Quando Massimo Rosati intuì la svolta
autoritaria del regime di Erdoğan

Sono passati ormai tre anni, da quando l’improvvisa scomparsa del sociologo Massimo Rosati ha provocato in tutti noi un’incolmabile perdita personale, nonché privato questo nostro lavoro di un lucido e brillate intellettuale. Era dal 2012, infatti, che Massimo animava le pagine del blog Living Together Differently, sul nostro sito, con almeno un articolo ogni due settimane. L’ultimo, dedicato alla giornata della memoria, risale, infatti, a soli tre giorni prima della sua improvvisa scomparsa.

Il titolo che Massimo aveva scelto per il suo Blog era perfettamente in linea, non solo con gli obiettivi del suo sforzo intellettuale, ma anche con quelli del progetto ResetDOC. Un titolo che, al giorno d’oggi, suona decisamente come un invito, o un consiglio, rivolto ad un mondo destinato ad essere attraversato da flussi sempre più densi di persone, cariche delle loro culture.

Gli eventi degli ultimi tempi ci hanno inevitabilmente spinto a domandarci cosa Massimo avrebbe scritto, o pensato, delle derive nazionaliste, populiste, xenofobe, che percorrono l’interno globo.
Il suo ultimo lavoro, The Making of a Postsecular Society, ad esempio, era stato dedicato proprio a quel “laboratorio turco” che Massimo osservava con curiosa attenzione ormai da diversi anni – prima dell’attuale deriva autoritaria. Della Turchia ammirava: “in una parola, la pluralità, il grande e qualche volta confuso insieme di persone, culture, identità, religioni, storie e memorie che camminano fianco a fianco su questo ponte, e più in generale su questa città incantevole [trad. ndr]” (p.1) [1].

Oggi stiamo assistendo al declino democratico di un Paese che, solo qualche anno fa – quando Massimo ancora ne scriveva – cercava di gestire costruttivamente la diversità e la pluralità che da sempre hanno caratterizzato la sua identità. Una Turchia allora alle prese con un effervescente, anche se polarizzato, dibattito politico, che proprio per questo la rendeva un “interessante laboratorio” da osservare.

Casualità vuole che lo scorso 19 gennaio, si sia celebrato, anche, il decimo anniversario dalla morte di Hrant Dink, il giornalista armeno ucciso sotto la redazione del suo giornale, Agos, e che negli ultimi anni si stava battendo per il riconoscimento del genocidio armeno. Ucciso da un giovane nazionalista turco, la famiglia di Dink ancora chiede giustizia nel individuare chi davvero armò la mano dell’assassino, e continua ad interrogarsi su come mai la polizia turca fallì nel tentativo di difendere il giornalista, nonostante fosse chiaramente esposto a minacce di morte. L’assassinio di Dink è parte di un quadro molto più complesso di un potere statale nascosto, nel quale Massimo rintracciava una linea di continuità tra i principi kemalisti anti-democratici, che guidavano il deep state turco e i primi singulti dell’autoritarismo di Erdoğan.

Migliaia di persone provenienti dalla società civile e appartenenti a minoranze etniche, culturali e religiose si riuniscono ormai, ogni 19 gennaio, sotto la redazione di Agos, per ricordare l’assassinio del giornalista: “La figura di Dink sta diventando un simbolo per la Turchia in cerca di democratizzazione, dove il secolarismo è interpretato non come assertiva e aggressiva forma di repressione, controllo e privatizzazione della religione, piuttosto come una condizione di parità di accesso per ogni cultura e fede, allo spazio pubblico. Facendo riferimento alla religione, la memoria di Hrant Dink sfida soprattutto il nazionalismo secolare (ma anche quello religioso)” (p.214) [1].

Per ragioni affini, anche Santa Sofia aveva attirato il suo interesse. La millenaria basilica costruita nel cuore dell’Impero Bizantino, a Costantinopoli, trasformata in una moschea nel 1453, dopo la conquista musulmana, e riconvertita, nel secolo scorso, in un museo, da Ataturk. Con Erdoğan, Ayasofya è diventata nuovamente oggetto di discussione per la sua possibile riconversione in moschea, e il processo dialettico che le varie parti politiche, religiose, culturali, avevano innescato intorno alla proposta, aveva, inevitabilmente, animato la curiosità di un acuto e attento osservatore quale era Massimo.

Ugualmente era stato affascinato dalla Grande Moschea di Cordova – diventata cattedrale a seguito della Reconquista cristiana dei territori musulmani spagnoli – dove la commistione tra l’architettura musulmana con quella cristiana, ha restituito, nella cattedrale dell’Immacolata Concezione di Maria Santissima, qualcosa di simbolicamente unico, sul quale riflettere storicamente e sociologicamente.

Negli ultimi anni, l’oggetto di interesse del lavoro di Massimo si era, infatti, spostato sull’osservazione delle trasformazioni che le religioni subiscono in relazione alle evoluzioni storiche e culturali delle società in cui si inseriscono. La sua lettura durkheimiana delle società lo ha sempre portato a ritenere che la religione fosse un fattore fondamentale della vita sociale e, dunque, a sostenere l’impossibilità dell’esistenza di società a-religiose. Definiva il suo approccio socio-antropologico, considerando la religione come un insieme di pratiche e credenze incentrate sulla nozione di sacro, capaci di generare solidarietà sociale ed esprimere un’identità collettiva.

Nell’interrogarsi su quali forme assumesse la religione nelle attuali società moderne e secolarizzate, aveva tentato di riformulare una nuova definizione di postsecolare:
“Ogni giorno le pratiche religiose nelle città postsecolari posso ‘prendere posto in spazi del tutto inaspettati’ e l’obiettivo della ricerca è quello di investigare la logica di questi nuovi spazi e le pratiche a loro correlate: altari domestici e liturgie televisive, organizzazioni religiose e chatroom su internet, ‘invented religion’, […] ‘religioni online’, […] sale di meditazione o multifede […] Tutti questi fenomeni stanno cambiando la grammatica del sacro?” (Rosati, 2015: 66) [3].

Postsecolare inteso come una piattaforma dalla quale osservare la condizione tipica delle religioni nella contemporaneità, dove secolare e religioso non sono più due dimensioni contrapposte, ma sono sempre più pensate come dialetticamente in relazione. Una concezione di religione che può riempirsi di contenuti tanto religiosi quanto civili, politici, etc. Allo studio delle forme assunte dal fenomeno religioso contemporaneo, Massimo aveva anche dedicato, nel 2008, un intero centro di ricerca, CSPS, ancora attivo presso l’Università di Roma Tor Vergata, dove era docente della cattedra di Sociologia Generale.

Massimo sosteneva che le religioni nelle società contemporanee si dessero in luoghi non previsti in precedenza, e che i luoghi e gli oggetti sacri assumessero, a volte, forme nuove e inusitate, pur mantenendo la stessa grammatica elementare. Sotto questa prospettiva aveva seguito i rituali di commemorazione dell’assassinio Hrant Dink, ma anche iniziato ad osservare con curiosità le pratiche religiose che si svolgevano nel cyberspazio, prive di effettive dimensioni temporali, spaziali, o di comunità circostanziate. Seguendo la prospettiva durkheimiana, riteneva, infatti, che i luoghi e le cose divenissero sacri, in specifiche circostanze storiche, come conseguenza di pratiche umane di consacrazione, come risultato del lavoro del rito, che li separa da altri spazi del quotidiano, conferendogli un “atmosfera” caratteristica, percepita non appena si supera la loro “soglia d’ingresso”.

In un momento storico in cui le religioni sono largamente considerate come fattore di conflitto e violenza, Massimo insisteva, invece, sul loro potenziale di essere collante delle società, sulla loro utilità nell’essere una fonte inesauribile di simboli dai quali gli individui necessitano inesorabilmente di costruire significati, che li astraggano dalla contingenza.

Sarebbe bello poter proseguire oggi questa conversazione con lui, ma ci dovremo purtroppo fermare qui, accontentandoci di poter immaginare di lasciargli la parola, attraverso alcune righe estratte da un articolo del suo Blog, che ancora oggi ci propongono nuovi spunti sui quali continuare a riflettere:

Homo religiosus è figura, naturalmente controversa, delineata in particolare dallo storico delle religioni Mircea Eliade, attraverso l’analisi della religiosità dell’uomo arcaico. (…) L’uomo di Eliade, come anche la narrativa eliadiana rende manifesto, vive nella nostalgia di un tempo senza tempo da cui è esiliato, nella nostalgia di un orizzonte in cui la sofferenza storica poteva essere giustificata avvalendosi di categorie mitiche; sofferenza e precarietà a cui l’uomo moderno non ha invece nulla da opporre, se non forme camuffate e degradate di miti. L’uomo arcaico poteva relegare la storia – con relativa sofferenza e precarietà – nella sfera del profano, e dunque della non-esistenza, laddove il mito rappresentava il paradigma a cui ogni coscienza si riferiva per attribuire senso al tempo e allo spazio, mentre l’uomo moderno relega il mito ad una equivoca esistenza nel profondo dell’inconscio. La morfologia del sacro e la storia religiosa servono dunque a Eliade per ricostruire l’antropologia filosofica di un uomo, quello arcaico, che possedeva una chiave per trascendere l’illibertà dell’uomo moderno. La sterminata analisi eliadiana di ierofanie, teofanie e cratofanie, e delle strutture simboliche primordiali – simbologie uraniche, acquatiche, telluriche, agrarie, temporali etc. – altro non era che una fenomenologia del sacro volta a ricostruire l’antropologia filosofica di un uomo, quello arcaico, che nel rito vedeva la riattualizzazione di un tempo mitico, di un tempo in cui la storia era come sospesa.
Nonostante i molti problemi che il pensiero di Eliade pone, non si può commettere l’errore di farne semplicisticamente una nostalgica elegia di un passato arcaico. Eliade era attento, quanto pochi, alle forme che questa antropologia assumeva nel presente, in quei miti – che chiamava appunto ‘degradati’ e ‘camuffati’ – di cui l’uomo moderno, apparentemente senza religione, non può fare a meno.

[1] Rosati, M. (2015): The Making of a Postsecula Society. A Durkheimian Approach to Memory, Pluralism and Religion in Turkey, Farnham: Ashgate.

[2] Ivi.

[3]Ivi.

Una selezione degli articoli del Blog di Massimo Rosati sono stati raccolti  e pubblicati da ResetDOC nel volume Living together differently. Pagine da un Blog per un mondo plurale.

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