Nucleare iraniano, ecco perché
Israele e Sauditi temono l’accordo

Da Reset-Dialogues on Civilizations

GERUSALEMME – Netanyahu sa come si vincono le elezioni. Con la minaccia della sicurezza: così ha ottenuto un nuovo mandato alla popolazione israeliana che del premier sembrava averne abbastanza. Sono bastati pochi giorni di spauracchi vecchi e nuovi – dall’Isis all’Iran – per convincere il 17 marzo scorso i votanti a mettere una croce sul nome del Likud, il partito di Netanyahu.

E se lo Stato Islamico è lontano dal guadagnarsi la palma di principale pericolo per lo Stato di Israele, la Repubblica degli Ayatollah resta al primo posto degli incubi israeliani. Molto spesso presunti. Di concreto c’è ben altro: quello che Teheran sta mettendo a rischio sono i rapporti tra Stati Uniti e Israele, o meglio quelli tra il presidente Obama e il premier Netanyahu. Le relazioni tra i due non sono state mai rosee e l’accordo sul nucleare che il 5+1 firmerà a giugno con l’Iran le ha finito di incrinarle.

Israele gode ancora del sostegno incondizionato del partito repubblicano e di un Congresso in cui Obama non ha la maggioranza. In ogni caso, la Casa Bianca è corsa ai ripari sui due fronti caldi anti-Iran: l’Arabia Saudita e Israele. Per tranquillizzare le petromonarchie del Golfo il presidente Usa ha promesso aiuti consistenti per la creazione di un sistema anti-missile regionale; con Tel Aviv – notizia di mercoledì 20 maggio – Washington avrebbe avviato un negoziato segreto per rifornire lo Stato ebraico di un sistema di difesa militare, compensazione per l’accordo stretto con l’Iran.

Secondo fonti anonime, gli Usa invieranno in Israele altri F-35 e un nuovo sistema di intercettazione dei missili, sullo stile di Iron Dome, usato contro i razzi che partono da Gaza. Insomma, per l’alleato più strategico che Washington ha in Medio Oriente non si bada a spese: 474 milioni di dollari di pacchetto-rimborso sono già stati approvati all’inizio di maggio dal Comitato per i Servizi Militari della Camera.

Ma la minaccia nucleare iraniana è davvero così concreta? Secondo Jonathan Cook, noto giornalista britannico residente a Nazareth, in ballo non c’è la bomba atomica, ma il primato israeliano in Medio Oriente: «Siglando l’accordo sul programma nucleare iraniano, Obama ha un obiettivo chiaro: arginare e controllare meglio l’Iran, reinserendo il paese dentro la comunità internazionale, e mantenere allo stesso tempo i rapporti di alleanza strategica con Arabia Saudita e Israele, tenendoli fuori dalla questione dell’accordo – ci spiega Cook – Per questo motivo si è creato questo asse, Riyadh-Tel Aviv, che si oppone strenuamente all’apertura a Teheran».

«Dietro, c’è un timore molto serio: non che l’Iran sviluppi e usi davvero la bomba atomica, ma che cancelli il primato che Arabia Saudita e Israele ricoprono nella regione nei confronti degli Stati Uniti. Un primato economico e di sfruttamento delle risorse per Riyadh, un primato militare per Tel Aviv. Se Teheran rientrasse in pompa magna nella comunità internazionale, userebbe il suo potere economico e militare per intrecciare nuove relazioni con l’Occidente, Usa compresi. Per Israele e Saud è inaccettabile: perderebbero l’egemonia di cui hanno goduto per decenni e quindi non sarebbero più così indispensabili agli occhi di Washington».

A monte stanno gli interessi della realpolitik. Negli Stati Uniti, come in ogni altro angolo del globo, ai parlamenti si contrappone “lo Stato profondo”, come lo definisce Cook: «Chi esercita davvero il potere a Washington? Lo Stato profondo, ovvero chi rappresenta gli interessi economici del paese, in primo luogo l’industria bellica e l’industria della sicurezza – continua – Quella che vediamo noi è la politica ufficiale, fatta dal Congresso, dalle dichiarazioni dei politici, dalle conferenze stampa. Ma sono gli interessi invisibili quelli che dettano le alleanze: l’industria militare Usa non ha alcun interesse a fare guerra all’Iran, ma ha interesse a intrecciare con Teheran relazioni nuove».

Da qui gli incubi che infestano le notti israeliane e saudite. A Tel Aviv si trema perché, se Israele perdesse il primato militare nella regione, come un castello di carte crollerebbe la giustificazione all’occupazione militare dei Territori Palestinesi: «Washington non ha mai avuto un particolare amore per l’occupazione israeliana – ci spiega Cook – La utilizza, però, su due fronti: da una parte perché la presenza di Israele come minaccia all’unità araba permette di distogliere l’attenzione delle opinioni pubbliche arabe dai veri problemi interni e dalle dittature amiche degli Usa che le opprimono. Dall’altra perché Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est sono il migliore dei laboratori per lo sviluppo di nuove armi (settore in cui Israele è maestro), ma non solo: sono laboratorio nei settori della gestione delle risorse naturali, del controllo demografico, del controllo del denaro a fini di pressione politica. Per questo Washington sostiene da decenni l’attuale status quo tra israeliani e palestinesi».

«Ma se in Palestina gli Stati Uniti hanno bisogno di mantenere questo teatrino del processo di pace, sulla questione Iran no. Washington ha aperto all’Iran perché in oltre 30 anni non è riuscito a spezzare la Repubblica Islamica. Di questo ha paura Israele: se Teheran entrerà di diritto nella comunità internazionale, toglierà il monopolio militare a Tel Aviv e interferirà nel progetto israeliano di separazione del Medio Oriente. Se l’Iran lavora a creare una vasta rete di influenza, un asse transnazionale che ricorda il sogno panarabista nasseriano, Israele ha l’obiettivo opposto: spezzettare il Medio Oriente in sette, gruppi, staterelli piccoli, deboli e quindi controllabili».

Un lavoro che oggi svolge bene lo Stato Islamico del califfo al-Baghdadi: «Guardate alle reazioni israeliane alle minacce rappresentate da gruppi come Hamas o Hezbollah. E poi guardate alle reazioni nei confronti dell’Isis. Lo Stato Islamico è alle porte di Israele ma viene sbandierato come minaccia solo in campagna elettorale – conclude Cook – Sul piano militare, Israele non si muove: non ha preso parte alla coalizione internazionale perché l’Isis in realtà non rappresenta affatto un pericolo per gli interessi interni. Anzi, aiuta Israele a dividere la Siria, l’altro grande nemico di Tel Aviv, e a destabilizzare l’intera regione».

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