Mossul, passato e presente
di una battaglia senza fine

Il 19 febbraio è partita la terza fase dell’offensiva su Mosul, per la riconquista della parte ovest della città. La prima fase dell’attacco, da est, era stata avviata dalle forze speciali irachene il 17 ottobre, ed è terminata con la ripresa del controllo di quartieri periferici come Gogjali e Karama. La seconda, avviata alla fine di dicembre, ha portato le truppe dell’esercito iracheno e della polizia federale nel cuore della città, fino alla sponda orientale del Tigri. Ora questa nuova battaglia potrebbe essere più lenta e complicata, sebbene la parte occidentale della città sia meno estesa di quella orientale: è qui infatti che si trova il centro storico, densamente popolato e fatto di vie strette impraticabili per i mezzi blindati; un’area urbana che potrebbe favorire la resistenza dei miliziani dello Stato Islamico a colpi di attacchi suicidi e ordigni improvvisati, grazie anche alla presenza di una vasta rete di tunnel scavati in due anni e mezzo di tempo.

Tutti e cinque i ponti cittadini sul Tigri sono stati interrotti – l’ultimo bombardato dagli aerei della coalizione a dicembre per fermare il passaggio e gli approvvigionamenti dello Stato Islamico da un lato all’altro del fiume – ed è per questo che la nuova offensiva è ripartita da sud ovest, dal villaggio di Hammam al Halil, liberato nel novembre scorso e tristemente noto per la scoperta della fossa comune con un centinaio di corpi di civili uccisi dai daesh. E’ proprio in questo quadrante che si trova l’aeroporto di Mosul, preventivamente danneggiato dall’Isis che ne ha devastato le piste e le strade vicine per renderlo impraticabile, scavandoci dentro delle trincee, come confermato dalle immagini satellitari analizzate da Stratfor, un’agenzia di intelligence.

La situazione umanitaria

Secondo le Nazioni Unite sono circa 650 mila i civili attualmente presenti nel settore ovest. Dai dati di Save the Children emerge che soltanto i bambini sarebbero almeno 350 mila.
Nel solo mese di gennaio, almeno la metà di attacchi, incidenti ed esplosioni ha coinvolto civili; dalla seconda metà di ottobre 2016, le vittime accertate sono state 1096 e i feriti 694. La maggior parte degli sfollati di Mosul si trova in 13 campi, dei quali almeno 10 completamente pieni, secondo l’UNHCR, mentre altri sette sono in fase di costruzione. La maggior parte delle persone che oggi vive nelle tende ha patito la morte di un parente, un amico, un vicino di casa. Intanto i campi attrezzati intorno a Mosul continuano a documentare nuovi arrivi e contemporaneamente partenze.

Sono 36294 famiglie, circa 217 mila persone, ad aver lasciato Mosul e le aree circostanti, mentre 9577 famiglie, circa 57 mila persone, vi hanno fatto ritorno. Queste 160300 persone attualmente sfollate dall’area urbana sono fuggite a causa della guerra, dei combattimenti e del rischio quotidiano per la propria incolumità, oltre alle difficoltà di vivere con cibo e acqua razionati, spesso senza corrente elettrica e nella totale mancanza di servizi sanitari. Nei campi di Qaymawa, Khazer, Hasansham si continuano a registrare anche rientri nelle aree di origine, nonostante gli incidenti degli ultimi giorni nella parte “riconquistata” di Mosul. Dove ordigni improvvisati, fuoco mirato dei cecchini e attacchi con piccoli droni muniti di esplosivo sono all’ordine del giorno, soprattutto in prossimità del Tigri.

Il prossimo futuro

Altre città liberate dallo Stato Islamico stentano a riprendere la via della ricostruzione e della rinascita anche a distanza di tempo. È il caso di Ramadi, o di Sinjar, che dopo oltre un anno è ancora quasi disabitata. Per capire quali potranno essere gli scenari per la futura Mosul, quando, probabilmente entro la prossima estate, sarà stata completamente sottratta al controllo dell’Isis, bisogna guardare agli errori strategici compiuti nel recente passato. Un rapporto di Michael Knights del Washington Institute, pubblicato lo scorso ottobre agli inizi dell’offensiva, analizza Mosul nell’ultimo decennio, e identifica due periodi chiave: il quinquennio 2007/2011, in cui si era registrato un calo drastico di attentati ed episodi di violenza, e i quattro anni successivi in cui la città sprofonda nuovamente nel caos e nell’insicurezza quotidiana. Per avere un’idea in termini numerici, basti pensare che la media degli “incidenti” era passata dai 600 al mese del 2008 ai 32 del 2011, e viceversa, era poi cresciuta a 297 casi mensili nel primo quadrimestre del 2014, alla vigilia di quella che poi sarebbe stata, nel giugno dello stesso anno, la presa definitiva della città da parte dello Stato Islamico.

L’ascesa di daesh ha significato per l’Iraq una perdita di circa un terzo del territorio, oltre a quella di Mosul, seconda città più grande del paese. Secondo l’ultimo censimento del 1987, la sua popolazione era di circa 664 mila persone. Nel 2003, dai dati del World Food Programme, i residenti erano diventati un milione 43 mila, compresi i sobborghi rurali; in una provincia, quella di Ninawa, che in totale contava due milioni e 44 mila abitanti. I cittadini sono per la maggioranza sunniti, il 61,2% contro il 5,5% di sciiti, il 27,4% di curdi, il 3,3% di turkmeni, il 2,1% di cristiani, lo 0,9% di shabak e lo 0,6% di yazidi (dati del 2009). La parte occidentale che oggi l’esercito punta a riconquistare, che gli abitanti chiamano Aymen, è la parte più antica; mentre quella ad est, Aysar, più moderna, ha ospitato finora ospedali e università, e a partire dagli anni Settanta era diventata la zona più cosmopolita, popolata anche da non arabi e da molte famiglie di soldati.

Prima del 2007

Mosul è storicamente un centro della religiosità sunnita. Fra gli anni Settanta e Ottanta ha vissuto l’ascesa dei Fratelli Musulmani, in seguito incoraggiata dalla campagna di “fede” promossa da Saddam Hussein che negli anni Novanta non solo sponsorizzò la costruzione di nuove moschee ma tollerò espressioni di insofferenza nei confronti delle minoranze. Con la fine di Saddam nel 2003, il frettoloso scioglimento e ricostruzione dei corpi di difesa iracheni porta ad una rapida espansione di Al Qaeda in Iraq, soprattutto a Falluja e Mosul, dove i sunniti temono una crescita del potere sciita e possibili rappresaglie curde. Il nuovo governo del primo ministro Ayad Allawi implementa le forze armate con unità peshmerga, e forze di polizia sciite a controllo della città. La reazione si vedrà con le elezioni locali del 2005, quando i sunniti boicotteranno il voto, con la conseguente vittoria della componente curda nel consiglio provinciale, che ottiene 31 seggi su 41 (gli sciiti otterranno altri 5 seggi). Il Partito Democratico del Kurdistan diventa il primo della provincia di Ninawa, e tutte le nomine per i ruoli di potere finiscono con l’essere orientati a favore del KDP, compresi i leader delle forze armate.
La risposta sciita è la ribellione, che sfocia in un rapido aumento di incidenti e attentati: 467 al mese, in media, per il 2005. Nel 2006 un’inversione di tendenza – che in realtà prefigura una riorganizzazione di Al Qaeda – porta americani e iracheni a ridurre la presenza militare a Mosul, mentre in città erano già presenti coloro che sarebbero diventati i leader dello Stato Islamico, da Abu Bakr al Baghdadi al futuro ministro della guerra Abu Ayyub al Masri.

Il ripristino della sicurezza

Nel 2007 Mosul è completamente allo sbando dal punto di vista della sicurezza, con una media di 610 incidenti al mese. Ma l’anno dopo il governo di al Maliki decide di adottare una nuova politica e di tentare un riavvicinamento con i leader locali: in questa fase gli interessi di Baghdad coincidono con quelli della comunità sunnita di Mosul in fatto di espansione curda da fermare. La pressione militare del governo allontana i curdi da diverse città della provincia di Diyala, e nel frattempo la politica anti-curda diventa un’espressione politica da portare alle elezioni, a favore dei sunniti che nel 2009 ottengono il 48,4% dei voti e la maggioranza dei seggi nel consiglio provinciale. È la prima volta che a Mosul, dalla caduta di Saddam, gli sciiti tornano ad essere protagonisti della scena politica. Sul fronte militare nasce il Ninawa Operation Command NiOC, che coordina tutte le forze di sicurezza, comandato da un generale sunnita di Mosul. Dal 2008 anche gli americani potenziano la presenza sul territorio, insieme alle forze speciali irachene, e intraprendono un’operazione di sicurezza congiunta: vengono stabiliti check point alle entrate della città, dal lato est e ovest, verso Tal Afar; vecchie trincee vengono ripristinate a sud per prevenire l’ingresso di veicoli sospetti. Contemporaneamente si decide di reclutare a livello locale le nuove leve dell’esercito e della polizia federale.

La perdita di controllo

Il deterioramento delle condizioni di sicurezza raggiunte nei quattro anni precedenti comincia nel 2011, quando il rapporto fra il governo centrale e quello provinciale entra in crisi: Baghdad cerca di indebolire l’amministrazione locale attraverso l’impiego delle forze armate federali, e il governatore risponde esacerbando il risentimento dei cittadini nei confronti dei militari, continuamente accusati di abusi e violenze. Mentre è in corso questa guerra politica, nel 2012 scoppia la guerra in Siria, e quel confine con l’Iraq si fa sempre più molle, e permette proprio al neonato Stato Islamico di rifornirsi in sicurezza per poi lanciare, l’anno dopo, la sua campagna contro le forze di sicurezza e lentamente isolare Mosul dal resto del paese.

Oggi

Una volta liberata, Mosul sarà probabilmente una città con una maggioranza sunnita ancora più marcata, perché le minoranze che l’hanno lasciata stenteranno a rientrare temendo per la propria incolumità. Già nel primo mese dall’insediamento dell’Isis, erano andati via quasi tutti gli sciiti, i turkmeni, gli yazidi, i cristiani, oltre a curdi ed arabi che temevano di diventare obiettivo di vessazioni per ragioni politiche. Da qui la scelta nell’attuale strategia offensiva di far entrare solo l’esercito iracheno nella città, ed evitare bandiere curde o sciite, che pure hanno combattuto e combattono per la stessa causa in altre zone limitrofe (fino a Bashiqa, a est, i peshmerga e a Tal Afar, a ovest, le Unità di Mobilitazione Popolare sciite). Una valutazione che è servita, finora, a predisporre gli abitanti alla collaborazione, per quanto possibile.

Il lavoro congiunto su un obiettivo comune ha favorito, almeno al momento, un riavvicinamento fra Baghdad, Erbil e la provincia di Ninawa, dove si andrà a elezioni nel giugno prossimo. Ma non ha mai del tutto eliminato diffidenze e sfiducia reciproche. Non bisogna dimenticare inoltre che sia il Kurdistan che il governo centrale usciranno esausti dal conflitto, dalla gestione degli sfollati interni, dei profughi siriani, della crisi economica e del rallentamento, in particolare nella regione autonoma del nord, degli investimenti. E non si potrà evitare di tenere conto che la ricostruzione avrà un prezzo alto, e non solo in termini monetari, se non si sarà in grado di portarla avanti favorendo il ritorno delle famiglie, il reclutamento sul territorio delle unità di sicurezza, la fiducia in istituzioni rappresentative, soprattutto in quelle zone dove più forte è stato il consenso accordato, almeno inizialmente, proprio ai daesh.

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