Siria: la paralisi dell’occidente

Da Reset-Dialogues on Civilizations

La guerra civile siriana continua. Le truppe ribelli avanzano ma l’esercito di Assad resiste. La pressione internazionale – Occidente e paesi arabi sunniti da una parte: Russia e Iran dall’altra – resta divisa anche se a Mosca si comincia a prendere atto che il regime alawita appare ogni giorno più debole e si cerca timidamente una soluzione concordata. Che poi sarebbe, se le intenzioni del Cremlino fossero sincere, la soluzione migliore. O almeno la meno sanguinosa, Dice l’ONU, impotente, che le vittime della guerra sono ormai più di sessantamila.

Fino che punto può arrivare l’indifferenza internazionale di fronte a tale massacro? Cresce il disagio nell’amministrazione Obama, incerta sul che fare dopo il recente riconoscimento del SNC (Syrian National Council), organismo che riunisce l’opposizione più responsabile nell’ottica americana ed europea ma che rappresenta soltanto dieci gruppi politici dei molti di più che configurano il bando ribelle.

Capire cosa fare, in effetti, non è facile. Se il regime è nelle mani di un solo gruppo (i clan alawiti vicini alla famiglia Assad) l’opposizione, al contrario, è divisa in decine di gruppi, a loro volta in competizione tra loro. Con visioni sul futuro profondamente diverse: tra i militanti vicini ad Al Qaeda e i laici che vorrebbero uno Stato rispettoso delle diverse culture religiose che compongono il quadro siriano (sunniti, alawiti, drusi, cristiani.. ) ci sono molteplici visioni strategiche. Il confronto/scontro tra queste tendenze rende ardua, per ora impossibile, la mediazione politica internazionale. Che a sua volta risente delle diverse aspettative dei maggiori paesi che seguono da vicino l’evoluzione del conflitto: Stati Uniti, Russia, Iran, Turchia, Arabia saudita.

A chi giova l’aggravamento in atto del conflitto armato? Ha ragione il Financial Times quando indica nella crescente influenza del salafismo sunnita il rischio politico più preoccupante del puzzle siriano? Il tempo stringe mentre si fa più forte l’impressione di una situazione sempre meno riconducibile a una via di uscita che in qualche modo eviti una catastrofe umanitaria ancor più drammatica dell’attuale. Che rischia di trascinare con sé il fragile equilibrio di tutto il Medio Oriente. L’evoluzione incerta della situazione in Egitto, le permanenti incertezze sul futuro dell’Iraq, il confuso quadro interno della Libia, l’irrisolta questione palestinese con le connesse pulsioni aggressive di Israele, le giustificate preoccupazioni sul futuro del Libano, non promettono niente di buono. Intervenire in Siria significa mettere il dito in questo vespaio. Ha scritto Kissinger sul Washington Post, qualche giorno fa, che si sta rischiando una “somalizzazione” della Siria. Sullo sfondo, in effetti, ci sono questioni storiche non risolte. C’è in primo luogo lo scontro tra sunniti e sciiti, le due grandi correnti dell’Islam sostenute dall’Arabia saudita (i primi) e dall’Iran (i secondi). C’è l’eterno conflitto palestinese al quale Israele non intende dare una soluzione stabile e giusta. C’è il problema dei curdi (che non sono arabi ma sono sunniti di fede) – divisi tra Siria, Iran, Iraq, Turchia – che sognano da decenni un Kurdistan indipendente. C’è la questione iraniana ovvero il rischio che, in tempi relativamente brevi, Teheran disponga della bomba atomica.

Dietro questi conflitti c’è infine un dato di fondo: il Medio Oriente non ha assimilato l’assetto geopolitico e statuale disegnato e imposto alla regione dall’Occidente dopo la fine della prima guerra mondiale. Quella Peace to end all Peace, come è stata definita da uno storico americano, che ha dato vita a Stati nazionali artificiali imposti dai Britannici e dai Francesi negli anni Venti del secolo scorso. Giordania, Siria, Libano, Iraq, gli stati arabi del Golfo, sono paesi nei quali sono stati obbligati a convivere gruppi religiosi ed etnici che sotto il dominio Ottomano vivevano da secoli in province tra loro separate e direttamente collegate con il centro dell’Impero. Questa convivenza è oggi più che mai lacerata da crescenti tensioni che esprimono il fallimento storico di stati autoritari e corrotti che hanno impedito ogni ipotesi di welfare e di cittadinanza. La grande risorsa del petrolio non è stata messa al servizio di una politica economica aperta alle esigenze della società nel suo complesso ma è rimasta nelle mani di ristretti gruppi che detengono enormi risorse. Oggi il mondo arabo-musulmano appare deciso a mettere in discussione equilibri decennali che hanno permesso la crescita abnorme della disoccupazione, specie giovanile, e di estese e insopportabili disuguaglianze. La richiesta, anche se confusa, di libertà e partecipazione è diventata l’altra faccia di una pressante rivendicazione di maggiore eguaglianza economica. Ecco dunque vecchie formule politiche e istituzionali, che non sono in grado di offrire risposte alle domande di giustizia e trasparenza. Ecco riaffiorare antiche identità tribali e claniche, le uniche che hanno resistito all’interno di Stati che disprezzano i diritti sociali e civili. L’opinione pubblica internazionale ne è cosciente? Oppure è accecata dal timore paralizzante del fondamentalismo islamico? Ha senso diffidare fino all’ossessione dei Fratelli Musulmani, anche se non sono coerenti con i valori e le pratiche democratiche di quell’Occidente che pure ha avuto tanto peso nella configurazione della attuale realtà del Medio Oriente? Come si giustificano questi pregiudizi quando per decenni regimi tirannici e corrotti sono stati corteggiati e aiutati sul piano economico e militare?

Il perché sia così angoscioso e complesso decidere un eventuale intervento dall’esterno per cercare di bloccare la mattanza in atto in Siria è legato a questi interrogativi. Il punto è che non fare niente, a causa dei diversi fattori di cui sopra, è problematico quanto decidere un intervento. In Siria non c’è un confine chiaro tra “buoni e cattivi”. C’è solo una guerra a morte tra clan, gruppi tribali, fanatismi politici e religiosi. Nessuno può oggi garantire che i sunniti in rivolta si comportino nel futuro in modo sostanzialmente diverso degli alawiti al potere. La risposta ci sarebbe. Si tratterebbe di aprire una fase negoziale di ampio respiro, di mettere attorno allo stesso tavolo i diversi attori, sia i gruppi politici e religiosi coinvolti, sia i paesi che giocano un ruolo cruciale nella crisi siriana. Senza preconcetti e senza esclusioni. Non esiste una soluzione di lunga durata senza l’Iran e la Russia, così come senza la Turchia, l’Egitto e l’Arabia Saudita. Solo così si può avviare un periodo di distensione tra sunniti e sciiti, i protagonisti del conflitto tra musulmani in Medio Oriente. La palla, in questo senso, è nelle mani della superpotenza, gli Stati Uniti. E del suo Presidente.

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