Rifugiati siriani in Turchia: cosa ne sarà del loro futuro?

Gli occhi di Rima sono grandi e neri, dello stesso colore sono le ciocche di capelli che le spuntano lungo la fronte da sotto il velo che le copre il capo. Parla fluentemente l’arabo, lingua che non ha dimenticato da quando nel 2012 è fuggita dai bombardamenti che colpivano Idlib, la sua città natale nella Siria settentrionale. Insieme alla famiglia si è spostata 20 chilometri più a nord, superando il confine turco e e trovando rifugio a Boynuyogun, il campo profughi in cui tutt’ora vive insieme ai genitori e ai quattro fratelli minori. Oggi ha 14 anni ed è l’unica tra i figli ad avere ancora l’arabo come prima lingua. Gli altri parlano tutti meglio il turco, lo stesso vale per altre migliaia di bambini che abitano nei campi profughi che costellano il confine tra Turchia e Siria.

La Turchia ha accolto circa 3,5 milioni di sfollati dall’inizio della crisi siriana. Boynuyogun è una delle 25 strutture di accoglienza che si trovano nella provincia di Hatay, regione un tempo siriana divenuta oggi turca e confinante con le province di Aleppo, di Idlib e con il cantone curdo di Afrin. Dal 2012 questa regione è diventata la retrovia attraverso cui i ribelli da tutto il mondo entrano in Siria per combattere Assad ed è proprio da qui che lo scorso febbraio è partito l’attacco dell’esercito turco per cacciare le milizie curde dal nord della Siria. Ottenuta la vittoria, gran parte del territorio conquistato è stato ceduto all’Esercito Libero Siriano, la milizia anti-Assad che Ankara considera il proprio braccio armato in terra siriana.

Viaggiando per Hatay si comprende con chiarezza come il rapporto dell’Esercito Libero con la Turchia sia di vero e proprio vassallaggio. È qui che ha i propri quartier generali ed è qui che ha sviluppato il proprio gemellaggio con il Syrian National Coucil, l’opposizione siriana in esilio riconosciuta dall’Occidente e vicina ai Fratelli Musulmani. Prima di arrivare a Boynuyogun ci si imbatte in Apaydin, un piccolo campo profughi altamente militarizzato, circondato da soldati armati, da torri di vedetta e da barriere di filo spinato. “Qui dentro non si entra” spiega un ufficiale turco “ci vivono le famiglie dei soldati dell’Esercito Libero”. Secondo l’opposizione turca Apaydin sarebbe una base militare dei ribelli dove gli uomini verrebbero addestrati per poi entrare in Siria a combattere. I militari turchi non smentiscono.

Superato Apaydin si arriva in pochi minuti a Boynuyogun, un’immensa distesa di container bianchi al cui interno vivono circa diecimila profughi siriani. Per accedervi è necessario superare i posti di blocco dell’esercito turco che ne controlla il perimetro. Una volta entrati si viene sommersi da migliaia di bambini siriani che parlano turco e che ti regalano fiori e piccoli doni. “Insegniamo loro la lingua e la cultura turca fin da piccoli” spiega Halid Ozbek, il responsabile della struttura, mentre mi indica la scuola, situata di fianco all’ospedale, alla moschea e agli uffici dell’esercito nel centro del campo. Ozbek lavora per Afad, il dipartimento di Stato unico titolare della gestione di tutti i campi profughi in Turchia.

L’accordo firmato nel 2016 tra Ankara e l’Unione Europea per fermare i flussi migratori lungo la rotta balcanica, infatti, prevede che il governo turco sia l’unico titolare dell’amministrazione delle strutture di accoglienza sul proprio territorio. Nonostante questi campi vivano anche grazie ai 3 miliardi di euro erogati dai Paesi Ue in base all’accordo, i turchi hanno deciso di non farvi accedere né l’UNHCR né alcuna ong occidentale. “Vogliamo che i nostri ospiti diventino parte integrante e organica della nostra società” continua Ozbek “per questo vogliamo essere i titolari della loro educazione”.

Nel campo sventolano ovunque bandiere turche, ritratti di Kemal Ataturk e e Recep Tayyp Erddogan. Le condizioni sono molto buone: c’è grande ordine, pulizia e organizzazione, niente sporcizia né degrado. Gli ospiti ricevono vitto, alloggio e assistenza sanitaria gratuita, hanno regolari permessi di lavoro, possono entrare e uscire liberamente dal campo ed eventualmente anche abbandonarlo per andare a vivere altrove. Camminando tra i container ci si imbatte, oltre che in orde interminabili di bambini, anche in molte donne velate integralmente, che lasciano intravedere solo gli occhi attraverso il velo, e in alcuni anziani. Pochi i giovani uomini, molti dei quali portano lunghe barbe tagliate a fin di pelle solo all’altezza dei baffi.

“L’educazione ai nostri ospiti” continua Ozbek “è fondamentale anche per tenerli lontano dal fanatismo. Per farlo insegniamo loro una corretta interpretazione dell’Islam e del corano”. Tutti i professori e tutti gli imam attivi nei campi sono scelti dal governo. Le guide religiose appartengono al Dyianet, il direttorato per gli affari religiosi dipendente direttamente da Erdogan che promuove una sintesi tra nazionalismo turco ed Islam sunnita. “L’Islam è la base dell’educazione che forniamo ai profughi perché è un elemento di unione e di comunione tra turchi e siriani” dice Ozbek che poi continua a spiegare che essere sunniti viene considerato come un presupposto indispensabile per essere turchi quanto necessario per poter essere accolti nei campi come profughi. “Per evitare tensioni destiniamo i fuggiaschi di altre fedi ad altre strutture” senza specificare però di cosa si tratti.

Viaggiando per Hatay, però, di profughi non sunniti non se ne vedono. Lo conferma ad esempio Cesar Karute, rappresentante della comunità cattolica locale che organizza regolarmente una distribuzione di cibo gratuita alle persone bisognose, tra cui molti profughi. “Fino agli anni 60 noi cristiani rappresentavamo il 50 per cento degli abitanti di questa regione, oggi siamo rimaste soltanto in 45 famiglie divise tra armeni, cattolici e protestanti. Nonostante Erdogan abbia instaurato un dialogo positivo con noi, facendo restaurare monasteri, permettendoci di costruire chiese e di celebrare feste e pellegrinaggi molti dei nostri giovani preferiscono andarsene”.

Al loro posto arrivano centinaia di migliaia di profughi arabi sunniti che vivono sia nei campi ma anche all’esterno. Questi ultimi sono facilmente visibili in tutte le città di Hatay, dove spesso hanno aperto piccole attività commerciali ben integrate nel tessuto economico locale. Molti altri si sono invece spostati nelle grandi città del Paese, soprattutto a Istanbul dove vivono prevalentemente nei distretti di Fatih e di Esenyurt, dicendosi generalmente soddisfatti della propria vita in Turchia. “Qui l’economia è in crescita, la cultura è simile alla nostra, la sicurezza è garantita e abbiamo buone possibilità di costruirci un futuro” spiega Wafi Elbekkur, trentaduenne originario di Idlib che vive e lavora a Kirikhan, non lontano dal confine con la Siria. “Qualche anno fa dalle spiagge qui vicino salpavano i barconi carichi di persone dirette in Europa, io invece ho deciso di rimanere. Perché rischiare la vita per andare incontro a un destino incerto quando qui abbiamo sicurezza, lavoro e diritti?”

I profughi che vivono fuori dai campi ricevono comunque assistenza e controllo da parte dello Stato attraverso una serie di associazioni di mutuo soccorso che esso finanzia. Suriyelier Toplulugu è una di queste. I suoi uffici di Kirikhan sono ricoperti di bandiere turche affiancate a quelle dell’Esercito Libero mentre i loro scaffali sono colmi di copie del corano e di altri libri che vengono distribuiti.

Cosa ne sarà del futuro di tutte queste persone? Il governo di Ankara sta concedendo la nazionalità turca in modo selezionato, soprattutto ai siriani laureati. Chi non la otterrà dovrà probabilmente fare ritorno in Siria nei territori controllati dalle milizie filo-turche. “Vogliamo permettere ai profughi che stiamo ospitando di tornare nel nord della Siria dove potranno ricostruire il Paese attraverso le conoscenze e i valori che abbiamo loro trasmesso” spiega Ozbek.

L’obbiettivo del governo turco sembra essere quello di far confluire gran parte della popolazione araba che oggi ospita nelle regioni siriane di Idlib e di Afrin da dove il proprio esercito ha cacciato le milizie del Ypg e gran parte della popolazione curda. Al loro posto arriverebbero masse di popolazione arabo-sunnita educate ed aiutate in Turchia alla quale sono fedeli e legate da un vincolo di gratitudine. Il Nord della Siria dovrebbe dunque diventare de facto una colonia turca controllata dall’Esercito Libero Siriano. Ciò combacia perfettamente con i progetti di spartizione della Siria in diverse zone di influenza che Turchia, Russia e Iran stanno negoziando in questi mesi in occasione delle trattative di Sochi. Si tratterebbe di un’epocale ridefinizione demografica e religiosa che vedrebbe Erdogan rafforzare il proprio ruolo di attore nella regione.

L’Occidente sta assistendo passivamente alla notevole riduzione della propria influenza sul territorio. Dopo avere in un primo momento appoggiato indirettamente la rivoluzione contro Assad ed aver riconosciuto come legittima opposizione a Damasco il Syrian National Council, espressione politica dell’Esercito Libero siriano, quest’ultimo si sta mostrando oggi alle dipendenze della Turchia per conto della quale ha sconfitto ad Afrin le milizie curde alleate degli Stati Uniti. Un cortocircuito, questo, che trova la sua raffigurazione nei negoziati di Sochi da cui tanto l’Occidente quanto le opposizioni da esso sostenute sono state esclusi. L’Occidente che sta dunque pagando la propria gestione dell’emergenza migratoria con la perdita di peso nella regione.

Credit: Bulent Kilic / AFP

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