L’Iran e il nucleare, slittano gli accordi
Il disastro iracheno preoccupa tutti

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Il rinvio del controverso accordo sul nucleare iraniano non stupisce. Anzi, si tratta di un procrastinare previsto e annunciato che rimanda la decisione di un mese, ma che non esclude, se anche questa volta non si dovesse arrivare a un punto di vista condiviso dalle parti, di far slittare di altri sei mesi l’accordo e rinnovare il Joint Plan of Actions del 23 novembre scorso. Il prossimo 20 luglio scade infatti l’intesa provvisoria di Ginevra, entrato in vigore il 20 gennaio. Da qui al 20 luglio ci sarà, però, una tappa intermedia, quella del 2 luglio quando i rappresentanti iraniani e quelli dei 5+1 torneranno al tavolo negoziale di Vienna.

Una delle questioni più spinose resta quella delle centrifughe. Stati Uniti, Cina, Russia, Francia, Regno Unito e Germania vorrebbero stabilire il numero a qualche migliaia, mentre la Repubblica Islamica dell’Iran insiste che per alimentare le sue centrali nucleari civili ne siano necessarie alcune decina di migliaia. Attualmente in Iran ce ne sono circa 19mila, ma solo la metà funzionanti.

Resta poi il capitolo, anche questo piuttosto controverso, dedicato all’arricchimento dell’uranio, un processo necessario sia per il nucleare civile, sia per la produzione della famosa bomba, la cui tecnologia, una volta avviata, serve per entrambe le finalità. Come spiegava a Reset-DoC nel 2013 il professor Carlo Schaerf, docente di Fisica Nucleare ed esperto di problemi strategici, sicurezza internazionale e terrorismo, “Le centrifughe usate per il nucleare civile sono le stesse utilizzate per il nucleare militare. Si potrebbe eventualmente ottimizzare il processo. Ma non ci sono ostacoli tecnologici che impediscano l’arricchimento dell’uranio al 90 per cento”. Si tratta dunque solo di una decisione politica.

Nel caso iraniano, l’accordo di Ginevra prevede che l’Iran sospenda l’arricchimento dell’uranio al di sopra del 5% (livello utile alla produzione di energia), mantenendo metà dello stock di uranio arricchito al 20% per alimentare il reattore di ricerca medica di Teheran, e che elimini le scorte al di sopra di questa percentuale, cosa che effettivamente pare essere avvenuta, almeno sulla base dei report rilasciati dall’Aiea. Il Joint Plant of Actions stabilisce infatti il ruolo fondamentale dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, incaricata di monitorare i siti di arricchimento dell’uranio di Fordo e di Natanz e di ispezionare una volta al mese il reattore di Arak, dove si sospetta si produca plutonio. Dall’ultimo documento dell’Aiea, reso pubblico lo scorso 4 giugno, risulta che, a partire dallo scorso gennaio, Teheran ha implementato le sue misure di cooperazione con l’Agenzia e che ulteriori passi avanti verranno effettuati entro il prossimo 25 agosto. In particolare, ci si riferisce all’accesso al sito di Saghand Mine a Yazd (il 6 maggio), a quello di Ardakan (il 7 maggio) e a tutta un’altra serie di informazioni e chiarimenti sul reattore di Arak e al laser center di Lashkar Ab’ad.

Un segnale di buona volontà che fa il paio con le ultime dichiarazioni di Rouhani che si è detto determinato a firmare un accordo entro “le prossime cinque settimane”. Anche perché questo significherebbe la progressiva revoca delle sanzioni contro Teheran. Determinazione e ottimismo iraniano devono confrontarsi però con le dichiarazioni molto più attendiste dell’Unione Europea e dell’Alto rappresentante per la Politica Estera Catherine Ashton che, per mezzo del suo portavoce Michael Mann, ha fatto sapere che per raggiungere un accordo entro il 20 luglio saranno necessari ancora numerosi negoziati, dal momento che “i progressi nella redazione di un accordo sono limitati”.

Da Ginevra a Teheran, passando per Baghdad

Al di là di Bruxelles sarà Washington a stabilire il futuro delle trattative e dell’accordo sul nucleare iraniano, e quello che accadrà in Iraq potrebbe avere un peso non indifferente. Ovviamente non esistono dichiarazioni ufficiali in merito, anzi il Dipartimento di Stato Usa ha voluto sgomberare il campo da dubbi ricordando che “ogni sforzo di collegare le due cose, o altre questioni regionali, è improduttivo”. E in effetti, durante i colloqui da poco conclusi si è rimasti concentrati sul tema principale.

Ma, messo da parte il linguaggio diplomatico, resta vero che se il futuro iracheno dipende molto probabilmente dai Pasdaran e da tutti i combattenti sciiti richiamati alle armi anche dal Grande Ayatollah al Sistani per contrastare l’avanzata dell’Isis, il futuro politico dell’Iran potrebbe essere strettamente legato a quello dell’Iraq e al presunto engagement con gli Usa.

La Repubblica islamica è in grado di mobilitare le Brigate di Badr in Iraq, la milizia sciita i cui membri sono entrati nell’esercito regolare iracheno dopo il 2003; la presenza dei Guardiani della Rivoluzione a Baghdad serve a questo. Senza contare poi i miliziani sciiti dell’Esercito del Mahdi, che hanno fatto mostra di sé nella capitale irachena nei giorni scorsi e che hanno già vigorosamente affrontato i militari della coalizione negli anni passati.

Quella irachena però è una contropartita pesante da giocare per una nazione che ha combattuto dieci anni contro l’Iraq sunnita di Saddam Hussein; un evento che ha segnato un’intera generazione e causato più di un milione di morti fra gli iraniani. Il ricordo della cosiddetta “guerra imposta”, così come la definiscono a Teheran perché a scatenarla fu l’invasione irachena dell’Iran, è ancora forte e, come evidenzia Foreign Affairs, più che un’occasione per dirimere le proprie questioni politiche, una guerra al confine è una minaccia alla propria sicurezza nazionale.

Non a caso, Teheran ha trascorso gli ultimi dieci anni, dalla caduta di Saddam Hussein in poi, a intessere rapporti diplomatici con il governo sciita e ad assicurarsi che il governo iraniano guidato restasse in piedi, con o senza al Maliki. Tanto che nei giorni scorsi lo stesso Sistani, poco incline a confrontarsi con questioni politiche, ha richiamato l’attenzione sulla necessità di formare un esecutivo che goda di un ampio consenso e in grado di mettere mano a quello che è accaduto nelle ultime due settimane, ponendosi così sulla stessa linea di Barack Obama che aveva già esortato alla creazione di una leadership realmente rappresentativa in Iraq. E ora che anche al Maliki, dopo aver incontrato il segretario di Stato Usa John Kerry, ha fornito la deadline del 1° luglio per la formazione del nuovo governo, sciiti e Stati Uniti si ritrovano sullo stesso lato della barricata, ribaltando il quadro delle alleanze stipulate finora. Sciiti significa infatti non solo Iran, ma anche Hezbollah e la Siria di Assad: il Grande Satana e l’Asse del Male, dunque. Il prossimo appuntamento in questo nuovo gioco delle coppie si terrà un giorno prima del nuovo round negoziale sul nucleare iraniano e ancora una volta Stati Uniti e Iran saranno seduti allo stesso tavolo.

Vai a www.resetdoc.org

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *