Malala, la forza dell’istruzione contro i talebani. In Italia un libro per ragazzi che racconta di lei

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Se i libri e le penne spaventano gli estremisti, come ha ribadito nel discorso alle Nazioni Unite del 12 luglio, Malala Yousafzai ha già vinto una grande battaglia: quella contro la paura di chi cerca di far tacere i dissidenti, anche se si tratta di bambine che vorrebbero “solo” avere un’istruzione.

Malala è pakistana e ha compiuto 16 anni davanti a tutto il mondo, con il suo primo discorso pubblico dopo l’attentato che avrebbe potuto costarle la vita. Nell’ottobre scorso, mentre rientrava a casa con lo scuolabus, i talebani le hanno sparato in testa per metterla a tacere per sempre, perché la valle di Swat non potesse più ascoltare quella voce che chiedeva diritti, e che voleva salvare la scuola e il futuro dei giovani pakistani.

Malala invece si è salvata e ora vive a Birmingham, dove studia e continua la sua battaglia perché l’istruzione sia un diritto universale, per bambini e bambine, come da Obiettivo del Millennio, peraltro in scadenza nel 2015 senza ancora aver fatto centro. L’impegno sociale di questa ragazzina è cominciato cinque anni fa, quando il suo diario in lingua urdu viene pubblicato dalla Bbc con uno pseudonimo, Gul Makai, il nome di un’eroina di un racconto popolare pashtun.

Ogni giorno racconta la sua vita quotidiana, fino a marzo del 2009. Annota i suoi pensieri sulla guerra, l’attesa delle lezioni, le chiacchiere fra compagne, i compiti da preparare, lo scarso entusiasmo per le vacanze quando sa che la scuola potrebbe non ricominciare a causa dell’editto dei talebani che ne impongono la chiusura. Scrive di quella volta che il preside raccomandò alle bambine di non uscire di casa con la divisa ma con vestiti colorati, per confondersi e non essere riconosciute come studentesse, e di quando poco tempo dopo anche i vestiti colorati vengono messi al bando perché troppo appariscenti.

Anche il New York Times decide di occuparsi di lei e gira un documentario sulla sua storia, mentre Malala è già una bambina che guarda oltre la sua età e che sogna qualcosa di universale, per sé e per i coetanei. Quando viene ferita gravemente alla testa, nell’ottobre 2012, è già popolare nella sua terra e in parte anche all’estero, ma dopo l’attentato la sua storia mobilita il Regno Unito dove viene curata, e i media di tutti il mondo.

Nel 2013 viene definita dal Time come uno dei personaggi più influenti dell’anno, proposto per il Nobel per la Pace. Nel frattempo la Fondazione che porta il suo nome comincia a ricevere finanziamenti, anche da parte di celebrità come Angelina Jolie.

Nel giorno del suo sedicesimo compleanno Malala arriva alle Nazioni Unite e parla con forza ed umiltà allo stesso tempo: determinata, racconta come nonostante il ferimento sia la stessa persona di prima, uscita semmai rafforzata da quell’esperienza, anche grazie alla capacità di perdonare. Parla di Islam, e delle interpretazioni errate che i talebani ne hanno fatto, considerando un peccato l’istruzione femminile, e di come proprio la fede le abbia dato la forza di andare avanti. Una fede che abbraccia il profeta Maometto, Gesù e Buddha, in un messaggio che rende davvero l’idea sulla capacità di un’adolescente di parlare al mondo, senza confini di stato o di credo.

Presto Malala scriverà la sua biografia, e avrebbe già firmato un contratto da 3 milioni di dollari con le case editrici Weidenfeld&Nicholson e Little Brown. Nel frattempo, il 16 luglio in Italia è uscito per Mondadori “Storia di Malala”, scritto da Viviana Mazza, giornalista della redazione Esteri del Corriere della Sera. La novità è che non si tratta di un saggio ma di un libro per ragazzi. Ne abbiamo parlato con lei.

Come è nata l’idea di un libro che parli ai coetanei di Malala?

L’idea è nata insieme all’editor Mondadori Marta Mazza. Normalmente io scrivo solo per gli adulti e invece lei ha capito quanto questa storia potesse essere adatta ai coetanei di Malala. E la cosa più bella di questo lavoro è stata proprio quella di pensare in un linguaggio diverso, senza mai cedere agli stereotipi. La fonte principale per scrivere la storia di Malala per me è stato il suo diario: quando ha cominciato a far parlare di se aveva appena 11 anni, poi 13, ed ora 16, ed è bello che suoi coetanei possano scoprire con la sua storia diversità ma anche tanti aspetti comuni alla vita di tutti gli adolescenti, come il desiderio di stabilità, la famiglia, il gioco, la scuola e gli amici. E capire che oltre le distanze ci sono esigenze comuni e universali.

Qual è il peso del discorso che Malala ha tenuto alle Nazioni Unite nella battaglia per il diritto all’istruzione?

Il discorso è stato forte e commovente. Che Malala fosse capace di parlare così lo si poteva già intuire dal documentario del New York Times sulla sua storia. In un certo senso lei era già un personaggio a 12 anni: ha sempre vissuto il problema dell’istruzione come un dramma concreto e personale, ma allo stesso tempo come un obiettivo universale.

Solitamente alle Nazioni Unite si ascoltano discorsi in un certo senso molto astratti, ed è proprio per questo che il suo ha colpito, perché ha affrontato il problema in modo concreto.

Un aspetto dell’occasione che secondo me va ricordato, e di cui si è parlato meno è stata la partecipazione di tanti altri ragazzi: non dimentichiamo che l’istruzione a livello primario è uno degli obiettivi del millennio per il 2015, ed è a rischio. E Malala nel suo discorso ha chiesto un intervento forte in questo senso. Ed è stata proprio la sua assenza di cinismo a contagiare tutti. Allo stesso tempo, Malala ha già fatto muovere anche qualcosa di concreto, perché la sua Fondazione ha già ricevuto donazioni importanti, e questo permette di programmare interventi reali per la suola e l’istruzione.

Quando Malala è diventata un’attivista e quanto ha influito l’attentato che ha subito?

In un certo senso lei è stata attivista per anni, da quando ne aveva 11 e cominciava  a scrivere il suo diario, quando insieme al padre denunciava una situazione di privazione che le pesava.

Sicuramente dopo che è stata aggredita e ferita ha fatto un passo in avanti, e lo ha ribadito proprio alle Nazioni Unite, quando ha detto di essere la stessa persona di prima, con le stesse ambizioni e gli stessi sogni. L’unica cosa che per lei è cambiata è stata la percezione della paura, che dopo aver rischiato la vita è diventata assenza di paura.

Il suo è stato un percorso, non un cambiamento dall’oggi al domani: un cammino con momenti di fragilità ma anche di forza. Nel documentario esprime bene la sua energia, che diventa politica, quando ritorna nella sua scuola ormai distrutta dai talebani e dice “benvenuti in Pakistan”. Quello è un passaggio da cui ho tratto ispirazione per un capitolo del libro. Ecco, lei in quell’estate decide che vuole fare politica, mentre fino ad allora ha sempre sostenuto di voler diventare medico. Certo, anche in quel caso avrebbe aiutato le persone, ma a quel punto la sua consapevolezza cambia. Nel documentario del Nyt, alla domanda del giornalista su “cosa vuoi fare da grande” rispondeva ancora “il medico”, poi ha preso coscienza di quanto fosse importante il suo ruolo e ha riletto il suo futuro.
Di fatto lei è già una leader.

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