Quali prospettive per l’Islam politico?

Da Reset-Dialogues on Civilizations – Dalla Primavera Araba all’affermazione in Nord Africa di un Islam politico identificabile con la Fratellanza Musulmana, fino anche al rafforzamento del fronte salafita nei Paesi toccati dalle rivolte o dalla guerra. C’è qualcosa che forse ha deluso le aspettative qui in Occidente, dopo la grande abbuffata di ottimismo post Ben Ali e Mubarak e dopo tutta quell’esaltazione per le rivoluzioni fatte con i social network. O forse, come spesso accade, si erano fatte le previsioni sbagliate, ignorando il percorso storico di certi fenomeni. La domanda ora è: c’è spazio per un Islam politico che tranquillizzi l’Occidente?

Secondo Massimo Campanini, docente all’Università di Trento, storico e studioso dell’Islam, autore del saggio edito da Mondadori L’alternativa islamica, è necessario guardare il presente con uno sguardo anche al passato. I movimenti germinati dai Fratelli Musulmani sono quelli che finora hanno capitalizzato meglio e in modo più evidente gli esiti della primavera araba e che stanno cercando di svolgere un ruolo dirigente lì dove hanno vinto le elezioni. Non si tratta, però, di un Islam politico generato dalla primavera araba. Meglio parlare, invece, di cambiamento del ruolo dell’islam politico all’interno della stessa primavera araba.

“L’Islam – spiega il professor Campanini – ha rivendicato l’unione di politica e religione come caratteristica fondamentale della sua identità già a partire dalla nascita dei Fratelli Musulmani. Le primavere arabe, poi, hanno consentito a questi movimenti di trovare davanti a sé uno spazio aperto. Questo mi sembra l’aspetto più interessante e più importante, oggi, che si lega al problema della revisione delle grandi categorie del pensiero politico islamico, quali il concetto di consultazione, di consenso, di bene pubblico, di libera elezione del capo dello stato, da riadattare nel contesto del mondo contemporaneo. L’Egitto è da parecchi punti di vista la patria dell’Islam politico, visto che i Fratelli Musulmani hanno formato la loro concezione del mondo e affinato le loro capacità politiche proprio lì. In questo senso, l’Egitto può essere considerato un vero e proprio laboratorio di ciò che sta succedendo e di ciò che probabilmente accadrà nel mondo arabo.

È un azzardo pensare a un Islam politico di impronta secolare?

In questo contesto, l’islam politico sta giocando una carta importante per dimostrare finalmente il suo essere politico. Rispondendo alla sua domanda, ciò implica una sorta di secolarizzazione del pensiero politico islamico per affrontare le grande sfide della modernità e riuscire a ben governare nei Paesi in cui si sono vinte le elezioni. Sarà necessario inevitabilmente trovare un compromesso che porterà a una secolarizzazione sia del pensiero politico sia della sua prassi. Da questo punto di vista ai musulmani basterebbe fare riferimento ai grandi autori della loro tradizione. Si pensi a personaggi come Hassan al Turabi, il grande teorico dei Fratelli Musulmani sudanesi, che ha sempre sostenuto che l’autorità risiede nel popolo. Il potere risiede in dio, ma è il popolo che gestisce il potere: il processo di mediazione fra queste due spinte è già di per sé un momento di secolarizzazione, cioè un momento di trasferimento del potere divino in realtà concreta, cioè in prassi politica.

Nel suo libro si parla di “aperture e chiusure del radicalismo”. Come considera l’ascesa del radicalismo e del salafismo negli stessi Paesi protagonisti della cosiddetta Primavera Araba? C’è un rischio di far degenerare il processo democratico?

L’islam politico, e in generale l’islam radicale, ha dei momenti di apertura verso il mondo contemporaneo quando cerca di governare e dirigere la modernità. Allo stesso tempo, però, esistono degli elementi di chiusura per via di alcune forze ultraconservatrici che tentano di mantenere lo status quo.

Come scrivo anche nel libro, i salafiti non possono essere considerati un’alternativa. I salafiti contemporanei (che non fanno riferimento alla tradizione di liberalizzazione tra ‘800 e ‘900) sono favorevoli a un irrigidimento della società, a una divisone dei ruoli fra uomo e donna e a una ristretta partecipazione dei non musulmani alla vita politica. Costituiscono quindi un pericolo. Allo stesso tempo, però, sono una forza che sembra avere un certo appoggio popolare e che ha la possibilità di condizionare fortemente l’evoluzione politica di paesi come Tunisia ed Egitto, grazie anche alla propria aggressività.

Ci si augura che movimenti moderati come i Fratelli Musulmani sappiano contenere queste spinte, promuovendo un riformismo islamico che si richiami alla tradizione migliore della Salafyyia, cioè quella di Mohammed Abduh, di Abdelhamid Ben Badis, di Rashid Rida, i grandi maestri del riformismo musulmano fra XIX e XX secolo. Questa tensione all’interno delle varie anime dell’islam politico può essere risolta anche grazie al sostegno dell’Occidente, lasciando cadere parte dei pregiudizi che ha sempre avuto nei confronti dei Fratelli Musulmani.

In questa prospettiva, l’Egitto di Mohammed Morsi può svolgere un ruolo di leadership condivisa anche dall’Occidente?

Credo che se l’Egitto riuscirà a ritrovare il suo posto naturale all’interno del mondo arabo, potrà svolgere un grande ruolo di stabilizzatore nel Medio Oriente allargato, tornando ad avere quell’importanza strategica persa dopo la firma della pace separata (con Israele, nel 1979, nell’ambito degli accordi di Camp David, ndr). Da questo punto di vista, mi pare che i passi di Morsi debbano essere considerati come passi fatti con grande oculatezza e con grande senso del tempismo. Un Egitto autonomo rispetto alle posizioni americane potrebbe svolgere un ruolo assolutamente positivo anche per allentare la pressione del problema palestinese. Mi auguro, quindi, che l’Europa e in generale il mondo occidentale guardino con favore a questo rinnovato protagonismo nella scena mediorientale.

Un Egitto leader dello scacchiere intimorirebbe non poco Israele. Certamente, però, i diritti di Israele sono stati ormai ampiamente riconosciuti dalla comunità internazionale che molto spesso si è schierata univocamente, senza considerare le legittime aspirazioni del popolo palestinese. La centralità dell’Egitto potrebbe consentire un rapporto meno squilibrato fra israeliani e palestinesi, magari forzando un po’ la situazione, per arrivare a un dialogo che non si basi più soltanto sulla superiorità militare e della forza. Allo stesso tempo consentirebbe un miglioramento nei rapporti fra tutti i vari attori che agiscono sulla scena mediorientale affinché si evitino pericoli di guerre e soprattutto perché non si rischi un’eventuale aggressione all’Iran, che aprirebbe un vaso di Pandora dagli effetti imprevedibili.

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