Yemen, intrappolato tra Iran e sauditi
Nel grande gioco per la supremazia

Da Reset-Dialogues on Civilizations

La storia ha i suoi paradossi e lo Yemen è un paese in cui contano in primis i giochi di potere tribali. Tra il 1962 e il 1970, Arabia Saudita ed Egitto parteciparono alla guerra civile nel nord del Paese: i sauditi sostennero gli imamisti, i fedeli del deposto Imam sciita zaidita, mentre gli egiziani (che con insuccesso si ritirarono nel 1967) appoggiarono i militari pro-repubblicani. La Repubblica Araba dello Yemen era nata nel 1962. In un celebre libro del 1971, Malcom Kerr chiamava la rivalità fra Riyadh e Il Cairo “la guerra fredda araba”[1].

Quarant’anni dopo, lo Yemen è il fulcro della “guerra fredda mediorientale” fra Arabia Saudita e Iran: un conflitto indiretto in cui sauditi ed egiziani giocano, però, con la stessa maglia. Da tempo, Riyadh e Teheran si scontrano “per conto terzi” nel Levante; ma lo Yemen è nel Golfo (arabico o persico, a seconda delle prospettive), geograficamente collocato nella Penisola arabica cuore del regno wahhabita, affacciato su mar Rosso e golfo di Aden, rotte strategiche del petrolio e del commercio marittimo. L’intervento dell’esordiente coalizione militare araba, a trazione saudita ed egiziana, è così scoccato mentre il movimento degli huthi (Ansarullah), i ribelli sciiti zaiditi del nord occupava Taiz, terza città – a prevalenza sunnita – del paese. In sinergia con i segmenti delle forze di sicurezza ancora fedeli all’ex presidente Ali Abdullah Saleh, i ribelli si sono diretti verso Aden, l’ultimo feudo del presidente ad interim Abdu Rabu Mansur Hadi e delle istituzioni della transizione post-2011. Agli occhi di Riyadh, scongiurare la battaglia per Aden ha l’obiettivo di evitare – ancor prima di una guerra civile che purtroppo sembra già nelle cose – il completo ribaltamento dei rapporti di forza politico-tribali e regionali nello Yemen.

Lo Yemen è un paese estremamente permeabile dall’esterno, ma ciò non significa che sia controllabile. Al contrario, gli attori politici yemeniti hanno sempre dato prova di notevoli capacità di accomodamento, riuscendo abilmente a sfruttare, per calcoli di potere interno, le interferenze dei vicini regionali. Quando, nell’estate del 2013, il progetto di riforma costituzionale sostenuto dal presidente Hadi era ostacolato dalle resistenze del General People’s Congress di Saleh, per oltre trent’anni primo interlocutore dei sauditi in Yemen, il presidente gelò Riyadh scegliendo irritualmente di recarsi, prima della visita di stato da Barack Obama, a Doha e non in Arabia Saudita. In quel momento, sauditi e qatarini vivevano la fase più acuta dello scontro intra-sunnita sul sostegno alla Fratellanza musulmana in Egitto e in Siria.

I valzer delle alleanze fra i protagonisti della scena politica yemenita ci aiutano a comprendere meglio la crisi attuale e le sue radici, svelando che il conflitto a Sana’a è politico-territoriale. Non nasce dunque settario, anche se lo sta diventando a causa della competizione interna fra le due potenze regionali. Il blocco di potere dei Saleh si è ora strumentalmente alleato con gli huthi per tentare di riprendere il potere: tuttavia, fra il 2004 e il 2010, il governo di Sana’a combatté sei battaglie contro Ansarullah, allora esteso nelle sole roccaforti settentrionali dello Yemen, stigmatizzandone l’identità religiosa sciita (ma lo stesso Ali Abdullah Saleh è di rito zaidita, anche se non ha mai adoperato lo strumento religioso per legittimare la propria leadership, in quanto militare d’ispirazione nasseriana). L’Arabia Saudita ha finanziato e appoggiato Saleh per oltre trent’anni nonostante la fede sciita. Lo stesso stanno facendo gli Emirati Arabi Uniti che stanno stringendo rapporti stretti con Ahmed Ali Saleh, figlio dell’ex presidente e già capo della Guardia Repubblicana, ambasciatore ad Abu Dhabi appena licenziato da Hadi (e non è certo un caso che il padre invochi adesso negoziati ed elezioni presidenziali). L’Iran è invece riuscito a stabilire contatti con gruppi del frammentato (e sunnita) Movimento Meridionale, che persegue l’autonomia/indipendenza del sud del paese, giocando così – come da tradizione – a tutto campo, al di là del fattore sciita.

Dopo alcuni segnali tattici di disgelo intravisti nel 2014, lo scontro fra Arabia Saudita e Iran è tornato aspro. La Lega Araba, nel corso del summit di Sharm el-Sheikh (28-29 marzo), si è accordata sulla creazione di una forza militare araba: un progetto, che sta debuttando in Yemen, cui pochissimi analisti avevano dato qualche credito. L’alleanza militare inter-araba, “capace di intervenire rapidamente” contro “gruppi terroristici” e per “operazioni di mantenimento della pace” (nelle parole del segretario della Lega Araba Nabil Al-Arabi), si trova in realtà impegnata a combattere non formazioni jihadiste, ma milizie sciite. Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti ed Egitto sono gli attori chiave dell’operazione: il feldmaresciallo-presidente Abdel Fattah Al-Sisi, che si era fatto promotore dell’iniziativa, può – con questa prova di fedeltà – ricompensare parte della generosità finanziaria di Riyadh, Abu Dhabi e Kuwait City, ritagliandosi il ruolo di stabilizzatore regionale. Egiziani ed emiratini sono la colonna portante dell’operazione aerea in Yemen, perché capaci – a differenza degli altri membri del Consiglio di Cooperazione Golfo, compresi i sauditi – di colpire obiettivi in movimento e non solo target fissi. L’intervento militare in Yemen vede Arabia Saudita e Qatar di nuovo uniti: Riyadh può ora trarre vantaggio dal canale di dialogo che Doha ha con gli huthi, oltre che dai legami fra i qatarini e il partito che raccoglie i Fratelli Musulmani e i salafiti, Islah (che anche i sauditi sono tornati qui ad appoggiare in chiave anti-sciita). L’Oman è rimasto neutrale, come da tradizione.

L’Arabia Saudita e i suoi alleati hanno intrapreso una campagna militare estremamente rischiosa (gli huthi hanno già sconfinato fra Jizan, Asir e Najran, dove abitano tribù gemelle di fede zaidita e ismailita); i soli attacchi aerei, privi di un appoggio locale sul campo, sono inefficaci allo scopo, mentre un ipotetico intervento di terra avrebbe ripercussioni drammatiche. Senza una strada diplomatica, il sentiero è parecchio stretto. Nel frattempo, Al-Qaeda nella Penisola arabica e i mille rivoli del jihadismo (che si richiamano anche al gruppo “Stato islamico”) hanno campo libero, trovando la sponda delle tribù sunnite che vogliono respingere la penetrazione territoriale degli huthi.

Il “paradosso del potere” della nuova guerra fredda mediorientale, sottolineava mesi fa Gregory Gause, è che la pura forza militare di ogni potenza, dunque l’equilibrio militare fra Arabia Saudita e Iran, non è centrale nell’attuale competizione geopolitica. A fare la differenza è invece la capacità dei due giganti regionali di sostenere, su base transnazionale, gli attori non-statuali che si muovono all’interno degli stati più instabili del quadrante [2]. Lo Yemen rischia di rimanere intrappolato in questo paradosso.

Eleonora Ardemagni, analista di relazioni internazionali del Medio Oriente, collabora Aspenia, Affarinternazionali, Ispi, Limes.

Note

[1] Malcom Kerr, The Arab Cold War: Gamal ‘Abd al-Nasir and His Rivals, 1958-1970, Oxford University Press, 1971.

[2] Gregory Gause III, Beyond Sectarianism: The New Middle East Cold War, Brookings Doha Center, Analysis Paper, n°11, luglio 2014.

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