Moschee in Italia: ci risiamo…
O meglio, siamo alle solite

Da Reset-Dialogues on Civilizations

I.  Per i musulmani praticanti (che sono una minoranza, ma comunque rappresentano una comunità religiosa di tutto rispetto) il mai risolto problema di luoghi di culto islamici (sale di preghiera o vere e proprie moschee), si sta persino complicando. Esso non si era posto da subito, all’arrivo dei primi immigrati che erano in prevalenza uomini soli e soltanto temporaneamente presenti per lavori stagionali o comunque discontinui.

Con il passaggio a forme di stabilizzazione più continuative e articolate, oltre ai crescenti casi di conversioni di autoctoni, matrimoni misti e acquisizione della cittadinanza da parte dei migranti, il pluralismo religioso delle società accoglienti è divenuto via via più evidente e si sono posti problemi del tutto nuovi, specie per alcuni paesi tradizionalmente omogenei dal punto di vista religioso. Non si può dire che moschee anche monumentali, magari con tanto di minareto, mancassero del tutto in Europa: basti pensare all’Austria e al suo retaggio di relazioni con popolazioni islamiche dei Balcani, o a ex-potenze coloniali quali la Gran Bretagna e la Francia e ai loro legami con territori africani e asiatici di tradizione musulmana. Questa eredità continua a influire sulle politiche adottate da questi stati nei confronti dei musulmani che vi risiedono, anche per implicazioni politiche e diplomatiche riguardo ai paesi da cui essi provengo che a loro volta includono nella propria agenda di politica estera anche varie forme di affiancamento ai loro cittadini espatriati in generale e in particolare di tutela e di controllo delle organizzazioni islamiche cui essi danno vita nei luoghi d’accoglienza.

Le migrazioni hanno però impresso un’accelerazione nel diffondersi di luoghi di aggregazione dei musulmani all’estero tale da rappresentare qualcosa di problematico anche nei paesi teoricamente meno impreparati di altri alla gestione del fenomeno. La cosa potrebbe sorprendere, in quanto tra i diritti garantiti ovunque dalle costituzioni, figura senza ambiguità anche quello della libertà di culto, svincolato da qualsiasi forma di intesa o concordato in quanto legato prima al singolo che alla comunità. Un diritto astratto, tuttavia, se non esercitato in forme ben definite e collaudate, finisce per trovare lungo il cammino della sua attuazione pratica molti ostacoli. Ad esempio un piano regolatore urbanistico può prevedere aree da destinare a edifici di culto, quando però al posto di una chiesa si chiede di erigere una moschea sorgono varie complicazioni: il richiedente può non avere i requisiti in quanto costituito come associazione culturale e non per finalità specificamente religiose, gli abitanti dell’area possono temere un deprezzamento dei loro immobili, sollevare obiezioni legate al traffico e alla sicurezza, i pubblici amministratori tentennano in quanto deliberare in tale materia può comportare la perdita di consenso tra gli elettori.

Ne risulta un’impasse che porta a esiti paradossali: in Italia ci sono solo poche moschee vere e proprie, ma sono circa 800 i luoghi di culto islamici ricavati da garage, seminterrati, edifici di fortuna spesso sottodimensionati e non attrezzati adeguatamente per il numero dei frequentatori, per di più situati in locali originariamente destinati ad altri utilizzi e da parte di aggregazioni sorte come centri culturali o sociali… il che lascia ampio spazio a ricorsi, denunce, sfratti fortemente condizionati da ragioni di opportunità e di convenienza che rendono difficile l’attuazione del diritto di culto che non è quasi mai messo in discussione in quanto tale, ma di fatto compromesso da infiniti pretesti. Non completamente eluso, comunque, poiché il numero delle sale di preghiera esistenti potrebbe anche essere sufficiente, tenendo conto che sono meno di un terzo i musulmani che le frequentano almeno saltuariamente, ma resta il fatto che si tratta di soluzioni precarie, non riconosciute e sempre a rischio di vedersi revocata l’autorizzazione a proseguire le proprie attività.

Alcune complicazioni non dipendono solamente dalla cattiva volontà dei pubblici amministratori: abituati a interloquire con la struttura chiaramente definita e gerarchizzata della chiesa, essi si trovano disorientati di fronte alle molte sigle delle organizzazioni islamiche, spesso in concorrenza tra loro e nelle quali è anche difficile distinguere i ruoli di presidenti, segretari, imam… data la mancanza di un vero e proprio clero. La necessità di avere un unico interlocutore rappresentativo al tavolo istituzionale ha indotto alcuni stati a favorire, se non a forzare, l’aggregazione di cartelli di organismi musulmani nazionali, con esiti non sempre soddisfacenti e spesso sentendosi rimproverare l’imposizione di una specie di islam di stato, a volte fortemente dipendente da uno dei paesi d’origine, predominante tra gli immigrati, come l’Algeria nel caso della Francia o la Turchia per la Germania, o del finanziatore estero dell’istituzione islamica locale, come l’Arabia Saudita nel caso della Grande Moschea di Roma nella gestione della quale sono però poi sorte tensioni con il Marocco e l’Egitto in quanto la maggioranza dei musulmani immigrati in Italia da paesi arabi provengono da questi due paesi.

Non potendo quindi stabilire con certezza chi parla a nome di chi, si può finire per starne a sentire troppi senza poi ascoltare davvero nessuno e impantanarsi nell’indeterminazione che conduce a decidere di non far nulla di organico, lasciando agli enti locali la gestione di una realtà già di per sé disomogenea e che rischia di frammentarsi ancor di più per la mancanza almeno di alcune linee guida generali. Da una parte è tuttavia difficile che l’islam si strutturi all’estero come ha sempre evitato di fare a casa propria, divenendo una sorta di chiesa, ma dall’altra è necessaria qualche forma di coordinamento e di rappresentanza nei confronti delle istituzioni. Del resto è altrettanto vero che le moschee in terra d’emigrazione assumono, sul modello delle chiese, funzioni che nei luoghi d’origine generalmente non hanno, come per la celebrazione di matrimoni o funerali. La tendenza poi di molte associazioni islamiche ad assumere determinate colorazioni politiche in relazione agli schieramenti che si fronteggiano nei paesi d’origine non contribuisce certo a chiarire una confusione di piani che già per altri motivi si tende ad assumere implicitamente da parte delle società d’accoglienza.

Tutti questi aspetti «tecnici» non sono irrilevanti: nello stato di diritto le «forme» rispecchiano la sostanza e lo spirito delle leggi e degli ordinamenti, ma rimangono fatalmente appannaggio di una ristretta cerchia di specialisti, mentre l’opinione pubblica ha una percezione del fenomeno – a volte indotta – concentrata quasi unicamente sulle questioni securitarie. Le moschee che sorgono in terra d’emigrazione risentono talvolta del clima dominante nei paesi d’origine, con forme di propaganda e di antagonismo tipiche di alcune formazioni islamiche radicali. Ciò tuttavia non consente di far passare l’equazione musulmano=terrorista, e non soltanto perché solo una minoranza della già minoritaria parte dei musulmani che frequentano le moschee simpatizza per posizioni estremiste, ma soprattutto in quanto la concezione astorica di un islam statico e monolitico che così si assume e si diffonde è esattamente quella propria dell’ideologia islamista radicale, lontana dalla realtà che è molto più sfaccettata delle sue interessate e parziali rappresentazioni e nella quale sono già in atto forme di mediazione e di adattamento che meriterebbero ben altra valorizzazione, nell’interesse di tutti.

Nel caso vi siano collusioni accertare tra centri islamici in Occidente e gruppi eversivi o pratiche illecite comprovate è evidente che vanno presi i provvedimenti del caso, ma le istituzioni regolari non hanno come compito quello di sostituirsi agli apparati si sicurezza o alla magistratura, per di più demonizzando indiscriminatamente un’intera categoria di persone con le quali inoltre dovranno addivenire a qualche forma di accordo che sarà tanto più difficile da raggiungere tanto più si sarà stata favorita un’atmosfera aprioristicamente ostile a qualsiasi ipotesi di composizione delle questioni aperte. Non va dimenticato che nelle moschee d’Occidente, i musulmani imparano anche che la loro religione è plurale, trovandosi a pregare accanto a correligionari di diversa etnia e talvolta persino di confessione diversa (es. gli sciiti) e dovrebbero essere incoraggiate a forme di gestione trasparenti, meccanismi di partecipazione, valorizzazione delle nuove generazioni e delle donne… In questo quadro si pone la delicata ma decisiva questione del reclutamento e della formazione degli imam, ulema e muftì, gli eruditi musulmani deputati alla trasmissione della tradizione religiosa.

Nei paesi islamici i «dottori» della legge acquisiscono le loro specifiche competenze in seguito a un lungo percorso formativo che ha luogo in istituti di insegnamento superiore a ciò deputati. Ma nelle terre di immigrazione, in assenza di riferimenti istituzionali, la gestione della pratica religiosa collettiva si rivela alquanto problematica. Figure di dubbio spessore e competenza religiosa, imam improvvisati o fai date, quando non militanti di movimenti radicali o finanche jihadisti, possono talora divenire punti di riferimento di moschee altrettanto improvvisate. Nessuna istituzione pubblica può farsi carico debitamente della preparazione di ministri del culto di alcuna fede, poiché si tratta di una questione interna ad ogni comunità religiosa. In vari paesi europei vi sono istituti di studi islamici superiori finanziati e forniti di docenti da parte dei paesi d’origine e anche laddove non si sia ancora in grado di istituire simili enti, predicatori o guide religiose provengono spesso dall’estero e si trovano a guidare comunità inserite in contesti linguistici e culturali di cui ignorano quasi tutto. Questo tipo di colonizzazione dell’islam nostrano è evidentemente problematica anche per le nuove generazioni di musulmani, nati o cresciuti nei luoghi in cui le loro famiglie si sono trasferite, che non trovano in questi leader punti di riferimento adeguati alla loro inedita situazione. Se siamo dunque di fronte a non scarse problematiche né di poco rilievo, è altrettanto vero che sussistono alcune inedite opportunità.

Le questioni economiche e demografiche hanno ovviamente un peso preponderante in questo quadro, ma non sono da sottovalutare gli aspetti culturali che potrebbero consentire nuovi sviluppi nell’elaborazione di interessanti posizioni all’interno delle culture e delle tradizioni religiose coinvolte. È naturale che la prima fase veda degli irrigidimenti dalle due parti, motivati dai timori di invasione da un lato e di assimilazione dall’altro, ma alla lunga potrebbero prevalere importanti forme di integrazione e di scambio delle quali non mancano testimonianze e segnali, benché meno clamorosi e poco amplificati dai mezzi di comunicazione di massa, presso i quali prevale ancora una visione dove predominano ombre e paure, spesso correlate alle tensioni e ai conflitti interni e internazionali che interessano molte delle zone di provenienza. Un musulmano residente in Italia (o in qualsiasi altro paese occidentale), tanto più se in possesso di cittadinanza, non è né deve essere una pedina sulla scacchiera di alcuna questione geostrategica, così come un ebreo non può essere considerato un agente del sionismo, quali che siano le opinioni dell’uno o dell’altro, irrilevanti per uno stato di diritto che – nel suo stesso interesse e per fedeltà ai propri principii – non può barattare diritti fondamentali con prese di posizione su tematiche non attinenti. Il processo alle intenzioni non fa parte della cultura democratica e nessuna inquisizione ci difenderà da sempre possibili involuzioni di gruppi religiosi o ideologici che saranno eventualmente sanzionati sulla base dei loro comportamenti contrari alle leggi, ma non potranno per nessuna ragione venir considerati «sgraditi» o «inammissibili » con sbrigative e immotivate forme di discriminazione collettiva.

II.  L’amministrazione Pisapia a Milano ha avviato già con la prima vice sindaco Maria Grazia Guida un percorso di emersione almeno per alcune realtà consolidate sul territorio milanese, facendo anche il punto su molte altre finora del tutto ignorate, ma assai numerose, come quelle evangeliche. Il punto d’arrivo è stato il recente bando che a determinate condizioni concede tre aree comunali a chi presenterà un progetto di luogo di culto che totalizzerà il maggior punteggio sulla base di vari parametri. Non è il massimo, vista l’esiguità del numero di lotti a disposizione, ma potrebbe rappresentare un elemento di discontinuità col passato. La legge regionale appena approvata, tuttavia, rischia di vanificare gli sforzi finora compiuti. I tragici avvenimenti di Parigi pesano come un macigno sulle relazioni islamo-cristiane, ma ancor più in generale su quelle fra mondo musulmano e Occidente.

Troppe parole, troppo inchiostro per dire cose spesso banali e lontane dal buon senso. Ma anche questo è un’inevitabile frutto della globalizzazione delle notizie e delle relative chiacchiere, reazioni prevalentemente emotive e di getto, poche e poco seguite quelle un minimo più sensate e articolate. Cercando di pormi, per quel ch’è possibile, in controtendenza e comunque evitando di enfatizzare le pur inevitabili reazioni al dramma di turno, ho portato alla V commissione della Regione Lombardia un parere sulle imminenti modifiche alla legge regionale sui luoghi di culto. Ho tentato di fare il punto su una questione che si trascina da decenni, ma con assai scarsi risultati… penosa e preoccupante situazione dovuta più a veti incrociati e immediati calcoli d’interesse che a considerazioni di fondo intenzionate a dare una qualche sistemazione al problema in oggetto. Ve ne ripropongo ampi stralci, augurandomi che possa, se non chiarire, almeno favorire una qualche comprensione della materia per quel che in sostanza è, a mio parre.

“Gentili Signore, Egregi Signori,
vi ringrazio anzitutto di questa opportunità (…) e mi presento: docente di Lingua e Letteratura Araba e di Islamologia all’Università Cattolica di Milano, conoscitore e spesso amico di molti musulmani ‘milanesi e lombardi’ fin dagli anni ’70, quando ero ancora studente, di recente consulente sia del Ministro degli Interni Maroni nel Comitato per l’Islam Italiano, del Comune di Milano, collaboratore della Diocesi… Ma in nessuna di queste vesti e unicamente in qualità di esperto in materia sento di dovervi parlare con la massima franchezza. La più che trentennale inerzia che ha caratterizzato in tutta Italia la gestione del complesso e delicato tema dei luoghi di culto islamici ci ha portati ad averne circa 800 sul territorio nazionale, sale di preghiera ‘camuffate’ per forza maggiore in circoli culturali o associativi, quasi sempre in collocazioni fortunose e poco dignitose, dirette da persone spesso volonterose ma non di rado inadeguate, con legami più o meno evidenti con movimenti o correnti religiose dei paesi d’origine spesso appiattite su una visione ideologica della fede che determina molte opacità e che in qualche caso è addirittura sfociata in reati.

Il mio profondo rispetto per una nobile tradizione religiosa cui siamo legati per radici condivise quasi quanto all’Ebraismo, unitamente all’amore per la mia città e al comune destino che già stiamo condividendo nella nostra ormai pluralistica società non mi consentono più di tacere, di fronte ai possibili rischi, ma ancor più davanti alle potenzialità positive che potrebbero derivare da imminenti scelte su un tema di tale e cruciale rilevanza. Non solo è auspicabile, ma inevitabile un netto salto di qualità. (…) Mi rendo conto della complessità e della delicatezza della questione, ma non vi nascondo che ciò che temo di più è il perpetuarsi di una mancata gestione del fenomeno la quale non può e non deve incagliarsi in logiche meramente e falsamente ‘securitarie’. Quello che si decide di non gestire, infatti, diventa inevitabilmente qualcosa che si subisce: mantenere fuori dall’ufficialità e in uno stato di totale deregulation le sfide che una realtà religiosa già e irreversibilmente pluralistica ci pone davanti, finisce per favorire un’enorme area grigia che col tempo si consolida come fosse un corpo estraneo o una sorta di società parallela di cui alla fine ci si vedrà costretti a prendere atto, seguendo logiche emergenziali o di sanatoria purtroppo già sperimentate in altri campi e rivelatesi sempre fallimentari. (…)

A differenza degli altri sistemi politici, la democrazia è ‘costretta’ a funzionare per non compromettere la sua stessa legittimità: essa si caratterizza più per le buone pratiche che sa promuovere, sostenere e premiare che per le necessarie ma mai esclusive azioni di prevenzione e repressione di possibili irregolarità e disfunzioni.

Non a caso l’istituzione che da molti anni mi è stata più vicina e ha offerto preziose occasioni di formazione e di maturazione a numerosi musulmani italiani di nuova generazione è stato il Consolato degli Usa. (…)

Pur senza negare le peculiarità della fede islamica e perfettamente consapevole delle tensioni che a essa sono legate soprattutto nei paesi d’origine, resto convinto che lasciare le cose come stanno o renderle ancor meno gestibili con ulteriori appesantimenti burocratici o labirintiche regolamentazioni sia la prospettiva meno efficace, anche sul decisivo versante della sicurezza che anzi si aggraverebbe fino alla paralisi totale se ancora una volta un ‘eccezionalismo’ troppo sbrigativamente e meccanicamente attribuito a tutti i musulmani indistintamente continuasse a tenerci tutti, noi e loro, in ostaggio.

Le condizioni affinché ciò possa accadere, a mio parere, sono con tutta evidenza le seguenti: accanto a una regolarizzazione dell’esistente (della quale possono ovviamente far parte anche provvedimenti di chiusura di luoghi che per varie ragioni non potranno perdurare) e senza forzature che riducano il sano pluralismo delle comunità musulmane presenti sul nostro territorio, sarebbe auspicabile almeno un grande centro di studi e iniziative culturali qualificato con sala di preghiera annessa, ma la cui mission principale sia quella di far conoscere e valorizzare, non solo per i musulmani ma per tutti, la ricchezza spirituale e l’eredità culturale di una delle più grandi civiltà del Mediterraneo e del mondo intero; il partner principale dovrebbe essere un’istituzione culturale islamica di livello internazionale alla quale potranno affiancarsi le organizzazioni musulmane territoriali che purtroppo non possiedono ancora né i requisiti, né il personale, né il coordinamento necessario, ma anzi sono spesso tra loro concorrenti, con leadership talvolta inamovibili, litigiose e carenti sia dal punto di vista della trasparenza che da quello del pluralismo.

“Quelle razze che vivevano porta a porta da secoli non avevano avuto mai né il desiderio di conoscersi, né la dignità di sopportarsi a vicenda. I difensori che, stremati, a tarda sera abbandonavano il campo, all’alba mi ritrovavano al mio banco, ancora intento a districare il groviglio di sudicerie delle false testimonianze; i cadaveri pugnalati che mi venivano offerti come prove a carico, erano spesso quelli di malati e di morti nei loro letti e sottratti agli imbalsamatori. Ma ogni ora di tregua era una vittoria, anche se precaria come tutte; ogni dissidio sanato creava un precedente, un pegno per l’avvenire. M’importava assai poco che l’accordo ottenuto fosse esteriore, imposto, probabilmente temporaneo; sapevo che il bene e il male sono una questione d’abitudine, che il temporaneo si prolunga, che le cose esterne penetrano all’interno, e che la maschera, a lungo andare, diventa il volto. Dato che l’odio, la malafede, il delirio hanno effetti durevoli non vedo perché non ne avrebbero avuti anche la franchezza, la giustizia, la benevolenza. A che valeva l’ordine alle frontiere se non riuscivo a convincere quel rigattiere ebreo e quel macellaio greco a vivere l’uno a fianco all’altro tranquillamente?”

(M. Yourcenar, Memorie di Adriano)

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