I paradossi peronisti
delle aperture del Papa a Cuba

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Durante la visita di Papa Francesco, nella Plaza de la Revolución di L’Avana non si sono udite le parole che la fecero fremere diciassette anni fa: “non abbiate paura”, tuonò Giovanni Paolo II; “libertà, libertà”, gli fece eco buona parte della folla, tra lo sconcerto degli agenti del regime e degli stessi vescovi. Un po’ perché la polizia ha fatto le consuete retate, chiudendo in casa o nelle galere gli attivisti del dissenso; un po’ perché Bergoglio non è Woytila. Per lui il comunismo non è l’Idra che soffocava la cattolicità e la sovranità della Polonia ai tempi della guerra fredda; il Papa argentino ama anzi coglierne le evidenti affinità con la dottrina cristiana e vi conta per ricondurre il castrismo alle radici della cristianità latinoamericana. Forse il regime cubano non si nutre dello stesso viscerale antiliberalismo che anima Francesco? Il Papa argentino non pensa perciò affatto di scardinarlo, ma semmai di redimerlo, di riportarlo “in famiglia”. In tal senso ha pronunciato parole coerenti: “Esiste una forma di esercizio del servizio – ha detto – che ha come interesse il beneficiare i “miei”, in nome del “nostro”. Questo servizio lascia sempre fuori i “tuoi”, generando una dinamica di esclusione”. Non che tali parole fossero così chiare da produrre chissà quale impatto, ma il senso era evidente: alludevano al palese anacronismo di un regime che pretende di esercitare il monopolio del potere e di possedere l’esclusiva del patriottismo. Subito dopo, però, Francesco ha ammonito i cubani a non farsi attrarre da “progetti che possono apparire seducenti, ma che si disinteressano del volto di chi ti sta accanto”: parole rivolte al pericolo incombente della “società dei consumi”, dell’egoismo che nella sua visione apocalittica impregnerebbe fino al midollo le società opulente e da cui sarebbe invece esente il buon “popolo” latinoamericano, imbevuto di sani valori evangelici.

Certo, suona paradossale che il Papa approfitti della sua visita a Cuba, dove il regime ha ridotto in modo drastico l’impiego statale e iniziato timide riforme di mercato per scuotere l’economia più improduttiva di tutta la regione, per criticare la “cultura dello scarto” che impererebbe in Europa; e ancor di più che vi abbia predicato contro l’individualismo, scelta che suona un po’ sinistra in un paese dove l’individuo è da oltre mezzo secolo soggiogato alle capillari strutture dello Stato. Ma tant’è, tali sono le coordinate entro cui si muove Bergoglio, il cui sogno, neppure tanto recondito, si direbbe quello di “peronizzare” il castrismo, di ricondurlo all’alveo nazionale e popolare che predilige, ossia all’alveo cattolico, quello in cui vede riflessa l’identità eterna dell’America Latina. Occorre perciò liberarlo dal guscio marxista che ancora lo ricopre pur essendo ormai un simulacro privo di contenuto e prevenire la “contaminazione” di Cuba col virus secolare da cui i Castro hanno per il Papa il merito di averla preservata.

A ciò si deve dunque il prudente equilibrismo di Bergoglio a Cuba: da un lato il suo implicito sostegno a una transizione dolce, ma senza muovere troppo il terreno sotto i piedi ai Castro con scomode ed esplicite invocazioni dello Stato di diritto, della democrazia politica, delle libertà civili, dei diritti umani; bilanciato, dall’altro lato, col rituale e anch’esso implicito riconoscimento dei successi castristi in materia di educazione e salute; successi più mitici che reali, ma che il regime e i suoi corifei sbandierano pretendendo così di legittimare i suoi grotteschi disastri economici e il suo potere totalitario.

Ciò facendo, è probabile che Francesco incassi col passare del tempo più di un successo, più di quanti ne conseguì a suo tempo Giovanni Paolo II, alla cui visita fece seguito una stagione di gran frustrazione nella Chiesa: sperava che il regime spalancasse le porte alla libertà religiosa, ma le socchiuse appena. Oggi tutto pare cambiato, al punto che il cardinal Ortega, a lungo un duro critico dei Castro, s’erge talvolta a loro avvocato difensore. Come mai? Il fatto è che il regime è in apnea: l’economia non è mai decollata, il socio venezuelano è al tracollo, l’“uomo nuovo” non è mai nato, la corruzione dilaga, l’egualitarismo è una farsa, chi può scappa; e anche il disgelo con gli Stati Uniti, un sollievo per le casse del regime, lo fa in realtà tremare. Sparito l’alibi del nemico alle porte, sarà mai che sempre più cubani si scrollino di dosso la paura per lo Stato di polizia che veglia sulle loro vite, che minaccia di scagliare loro contro le sue squadre e i fascistissimi actos de repudio? Che si liberino della paura o dell’assuefazione verso uno Stato da cui dipende per intero il loro destino: casa, lavoro, carriera, viaggi, auto, consumi, cibo, informazione. Ma se così è, allora la mano tesa di Francesco può essere per il regime il salvagente cui aggrapparsi per salvarsi la vita. Per i Castro, in fondo, si tratterebbe di tornare al punto da cui erano partiti, agli insegnamenti gesuiti della loro gioventù, alla matrice cattolica e antiliberale della “Patria Grande” latinoamericana. Cuba passerebbe così dal confessionalismo castrista a quello cristiano, evitando di aprirsi ai pericolosi e imprevedibili venti di una società aperta e plurale.

Ma tutto ciò ha un prezzo per il regime castrista. Il prezzo della politica pontificia, che a ben vedere sdogana la Cuba castrista, è che essa avvii un rapido cammino verso la piena libertà religiosa, che consenta alla Chiesa di tornare a occupare il ruolo da cui fu scalzata nel 1959 dalla nuova religione di Stato: la Rivoluzione. La Chiesa dovrebbe così tornare nelle scuole, nelle opere sociali, nei media e così via. Più che la libertà dei cubani, insomma, al Papa preme la libertà nella Chiesa; nella convinzione che le due siano indissolubili, che l’America Latina sia un continente unito dalla cattolicità e non dalla democrazia e che unito debba proteggere tale sua identità dal pericolo della scristianizzazione, il cui veicolo sarebbe l’eterno nemico: il liberalismo. Come i Castro, Bergoglio è figlio di questa antica tradizione integralista.

La storia, però, segue vie spesso insondabili e potrebbe finire per imporsi una beffarda eterogenesi dei fini. La Cuba di oggi non è più quella in cui si recò a suo tempo Woytila: Fidel è uscito di scena col suo immenso carisma che ne fa agli occhi perfino di tanti cubani ostili al regime una specie di ultimo e indiscusso Re cattolico; i giovani chiedono nuove opportunità e l’isolamento che tanto ha giovato ai Castro fa ormai acqua da tutte le parti; per non dire della povertà che incombe. Ora, poi, che nemmeno gli Stati Uniti ringhiano più alle porte, molti si chiedono che senso abbia questo regime. Potrebbe così accadere che Bergoglio risulti senza volerlo più destabilizzante per Castro di quanto fu Woytila che pur desiderava esserlo. Il consenso di cui gode il regime si è assai affievolito da tempo immemore, nonostante il suo portentoso apparato di controllo e propaganda. Ora potrebbe essere vicino il momento in cui la paura lascia il posto alla speranza e alla voglia di cambiamento.

Come in passato diceva in forma più esplicita ed oggi preferisce dire in modo meno diretto, il Papa argentino ha dei nemici: sono la tradizione illuminista, i ceti sociali e le correnti intellettuali che vi si ispirano. Contro di essi, la corrente maggioritaria della Chiesa latinoamericana combatte da due secoli, stringendo nella sua morsa i cattolici democratici che con tale tradizione vorrebbero trovare una sintesi, sulla scia del cattolicesimo europeo. Il silenzio di Bergoglio sull’oppressione del regime cubano si spiega così; e a ciò si deve la sua indifferenza verso i dissidenti, in cui è probabile veda l’espressione di quei “ceti coloniali” cui imputa di volere secolarizzare il continente aprendolo ai “vizi” liberali: il consumo, per lui uguale a consumismo; l’individuo, uguale a individualismo; la libertà, parola cui è allergico e che mai, nei suoi viaggi in America Latina, ha pronunciato, se non per riferirsi alla libertà religiosa. Tutto ciò la dice lunga sull’enorme abbaglio dei tanti che in questo Pontefice colgono il rinascimento di una nuova stagione di progressismo religioso, qualsiasi cosa ciò significhi. L’orizzonte di Francesco è in realtà neo-ispanico e il suo ideale sta nelle missioni gesuitiche di cui ha tessuto sperticate lodi nel suo recente viaggio in Paraguay: una società unita dal vincolo della fede, dalla rinuncia a passioni e ambizioni individuali, basata sull’eguaglianza nella povertà, sulla sottomissione della parte al tutto, ossia dell’individuo alla collettività; come a Cuba, insomma. Intanto l’America Latina, dati alla mano, si secolarizza a ritmi sempre più veloci e il ceto medio vi si incrementa di anno in anno, demolendo nei fatti quel che il Papa pretende di preservare a parole.

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