Migranti: una discussione
da riportare alla decenza

Articolo pubblicato su la Repubblica il 2 settembre 2017

Quando si parla di immigrazione è difficile oggi in Europa che la discussione si mantenga nei limiti della decenza. Il fatto che siano parte ordinaria del discorso pubblico i “suprematisti” biondi come l’olandese Geert Wilders o i “sovranisti” padani come Salvini, rende difficile mantenere un perfetto aplomb deliberativo, come si conviene di fronte a problemi assai complessi: siano le occupazioni abusive cronicizzate, la lotta contro i criminali scafisti, le necessarie azioni europee per lo sviluppo dei paesi africani o la sempre rinviata legge sulla cittadinanza.

Con un magnifico eufemismo, l’arcivescovo di Bologna monsignor Zuppi spiegava ieri su queste pagine che, quando si accumulano delusioni per una politica che ha il respiro corto dei sondaggi mentre i problemi sono di dimensioni epocali, «diventano tutti più elettrici, più offensivi, più difensivi».

Questa “elettricità” peraltro non è un male temporaneo, ha una estensione globale e tutta l’aria di durare. Negli Stati Uniti le provocazioni sull’immigrazione e sui messicani — il muro a loro spese, i bad hombres da cacciare fuori dagli Stati Uniti — distribuite da Trump in campagna elettorale, e a seguire, hanno come acciecato i suoi avversari, che si sono involontariamente adagiati ad apparire come una specie di caricatura del più superficiale, ideologico cosmopolitismo, quando è noto che il Partito democratico, da Kennedy a Obama, ha sempre avuto nella gestione dell’immigrazione, liberale, generosa ma oculata — e sempre connessa con il lavoro e le qualità professionali dei nuovi arrivati — uno dei suoi punti di forza.

Trump ha reso impronunciabili parole pertinenti intorno a politiche ragionevoli di regolazione dei flussi di immigrati. I democratici hanno come “perso la bussola” di fronte alle oscenità suprematiste; lo ha scritto il liberal Peter Beinart su The Atlantic. Vittime di quello che era ed è quasi un trucco consapevole, come ha confessato lo stratega Steve Bannon, al momento di lasciare la Casa Bianca: vi abbiamo schiacciati con il nostro nazionalismo economico, voi costretti a difendere sempre i diritti “degli altri”, avete lasciato per noi “i nostri”. Eppure era letteratura liberal, quella di Paul Krugman, per esempio, il quale ha sempre saputo e scritto sul New York Times che l’ingresso di migranti privi di qualificazione professionale produce un doloroso conflitto con i lavoratori di casa, che sentono il peso fiscale dei nuovi arrivati.

Qualcuno immagina che in America come in Europa questo sia un conflitto da non gestire? O che il tema sia un monopolio dell’estrema destra sovranista? Solo nel mondo utopico (o distopico) di Milton Friedman si poteva pensare di sopprimere ogni forma di assistenza statale e dare il via libera a tutta l’immigrazione del mondo, a piacere, purché restasse illegale. Ma il padre dei “Chicago Boys” apparteneva appunto a quella vena neoliberale, imparentata con l’anarchia, (There is no such thing as society, vero? amici della Thatcher).

Analogamente in Europa una destra furiosa ed estremista, guidata dagli «imprenditori della paura», denunciati qui da Emma Bonino, e particolarmente poveri di qualche plausibile e responsabile agenda di governo, si scatena su qualunque episodio di cronaca per generalizzare il suo sciovinismo, con l’effetto di scatenare una contabilità etnica degli episodi di violenza, ma anche di paralizzare un possibile e necessario confronto pubblico sulle cose che si possono e debbono fare.

In questo contesto violentemente “elettrizzato” è apparso quasi sorprendente che il ministro degli Interni italiano sia riuscito a realizzare, mantenendo un profilo molto sobrio, e d’intesa, si capisce, col primo ministro, una serie di azioni concertate: la collaborazione delle navi del volontariato con la magistratura nella lotta contro gli scafisti, il dialogo con la Conferenza episcopale per la difesa della legalità, il coordinamento delle operazioni con autorità libiche nazionali e locali, l’intesa con l’Unione e con i partner europei, con l’Unhcr e i libici per gli aiuti e la gestione dei campi, e per un’azione di più lungo periodo. Azioni concertate che di fatto hanno provocato un blocco dei flussi e un positivo collasso della contabilità delle vite perse in mare. Si tratta di una inversione di tendenza, che può giovare a qualche più serena riflessione. E si spera anche che un clima migliore favorisca l’approvazione al Senato del benedetto Ius soli, un debito italiano che ha una storia molto lunga, di morosità.

Ma anche il ministro Minniti ha pagato pedaggio alle tensioni partigiane in circolo: per giustificare il suo operato ha parlato di un rischio per «la tenuta democratica del Paese».

Questo è un concetto che appartiene al linguaggio e alla storia della sinistra dalla quale Minniti proviene, dal Pci al Pd, come ha ricordato lui stesso. E quelle parole, un po’ demodé, appartengono a tempi di forte preoccupazione per l’unità della nazione, per la difesa delle istituzioni repubblicane, di fronte al terrorismo o al rischio di avventure golpiste. È stata giudicata una potenziale concessione all’allarmismo apocalittico dei sovranisti. Forse, ma diversi severi censori delle sue parole, appartenenti allo stesso partito, hanno riconosciuto di condividere e approvare l’operato del ministro.

Questi avrebbe potuto più semplicemente ricordare che il diritto all’immigrazione non è illimitato, ma trova il suo limite, in una prospettiva liberale e democratica, nel diritto di una comunità a difendere le condizioni della propria riproduzione sociale, della propria continuità civile e amministrativa, anche in situazioni di rapido mutamento. Diverso naturalmente il caso delle emergenze umanitarie, dei rifugiati politici, dei profughi forzati da circostanze eccezionali, ma è evidente nella fase più recente che, rispetto a questi, è netta la prevalenza dei migranti economici. Sulla difficoltà di tracciare queste distinzioni (di fronte a situazioni estreme dovute non solo alla guerra e alle persecuzioni ma anche al clima e alla povertà) e sull’estensione dei limiti di questi diritti in conflitto è legittima e necessaria una discussione civile, per quanto inevitabilmente appassionata.

È certo in ogni caso che il diritto all’immigrazione non può essere riconosciuto come proporzionale soltanto alla capacità produttiva delle organizzazioni criminali che trasportano migranti. E questa era la situazione dalla quale forse stiamo uscendo. 

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