Un milione di rifugiati in Libano
Un quarto della popolazione

Da Reset-Dialogues on Civilizations 

Secondo gli ultimi dati diffusi il 6 settembre scorso dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, fra Turchia, Libano, Giordania, Egitto e Nord Africa sono oggi presenti quasi cinque milioni di cittadini siriani: 4.799.677 persone, fra le quali almeno un milione e mezzo di bambini, fuggite dalla guerra. Se la Turchia è il paese che ne ospita di più in termini assoluti, con una presenza di 2.726.980, è però il Libano a rappresentare, in rapporto ai suoi abitanti, il numero più alto di presenze, 1.033.513, pari a circa il 25% dell’intera popolazione.

Con l’inizio del conflitto in Siria nel 2011, il Libano ha rappresentato la prima via di fuga di chi è stato costretto a lasciare il suo paese. Nel giro di un anno la valle della Bekaa aveva già accolto fra le 18 mila e le 400 mila persone provenienti in gran parte da Homs, Quseir, Zabadani e Hama, ma solo all’inizio del 2013 il governo libanese ha acconsentito, non senza forti perplessità e opposizioni interne, alla registrazione dei siriani come rifugiati. Nel 2014, nei villaggi di confine, il numero dei siriani presenti ha superato quello dei libanesi già residenti. Ma non è solo la Bekaa ad essere interessata dal fenomeno (363.417), bensì anche Beirut (298.885), Tripoli e la zona del Nord (252.450), e il Sud (118.761). Un aumento così alto della popolazione del paese, già condizionato da una storica presenza palestinese al suo interno, ha ulteriormente modificato l’economia del Libano, e in alcuni casi favorito discriminazioni e abusi nei confronti della popolazione siriana, che oggettivamente si trova in condizioni di disparità, rispetto al cittadino libanese, tanto nel mondo del lavoro, quanto nell’accesso all’istruzione.

Secondo il rapporto 2016 della Commissione Europea sulla crisi dei rifugiati in Giordania e Libano, la disoccupazione è passata dall’11% del 2011 al 20% di oggi, e ha toccato principalmente i giovani fra i 15 e i 24 anni, a causa di un incremento del lavoro sommerso, soprattutto nei lavori non specializzati, che è diventato il primo canale di occupazione dei rifugiati. Il perché si rintraccia nella difficoltà di accesso al lavoro regolare: se fino al 2015 un cittadino siriano poteva lavorare in Libano in virtù degli accordi bilaterali che nel 1993 erano stati sottoscritti da Beirut e Damasco, da allora in poi quel diritto è stato sospeso. Da oltre un anno e mezzo nel caso in cui un siriano riesca ad ottenere una sponsorship per il lavoro, il suo status cambia da rifugiato a migrant workers, nonostante risulti registrato dall’Unhcr. L’impiego – eventuale – dei siriani resta comunque limitato ad agricoltura, costruzioni, e imprese di pulizie, dove c’è carenza di personale e soprattutto, secondo la valutazione della Commissione Ue, non si intercettano competenze specializzate e aspirazioni dei cittadini libanesi. Anche il fattore costi incide radicalmente: per un permesso di lavoro in questi ambiti si paga una tassa di 120 mila lire libanesi, circa 80 dollari, mentre per altri più specializzati si arriva a 480 mila lire. Inoltre se il datore di lavoro decide di assumere un siriano, deve prima dimostrare di non essere riuscito a trovare un libanese con le stesse competenze.

La “naturale” conseguenza è che la maggior parte dei rifugiati sono costretti a rivolgersi ai canali informali, dove i diritti sono scarsi, mentre l’esposizione ad abusi e sfruttamento è alta. In più dal 2015 sono cambiati anche i criteri per la domanda e il rinnovo dei permessi di soggiorno, che ad oggi costa 200 dollari, e ad alcuni siriani è stato chiesto di firmare un documento nel quale si promette di rientrare in Siria alla scadenza del visto. Organizzazioni internazionali come Amnesty e Relief International hanno esortato il Libano a rendere aperto il mercato del lavoro nazionale, ma il governo si è sempre rifiutato, appellandosi alla crisi economica, dovuta anche alla gestione di un milione di persone in più sul proprio territorio. Nel frattempo la situazione è peggiorata, e negli ultimi due anni il numero dei rifugiati siriani che vive con meno di 3,84 dollari al giorno è passato da 30% al 70%.

Al problema del lavoro si aggiunge quello della scolarizzazione: secondo l’ultimo rapporto di Human Rights Watch, più della metà dei bambini siriani che oggi si trovano in Turchia, Giordania e Libano non frequentano la scuola. Solo nel paese dei cedri sono il 44% del totale, se si contano i minori fra i 3 e i 17 anni. È pur vero che il Libano ha compiuto dei passi importanti per l’istruzione dei rifugiati: è stata concessa l’iscrizione a scuola senza l’obbligo di fornire una residenza legale, rinunciando alle tasse, e 238 istituti sono stati aperti per il secondo turno pomeridiano; è stato adottato un piano quinquennale per portare sui banchi 440 mila bimbi siriani entro il 2020-21. Ma le barriere all’accesso non sono ancora superate: spesso i bambini sono costretti a lavorare, o le famiglie non possono permettersi le spese di trasporto e i materiali scolastici.

In Libano esiste comunque una società civile che si sta occupando, nonostante le difficoltà, delle discriminazioni che subiscono i siriani, e decide di denunciarle. Nel giugno scorso, dopo gli attentati che avevano scosso al Qaa, città di confine nella Bekaa, un’ondata di panico e sospetto si era diffusa fra i libanesi della zona, nei confronti dei rifugiati presenti nei campi vicini. La tesi degli attentatori vissuti fra i profughi è stata sposata anche dalle autorità, che da allora ha imposto misure straordinarie ai siriani, compreso il coprifuoco e i controlli periodici nelle occasioni di raduno. Le associazioni anti razziste si sono organizzate con petizioni e manifestazioni in difesa dei rifugiati e contro le limitazioni indiscriminate della libertà personale, e hanno accusato il governo di usare i siriani come capro espiatorio per non affrontare i problemi reali, come la corrente elettrica, l’acqua potabile, la corruzione, la sicurezza. “Un rifugiato è stato ucciso una prima volta quando ha dovuto lasciare il suo paese – è diventato uno degli slogan – non lo uccidere un’altra volta con il razzismo”.

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