Libia: un anniversario tra incertezze e timori di nuove proteste

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Arriva all’insegna dei disordini in Egitto e in Tunisia, e di un nuovo fronte aperto in Mali, il secondo anniversario dell’inizio delle rivolte in Libia. Tensioni si attendono anche all’interno del Paese, tanto che il governo libico ha deciso di chiudere temporaneamente le frontiere, dal 14 al 18, durante i quattro giorni di celebrazioni. Limitati anche i voli aerei dall’estero. È una Libia blindata, dunque, a ricordare quel 17 febbraio 2011 in cui ebbe inizio la fine della Jamahiriya e di Muammar Gheddafi.

Sicurezza, unità nazionale e disarmo

Due anni dopo, il problema più evidente resta quello della sicurezza: milizie ancora armate, timori di infiltrazioni estremiste islamiche, accompagnate da un’unità nazionale che stenta a decollare, con la conseguenza che la Libia post Gheddafi rimane divisa, con le solite differenze tra le varie aree (Cirenaica, Fezzan e Tripolitania) e con una Cirenaica che continua a chiedere maggiore autonomia, nonostante nella bozza della nuova costituzione si parli di Paese indivisibile con capitale Tripoli.

Le spinte federaliste dell’est, che da solo detiene circa il 60% delle risorse petrolifere del Paese, non si sono placate nel corso di questi due anni con proteste di piazza che ora, in vista della data fatidica, rischiano di riaccendere la miccia. Le maggiori preoccupazioni riguardano proprio la manifestazione del 15 febbraio a Bengasi, tanto che il presidente del Parlamento libico Mohamed Magarief e il premier Ali Zeidan sono corsi, nei giorni scorsi, in quella che anche sotto Gheddafi era forse l’area più turbolenta, per colloqui con le autorità locali. È sempre a Bengasi che lo scorso settembre è stato ucciso l’ambasciatore americano Chris Stevens e, ancora a Bengasi, il 12 gennaio, il console italiano Guido De Sanctis è scampato ad un attacco armato contro la sua vettura.

La manifestazione del 15 riapre, poi, uno dei capitoli più bui nei rapporti con Tripoli quello del famoso massacro di Abu Slim, del 1996, durante il quale furono massacrati, secondo Human Rights Watch, 1270 detenuti. Il primo focolaio della rivolta del 2011 scoppiò proprio a Bengasi, durante le manifestazioni contro l’arresto dell’avvocato difensore delle famiglie vittime del massacro di Abu Slim.

A Parigi la sfida della sicurezza

Come spiegano Gerardo Pelosi e Arturo Varvelli nel libro di recente uscita Dopo Gheddafi, “la lunga fase di transizione della Libia, iniziata il 20 ottobre con la definitiva caduta del regime di Muammar Gheddafi… si sta rivelando molto complessa, irta di ostacoli e dall’esito incerto, nonostante le elezioni per il Congresso Nazionale, tenutesi il 7 luglio 2012, abbiano avuto un relativo successo”. Nel testo si fa chiaro riferimento alla fase di destabilizzazione seguita al collasso del regime, frutto di conflittualità a più livelli, di “identità nazionale”, “appartenenza regionale” e di “affiliazione clanico-tribale”, e alla necessità di affermare condizioni di sicurezza sufficienti al mantenimento della pace e dell’integrità territoriale.

Questo è quanto emerso anche nei giorni scorsi a Parigi, durante la Conferenza internazionale sulla Libia in cui si è fatto un punto sullo stato delle cose. Necessità di rafforzare la sicurezza ai confini (da cui sembra siano passati gli islamisti che il mese scorso hanno preso d’assedio l’installazione di gas in Algeria) e di ritirare tutte le armi e gli esplosivi che sono ancora in circolazione a disposizione delle milizie e non solo. Si tratta di un problema comune a tutti i Paesi usciti da una guerra civile in cui il “nemico” vestiva gli abiti del guerrigliero ma a volte anche del vicino di casa.

Di necessità di riconciliazione nazionale aveva parlato lo scorso 29 gennaio anche il rappresentante Speciale delle Nazioni Unite per la Libia, Tareq Mitri, chiedendo uno sforzo “alle autorità libiche, le forze politiche, la comunità dei leader tribali, rivoluzionari e le organizzazioni della società civile” per “un processo di dialogo nazionale”. Secondo Mitri, sarebbero 20mila gli ex combattenti delle brigate rivoluzionarie arruolati ora dal Ministero dell’Interno, ma altri 200mila (dieci volte tanto) sono ancora armati e fuori il controllo delle nuove autorità libiche.

Le priorità emerse nel corso del meeting riguardano anche la costituzione di un sistema giudiziario efficiente, la riforma del sistema carcerario e la promozione del rispetto dei diritti umani; tutti elementi che preludono a una vera e propria costruzione più che ri-costruzione di una nazione.

A Parigi si è stabilito che i due piani di sviluppo che fanno parte della missione Onu, il National Security Development Plan e il Justice and Rule of Law Development Plan, verranno implementati e che gli Stati amici della Libia, fra cui l’Italia, contribuiranno concretamente al rilancio del Paese. Sul terreno questo si traduce nell’intervento dell’Unione Europea per l’addestramento delle forze di sicurezza libiche e nell’invio di materiale tecnico utile per il controllo delle frontiere, seimila chilometri in tutto. Entro il prossimo giugno, inoltre, dovrebbe partire una missione Ue di sorveglianza.

L’Italia, spiega il ministro degli Esteri Giulio Terzi, ha assicurato il suo intervento sui confini meridionali dove “sono ancora radicati movimenti sostenuti dagli ex lealisti che si infiltrano e trasbordano creando un quadro di instabilità”, anche perché, come aveva già sottolineato il ministro degli esteri libico Mohamed Abdelaziz, “quando la sicurezza è assente, non possono esserci investimenti, sviluppo, rispetto dei diritti umani”. Da parte italiana, la scorsa settimana, inoltre, sono arrivati venti mezzi corazzati Puma destinati alla nuova fanteria libica.

Frammentazione politica, diritti civili e i fantasmi del passato

Altro elemento di instabilità è la disomogeneità politica uscita dalle urne, lo scorso luglio. Se è vero che hanno trionfato i moderati di Jibril, è vero pure che i partiti indipendenti hanno ottenuto la maggioranza dei membri nel Congresso Nazionale (120 su 200), delineando un puzzle di difficile gestione. A conferma di questa tendenza centrifuga, la notizia di questi giorni della nascita di un nuovo gruppo, il cui nome chiarisce gli intenti: il Partito del Consenso Nazionale si propone di creare un’unione con altre forse e dettare al Congresso una tabella di marcia fino all’approvazione della nuova costituzione. Si tratta di una compagine eterogenea cui hanno aderito i transfughi dell’alleanza con Jibril.

Per quel che riguarda i diritti umani, tiene banco il dibattito sul coinvolgimento della donne nella vita politica del Paese, rappresentate da 28 deputate su un totale di 200. Una sfida che si combatte non solo dagli scranni, ma anche per le strade, costituendo quel senso di partecipazione alla vita pubblica mancato per più di quarant’anni. Il 9 febbraio, a una settimana dall’anniversario della rivoluzione, si è svolto il primo International Women in Libya, un incontro che ha riunito donne provenienti da 17 Paesi, un terzo delle quali libiche, testimoniando un nuovo fervore sociale e civile. I fantasmi del passato restano però alle porte, come la decisione della sezione costituzionale della Corte Suprema di Tripoli di reintrodurre la poligamia sulla base della legge islamica. Un passo indietro anche rispetto al regime.

Per andare avanti, invece, è necessario chiudere con il passato e con i conti ancora in sospeso. Dopo una guerra civile ce sono molti. Due esempi: il processo a Saif al-Islam, iniziato il 17 gennaio, ma bloccato e riaggiornato al mese di maggio; quello all’ex capo dei servizi segreti esterni libico, Bouzid Dorda, sospeso a tempo indeterminato, e quello di Abdullah Senussi, che sotto Gheddafi guidava l’intelligence interna, estradato in Libia dalla Mauritania lo scorso settembre e in attesa di giudizio.

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Immagine di B.R.Q. (cc)

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