Presidenziali in Iran,
giochi già fatti (e senza riformisti)

Da Reset-Dialogues on Civilizations

È entrata nel vivo la campagna elettorale per le presidenziali iraniane. E lo fa in tv. A partire dal primo dibattito televisivo di questa tornata, andato in onda venerdì scorso. Otto i candidati posti l’uno di fronte all’altro a discutere, presentare e fare promesse; regole rigide per le risposte; tempi prestabiliti e occhi fissi alla telecamera: un esercizio di democrazia in stile occidentale, anche se la scenografia, i colori accesi e i riferimenti ai simboli nazionali, come la bandiera e l’immagine dell’ayatollah, alle spalle del conduttore, offrono l’indiscutibile cifra della Repubblica Islamica dell’Iran.

Una campagna elettorale che sin da questo dibattito si sta caratterizzando per una certa misura, nei modi e nei contenuti, onde evitare quanto accaduto nel 2009. Già nei confronti televisivi, infatti, quattro anno fa si preferì la contrapposizione netta (memorabili gli scontri e gli scambi di accuse fra Ahmadinejad e Moussavi), una contrapposizione che poi si riversò nelle piazze e nelle manifestazioni di sostegno, prima del voto, e di accesa protesta, dopo.

Nonostante la notizia dell’arresto di alcuni sostenitori del candidato moderato Hassan Rowhani, si ritiene che oggi il gioco elettorale si consumi tutto all’interno della stessa area politica, cioè quella dei conservatori, in cui spiccano i cosiddetti principalisti, come il sindaco di Teheran, Baqer Qalibaf, l’ex ministro degli Esteri e ora Consigliere per gli affari internazionali dell’Ayatollah, Ali Akbar Velayati, e un altro fedelissimo come Gholam Ali Haddad Adel, primo consigliere nonché consuocero di Khamenei.

Sono loro i “2+1”, il gruppetto in pole position che fa riferimento alla Guida Suprema che, però, non disdegna neanche il capo negoziatore per il nucleare e presidente del Consiglio supremo per la sicurezza nazionale, Saeed Jalili, tanto che si potrebbe parlare di ‘3+1’. Sempre conservatori, ma figure minori, sono Mohammad Gharazi, ex ministro del Petrolio e delle Telecomunicazioni, e Mohsen Rezai, famoso come capo dei Pasdaran e per le sue partecipazioni assidue alle presidenziali, sebbene non sia mai riuscito a mietere successi.

Dall’altro lato, invece, una volta eliminato l’ex presidente Akbar Hashemi Rafsanjani, trasformatosi dal 2009 ad oggi in esponente di spicco del fronte riformista (e questa la dice lunga sul livello di stagnazione partitica e politica in Iran), e fattosi da parte Mohammad Khatami, con Mir Hussein Moussavi e Mehdi Karroubi ancora agli arresti, troviamo un campo praticamente neutralizzato, caratterizzato da due soli nomi, quelli di Mohammed Reza Aref (vice presidente sotto Khatami e con una laurea presa negli Stati Uniti) e Hasan Rowhani (religioso moderato, già negoziatore durante la presidenza Khatami e incline al dialogo diplomatico con gli Usa), ritenuti vicini ai riformisti ma non troppo alla base. Fra i due, è il secondo che ha qualche possibilità in più, visto che potrebbe beneficiare delle preferenze degli ‘orfani’ di Rafsanjani.

A ben vedere, già nel 2009, l’elettorato più progressista aveva dovuto ripiegare su figure di compromesso, lontane da una opposizione reale allo status quo, non fosse altro che per il loro passato politico nell’establishment. Del resto, il sistema di check-and-balance iraniano che dà pieno potere al Consiglio dei Guardiani, nominati a loro volta per metà dall’ayatollah, non avrebbe dato l’ok a nomi troppo considerati troppo ‘eretici’. In un reale vuoto di leadership nell’opposizione, Moussavi e Kharroubi sono diventati dei simboli specialmente dopo le denunce di brogli, la violenta repressione della piazza e il loro arresto. Lo stesso rischio che potrebbe correre Rafsanjani ora, escluso e quindi automaticamente più forte.

Come spiega bene Mehdi Khalaji del Washington Institute “la squalifica di Rafsanjani lo pone in una situazione eccellente. Egli può ora presentarsi quale leader che era pronto ad assumere sulle proprie spalle un pesante fardello, pur di salvare il sistema, senza affrontare realmente i problemi del comando. Egli può dipingere se stesso come un populista nonostante un’immagine pubblica che ha attraversato alti e bassi nel corso degli anni”. Oltre al fatto di aver automaticamente screditato l’ayatollah Ali Khamenei, accusato di non aver lasciato alla gente la possibilità di decidere. Pochi giorni fa, l’ex presidente nel corso di un discorso pubblico aveva sottolineato, richiamandosi ai problemi economici che stanno strangolando l’Iran, che “non è stata data ancora alcuna soluzione ai problemi del Paese” e che “coloro che mi hanno squalificato non devono parlare di nemici stranieri perché i problemi arrivano dall’interno”.

Resta il fatto, comunque, che per queste presidenziali i giochi sono più o meno già fatti e che a deciderli è stato Khamenei. Dall’ultimo sondaggio commissionato dall’agenzia di stampa Mehr, il ballottaggio pare quasi scontato. A Teheran il 35,8% degli aventi diritto voterebbe il sindaco Qalibaf che, se eletto, compierebbe lo stesso percorso di Mahmoud Ahmadinejad, anch’egli primo cittadino della capitale iraniana fino al suo trasloco in Piazza Pasteur. Dopo di lui, all’11,5%, Saeed Jalili, seguito da Ali Akbar Velayati (8,5%), Gholam-Ali Haddad Adel (6,5%) e da Mohsen Rezaei (6,3%). Mohammad Reza Aref e Hassan Rohani si attesterebbero sotto il 4%, mentre il candidato indipendente, Mohammad Gharazi, non raggiungerebbe neanche l’1%. Va ricordato che l’agenzia Mehr è vicina da ambienti conservatori e legata al Ministero dell’Intelligence e della sicurezza Nazionale, ma salta all’occhio che sulla base di questo sondaggio i riformisti restano indietro anche nella stessa città che nel 2009 diede il via all’Onda Verde.

A farla da padrona in questa campagna elettorale sono i temi economici interni, legati però alla situazione internazionale del Paese. Qalibaf, ad esempio, ha annunciato che si impegnerà per la creazione di nuovi posti di lavoro e a raggiungere entro due anni la stabilità economica. Per rilanciare l’economia, ha assicurato, bisognerà ridurre la dipendenza dai petroldollari. Velayati, invece, ha promesso nei primi 100 giorni provvedimenti urgenti per controllare l’inflazione e a favore dell’occupazione.

Pil in calo, disoccupazione in crescita e crollo del potere di acquisto del riyal su cui hanno influito le sanzioni internazionali: per risollevare la situazione bisognerà sciogliere i nodi diplomatici al di fuori del Paese, ma le personalità più inclini a una normalizzazione dei rapporti con l’Occidente, Stati Uniti in primis, non sono in gara.

Durante il primo confronto tv tutti sono sembrati d’accordo sul bocciare la politica del presidente in carica che, dopo l’esclusione del suo candidato Mashaei, per il momento è l’unico vero sconfitto del voto alle porte. A dire il vero è ormai un paio d’anni, e soprattutto dalle politiche del 2012, che puntare il dito contro di lui è diventato facile e a basso prezzo: Ahmadinejad, l’ex homo novus e “perfetto cattivo” degli ultimi otto anni, colui che nel bene e nel male ha fatto parlare di sé e che è stato indubbiamente protagonista di molte delle arene internazionali, a cominciare dal palco dell’Onu a New York, non avrà eredi. Ha peccato di tracotanza nei confronti del leader supremo che ad un certo punto a messo a tacere lui e i suoi.

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