ha il solo scopo di preservare il patrimonio culturale siriano e che per questo sta operando sia nelle zone dei ribelli, creando dialogo con gli abitanti locale, che devo dire sono molto collaborativi, sia ovviamente in quelle sotto il controllo centrale”.
Resta infine un’ultima questione, non meno grave, e cioè quella dell’iconoclastia ad opera dei gruppi islamisti radicali, come l’Isis, che a Raqqa hanno già danneggiato le statue assire dei leoni del VIII. “Si tratta di episodi – conclude l’archeologo italiano- rivolti agli idoli considerati ostili che sono stati limitati quella zona e a quella città, ma che purtroppo si sono verificati”.

Vai a www.resetdoc.org

Nell’immagine: La grande moschea di Aleppo prima e dopo

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