L’India cresce solo di notte. Ora serve “più Stato” per vincere la sfida della sostenibilità

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Da oltre vent’anni marcia spedita sulla strada dello sviluppo economico. Eppure l’India, secondo il saggista e opinionista Gurcharan Das, è un Paese che “cresce solo di notte” grazie alla forza della sua vibrante classe media, mentre il suo “governo, inefficiente, dorme”. Una corruzione pervasiva, una burocrazia bizantina, una classe politica dinastica sono alcuni dei fattori che frenano l’ascesa del Subcontinente indiano, al punto da indurre i suoi cittadini a chiedersi se abbiano davvero bisogno di uno Stato. Nel suo ultimo libro, India Grows at Night (Penguin, pp. 307), Das tenta di persuaderci che la creazione di un “forte Stato liberale” sia la cura che permetterà all’elefante indiano di liberare tutto il suo potenziale e di iniziare così a crescere anche di giorno.

Signor Das, com’è possibile che l’India sia stata negli ultimi anni una delle economie con la crescita più rapida del pianeta, nonostante quello che lei chiama uno “Stato debole”?

Il mio Paese è simile all’Italia, un Paese di successi privati e pubblici fallimenti. Le riforme economiche iniziate a fine anni Ottanta e proseguite nei Novanta, hanno posto le basi per l’emergere di una classe media forte, anagraficamente giovane. Che è riuscita a dimostrare a se stessa e al resto del mondo che, anche lontano dalla culla democratica dell’Occidente, una società aperta, in un mercato libero, interconnesso all’economia globalizzata, è capace di prosperare. Il caso di Gurgaon, la città-satellite di Nuova Delhi, è l’epitome di tutto questo. Fino a 25 anni fa era un sonnolento villaggio di contadini, oggi è il simbolo del motore economico indiano e di un’economia che avanza spesso con il pilota automatico inserito. Ha grattacieli scintillanti che ospitano uffici di multinazionali, ventisei centri commerciali, appartamenti con aria condizionata e piscina. Ma è riuscita a trasformarsi così grazie alle energie dei suoi cittadini, che non hanno atteso le lungaggini del governo. Hanno scavato loro stessi il sistema fognario, comprato generatori per sopperire all’assenza della rete elettrica, costruito ospedali e scuole private.

È un esempio di crescita ammirabile, ma sostenibile?

Non lo è, infatti. La crescita sta aiutando ad emancipare la popolazione dalla povertà, ma non è sufficiente. Come può lo sviluppo procedere se nelle scuole un insegnante su quattro in media non si presenta, perché non c’è chi sanziona le loro assenze? Come possiamo diventare una vera potenza mondiale, se ci vogliono di dodici anni per costruire una strada o bisogna pagare una mazzetta per avere un documento di identità? Non possiamo. Quindi, è evidente che l’India ha bisogno anche di uno Stato forte, e liberale.

Concretamente, cosa significa?

Uno Stato forte non come lo intendeva Mussolini, ma come lo aveva immaginato John Locke, per esempio. Uno Stato che si fondi sui seguenti pilastri: un esecutivo capace di prendere decisioni rapide, con istituzioni pubbliche che agiscano nel rispetto della legge, e che rispondano delle proprie azioni di fronte ai cittadini. Per avere tutto questo c’è bisogno che l’India avvii un importante processo di riforme istituzionali ed economiche.

Nel panorama politico attuale, questa necessità non sembra però avvertita dai partiti.

Purtroppo no. Ma la società civile, dai media ai cittadini, sta chiedendo questo cambiamento a gran voce. Dallo scorso anno, l’indignazione verso la corruzione politica, e per il malgoverno in generale, ha trovato espressione in forme di proteste mai viste nel Paese. I cittadini si sentono traditi, avvertono che il “dharma” del Paese è stato ferito. Il dharma, inteso nella sua accezione laica come “la cosa giusta da fare”, rappresenta una delle principali eredità dell’antica civiltà indiana. Ogni nazione ha la sua “parola chiave”, che forgia la natura della sua società civile e del suo governo. Così, se per l’America è la libertà, per la Francia l’uguaglianza, per l’India è il dharma. Tanto che questa idea di una morale pubblica, intrisa di ideali liberali, venne trasmessa dai padri dell’indipendenza anche nel testo della Costituzione indiana. Eppure, Gandhi è stato l’ultimo politico a invocare il dharma pubblicamente.

Poi, cos’è successo?

Il declino ha avuto origine con l’impostazione socialista dell’economia, accentuata dall’indebolimento delle istituzioni e dalle nazionalizzazioni di Indira Gandhi. Si è iniziato a chiedere troppo allo Stato, ma in mancanza di una riforma delle istituzioni di epoca coloniale. Con l’arrivo delle liberalizzazioni, però, il governo indiano non è diventato pro-mercato, ma semplicemente pro-business. Con il risultato che la classe politica, come accade in Italia, oggi si mostra forte con i deboli e debole con i potenti. Invece di favorire un capitalismo regolamentato, in cui la competizione aiuti ad abbassare i prezzi, innalzare la qualità e favorire i consumatori, preferisce un capitalismo da “compagni di merende”, fatto di scambio di favori e clientelismo.

Come se ne esce, dunque?

Con un nuovo progetto politico che sia anche un progetto morale. L’India ha bisogno di vedere nascere un partito liberale. Un partito secolare e pro-mercato, che sappia risanare quel dharma pubblico ferito, necessario all’ascesa di uno Stato forte.

La Cina ha uno Stato forte: è questo che permette all’altro gigante asiatico di avere una crescita molto più spedita di quella indiana?

La Cina, al contrario dell’India, ha uno Stato forte, ma una società debole. Uno Stato, però, ha bisogno che siano forti entrambi, Stato e società. Per questo, a vincere la disfida non sarà il Paese che eliminerà per primo la povertà, ma quello che per primo sanerà la sua debolezza.

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Nella foto: Gucharan Das

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