Siria, le elezioni farsa che rafforzano Assad

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Sei milioni e mezzo di sfollati all’interno del Paese e 3 milioni di rifugiati, senza contare i 160mila morti: sono questi i numeri delle elezioni presidenziali in Siria, più di quel 88,7% di voti con cui Bashar al Assad ha festeggiato il suo terzo mandato. È questo, infatti il Paese che ha messo in scena quella “commedia che fa piangere”, così come l’hanno definita i profughi del campo profughi giordano di Zaatari o, a ben altre latitudini, il “voto farsa” nelle parole del segretario generale della Nato Rasmussen e del ministro degli Esteri francese Laurent Fabius. Elezioni di Bashar al Assad fatte per Bashar al Assad, per garantire a lui e al suo clan altri sette anni di potere. Nel pieno della guerra civile che da tre anni insanguina il Paese.

Al di là dell’evidente e tragico paradosso, le votazioni che hanno regalato all’erede di Hafez un nuovo mandato, il terzo, si sono svolte praticamente solo nelle zone del Paese controllate militarmente dal governo alauita, circa il 40%, dove vive più della metà della popolazione rimasta. Non sarebbe potuto essere diversamente con le aree formalmente in mano ai ribelli ancora vittime dei bombardamenti, così come pure quelle sotto il potere dei qaedisti dell’Isis, dove naturalmente i delegati del regime non hanno consegnato le postazioni. Invece in Kurdistan, dove le condizioni di sicurezza lo avrebbero permesso, è stato deciso deliberatamente di non partecipare. Un boicottaggio che nelle parole del primo ministro curdo, Akran Hissau, ha significato il rifiuto di essere complici di elezioni bagnate dal sangue del popolo siriano; elezioni che “nelle circostanze attuali non hanno alcuna legittimità in quanto le operazioni che spargono il sangue del popolo siriano per mano del regime baathista non sono terminate”. Lo stesso segretario generale dell’Onu Ban Ki moon all’inizio del mese di maggio aveva dichiarato che le operazioni di voto sarebbero state “incompatibili con la lettera e lo spirito del Comunicato di Ginevra”, che chiedeva prima di tutto la formazione di un nuovo esecutivo ad interim che abbia pieni poteri.

Eppure la retorica di regime non ha impedito di affermare che il 3 giugno sia stato un “giorno storico” per la Siria, per dimostrare al mondo intero che il popolo siriano ha deciso di rendere il processo elettorale un successo. Un gioco tutto interno, ad uso e consumo degli alleati, che erano presenti come osservatori, e un schiaffo in faccia alla popolazione che subisce uno stato d’assedio permanente e che nelle zone fuori dal controllo del regime vive la repressione più violenta.

Con un’eccezione, non positiva, quella del campo profughi di Yarmouk alle porte di Damasco che, nonostante sia formalmente sotto il regime, è una terra di nessuno gestita dal FPLP-CG di Ahmed Jibril, dove i palestinesi soffrono la fame e la sete al punto che l’intellettuale arabo Ziad Majied l’ha definito “Yarmouk (concentration) camp”, il campo di concentramento di Yarmouk. Le immagini della distribuzioni di viveri dello scorso febbraio, dopo 460 giorni di assedio, sono piuttosto eloquenti. Sono questi i fotogrammi siriani da ricordare in questi giorni, più dei carnevali elettorali, delle lunghe code fuori i seggi mostrate dalla Tv di Stato o di scatti e autoscatti davanti alle urne.

Disoccupati, poveri, disperati

La Siria è segnata non solo dalla distruzione materiale, dalle morti e dalla dispersione del suo popolo, ma per chi è rimasto è un Paese ormai stremato dalla mancanza “di lavoro e dalla disoccupazione”. Come sottolineato dall’ultimo rapporto siglato dall’Agenzia dell’Onu per il Soccorso e l’Occupazione dei profughi palestinesi nel Vicino Oriente (UNRWA) e dal Syrian Centre for Policy Research, “Umanità dilapidata”, infatti, il conflitto in Siria ha creato “un’economia di violenza incurante dei diritti umani, delle libertà civili e delle leggi; mentre le nuove elites politiche ed economiche usano network locali e internazionali per commerciare illegalmente armi, merci e persone, saccheggiando, rubando, sequestrando persone e sfruttando l’assistenza umanitaria. Questa situazione non fa altro che incentivare il perpetuarsi del conflitto.”

Su un totale di 22 milioni persone, sono più di 9 milioni sfollati e rifugiati a cui si aggiungono gli 11 milioni che hanno perso ogni forma di sostentamento. Un popolo di “disoccupati, poveri, disperati”, come li definisce Alex Pollock, e un conflitto che ha trasformato uno dei luoghi culla della civiltà mediterranea in un insieme di macerie, non soltanto materiali. Dal 2012 a oggi, da quando le prime manifestazioni pacifiche sono diventate un lontano ricordo, l’indice di sviluppo umano in Siria è crollato al livello di quarant’anni fa e il Paese è passato dal gruppo delle nazioni a “medio sviluppo umano” a quello di “basso sviluppo umano” anche a causa dell’indebolimento del sistema educativo, sanitario ed economico. Anche perché le infrastrutture sono state bombardate e distrutte così come le scuole e gli ospedali, mentre il personale medico o è fuggito o è morto. E se in generale più della metà dei bambini non ha più aule da frequentare, smantellate, danneggiate gravemente o usate come rifugio per gli sfollati, in zone come Al Raqqa e Aleppo questa percentuale raggiunge anche il 90%.

Una vittoria diplomatica

Volendo tralasciare per un attimo la tragica situazione umanitaria sul terreno, dal punto di vista puramente diplomatico la vittoria annunciata di Assad mette in mano ai delegati del regime e agli alleati come Russia e Cina una carta più alta da giocare al tavolo di eventuali trattative. Soprattutto ora che la recente uscita di scena di Lakhdar Brahimi, inviato speciale di Onu e Lega Araba per la Siria, e mediatore nei colloqui di pace che si sono svolti inutilmente a Ginevra, dà chiara l’idea della debolezza della comunità internazionale. Dall’altro lato, poi, il fronte ribelle si mostra sempre più variegato e meno rassicurante.

Il regime è riuscito a consolidare la sua posizione da Damasco fino a Homs, l’area strategica che confina con il Libano, e naturalmente sulla zona costiera, dove c’è Latakia, storica roccaforte degli Assad; mentre i miliziani qaedisti controllano la zona di Al Raqqa (dove pare sia stato sequestrato Padre Paolo Dall’Oglio), divenuta la capitale dell’Isis, lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante con una continuità dalla provincia irachena di Al Anbar e con influenza fino ad Aleppo e Idlib. Anche se qui i ribelli, fra cambi di leader e alleanze, si sono ripresi alcune zone e sono presenti anche in alcuni sobborghi di Damasco, a Hama, Dar’a, nelle zone a maggioranza curda e nel Golan.
In questo contesto per lui favorevole, Assad ha voluto giocare la carta della normalità e della prosecuzione del potere attraverso un mandato popolare; continuità che promette darà sicurezza a chi non lo ha abbandonato. La propaganda del leader lo richiede. Tanto che questa volta sul palco assieme a lui ha posizionato anche due figuranti.

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