Malala e Satyarthi, un Nobel importante
Ecco perché il premio ci riguarda tutti

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Questa volta l’assegnazione del Premio Nobel per la Pace è stata salutata ovunque da un coro di approvazione. Come potrebbe essere diversamente, quando ad essere premiati sono state due persone diversissime (Malala Yousafzai, pachistana diciassettenne e Kailash Satyarthi, indiano sessantenne; la prima musulmana, il secondo indú) ma unite in una delle cause più nobili, più indiscutibili: quella del diritto dei bambini – di tutti i bambini, poveri e ricchi, maschi e femmine – all’istruzione.

Il Nobel per la Pace aveva certo bisogno di questo consenso, che fa dimenticare passate decisioni che sono state legittimamente criticate e avevano appannato il suo prestigio. Pensiamo in particolare al premio assegnato nel 1973 a Henry Kissinger e al vietnamita Le Duc Tho, che certo avevano negoziato la fine della guerra del Vietnam, ma che si farebbe fatica a considerare campioni della pace. Il primo, maestro di realpolitik e seguace della teoria della guerra come continuazione della politica con altri mezzi; il secondo, rappresentante di un piccolo Paese capace di sconfiggere la superpotenza americana grazie alla militarizzazione di un intero popolo. In sintesi, non due pacifisti, ma due militaristi intelligenti e realisti.

Che dire poi del Nobel a Obama? Un Nobel senz’altro prematuro, dato “in fiducia” a un personaggio politico accolto come portatore di una promessa di pace – una promessa che purtroppo, nonostante l’indubbia buona volontà del Presidente americano, non si è affatto concretata. Anzi, l’idea che il Premio Nobel per la Pace 2009 decida personalmente quali siano i (sospetti) terroristi da eliminare con i droni non può non lasciare sconcertati.

E il Nobel del 2012 dato all’Unione Europea? Certo, il processo di costruzione dell’Europa è stato ispirato da ideali di pace che sono stati conseguiti attraverso strumenti di natura economica (lo sviluppo, l’integrazione), ma cammin facendo il mezzo è diventato il fine, tanto che oggi il contributo dell’Europa alla pace e il suo stesso peso come soggetto internazionale sono del tutto secondari rispetto alla dimensione economica. Così come il Nobel a Obama era una scommessa proiettata verso il futuro, quello assegnato all’Unione Europea assomiglia agli Oscar alla carriera, attribuiti a grandi personaggi del cinema con un passato glorioso ma che nel presente non brillano per nuove iniziative, per creatività.

I Nobel a Malala e a Satyarthi sono importanti perché mettono nel giusto rilievo il nesso fra istruzione, diritti umani e pace.
La storia di Malala, poi, ha colpito l’opinione pubblica mondiale per la sua emblematicità nel fare emergere drammaticamente – se si considera la ferocia con cui si è cercato di eliminarla – che i violenti, gli oscurantisti, gli oppressori delle donne, i settari assassini temono una ragazzina coraggiosa forse più di quei droni i cui attacchi troppo imprecisi finiscono per colpire innocenti e quindi aumentare la capacità di consenso e reclutamento dei gruppi che si volevano colpire.
Insomma, per una volta il Nobel per la Pace è andato a due autentici costruttori di pace.

Prima però di lasciarci andare ad una confortante sensazione di ottimismo e di speranza dovremmo fermarci a riflettere su uno sconcertante fenomeno che ci fa capire fino a che punto un discorso di pace sia diventato difficile e precario in un mondo dilaniato non solo dai conflitti, ma dall’odio, dai sospetti reciproci, e persino dal diffondersi – di fronte alla crisi generalizzata degli Stati-nazione e allo sconcerto prodotto da una globalizzazione senza governance – di allucinate teorie cospirative.

Nel suo Paese, il Pakistan, Malala non può tornare, e non solo per la minaccia dei Talebani. Fatta eccezione per l’entusiasmo degli abitanti della sua regione, lo Swat, Malala è più popolare da noi che non nel suo Paese. Nell’opinione pubblica pakistana, anche quella che non si identifica con gli estremisti, è infatti molto diffusa una visione non solo negativa ma ostile: Malala “agente degli occidentali”, Malala che “dà un cattivo nome al proprio Paese e all’Islam”, Malala che forse non è davvero stata colpita dai Talebani (sì, persino questo).

Sospetti che sono in clamoroso contrasto con la realtà, se si pensa non solo al fatto che il messaggio della più giovane Premio Nobel della storia non solo rifugge da accenti aspri, da polemiche, da accuse, ma si concentra su un impegno positivo, con una straordinaria coerenza pacifista che la porta a dire, senza nemmeno traccia di un risentimento che sarebbe più che legittimo, che quelli che le hanno sparato in testa dovrebbero capire che sbagliano, e che il loro è soprattutto un difetto di cultura.

Dire che Malala è una recluta della “guerra al terrorismo” degli americani rivela soltanto la sconcertante miseria morale e intellettuale di chi lo sostiene. Basterebbe tenere presente che Malala, come hanno confermato fonti della Casa Bianca, ha approfittato del suo incontro dell’ottobre dello scorso anno con Obama per dirgli che l’uso dei droni era un errore cui mettere fine. Quando Jon Stewart, che l’ha ospitata nella sua popolare trasmissione televisiva, le ha chiesto quale fosse stata la reazione di Obama, Malala, candida e maliziosa nello stesso tempo, ha risposto senza rispondere: “Sa, lui è un politico…”.
Una ragazzina coraggiosa, una persona autentica, un Premio Nobel per la Pace finalmente ben dato.

Leggi la Rassegna stampa dal mondo sul Nobel a Malala e Satyarthi

  1. Malala è il messaggero di Dio !! qualsiasi soggetto ne pensate, Malala è tutto questo !! è ebrei, cristiani, musulmani, buddisti, la sua voce dice tutto di umano e ci fa pensare gli uomini sono consapevoli di ciò che deve essere sacra, Malala è patrimonio mondiale. Forse la grande Madre Teresa ci voleva fare un dono immenso chiedendo a Dio di dare vita a Malala. …., Perla rara di straordinaria lucentezza e di incredibili qualità ‘.

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