Libano: Hezbollah, la Siria e gli attentati nell’era delle sanzioni Ue

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Dopo il secondo attentato a Beirut in poco più di un mese, in uno dei quartieri del sud della città, il leader Hezbollah Seyed Hassan Nasrallah ha annunciato che è pronto a combattere direttamente in Siria i fondamentalisti che accusa di aver provocato l’esplosione. Che Libano e Siria, e la guerra in atto a Damasco, siano legati a doppio filo con il Partito di Dio non è mai stato in dubbio. Ma che l’asse del conflitto si stia spostando anche sul paese dei cedri è sempre più palese. Oggi stesso due autobomba sono esplose nella città settentrionale di Tripoli mietendo venti vittime.

Nei suoi proclami Nasrallah ha chiesto aiuto alla comunità internazionale affinché  il paese non venga trascinato in una guerra civile, mentre proprio pochi giorni fa è stato accusato di essere la causa di questo sconfinamento dall’ex premier libanese Saad Hariri, esattamente dopo il secondo attentato.

Il fatto è che per molti, e le parole dello stesso leader di Hezbollah in qualche modo lo confermano, è che l’attacco nella capitale sia una vendetta per il supporto armato dato da hezbollah al governo siriano di Assad.

Nel movimento non esiste una posizione unanime rispetto alla questione siriana, anche se il legame, pure economico, è innegabile. Finora però Hezbollah ha mantenuto un basso profilo e lo stesso Nasrallah, almeno fino agli attentati, aveva sostenuto che i combattenti partiti dal Libano avevano scelto individualmente di andare in Siria. Senza dimenticare la disponibilità mostrata dall’organizzazione, nel sud del paese, a fornire aiuti umanitari ai profughi siriani, fuggiti proprio dalla repressione del regime.

Da quando è in corso il conflitto siriano le tensioni confessionali sono comunque aumentate, e in questo contesto già di per se complesso si inserisce la decisione dell’Unione Europea, arrivata esattamente un mese fa, di mettere al bando l’ala militare di Hezbollah bollandola come organizzazione terroristica.

Si tratta di una decisione presa all’unanimità dai ministri degli esteri Ue, anche se con la riserva da parte di alcuni paesi. Italia, Irlanda, Malta e Finlandia hanno infatti espresso non poche perplessità su eventuali ripercussioni circa la stabilità del paese in conseguenza della decisione, considerato il ruolo politico di primo piano del Partito di Dio.

L’azione dell’Ue, arrivata dopo l’attentato anti-israeliano in Bulgaria (18 luglio 2012) e l’accusa ad Hezbollah di coinvolgimento nell’episodio da parte delle autorità bulgare, porta fondamentalmente tre conseguenze all’organizzazione: il veto ai membri di entrare nei paesi Ue, il congelamento di loro eventuali beni depositati presso banche europee e il blocco di qualsiasi attività di raccolta fondi a loro favore realizzata su territorio europeo.

L’applicazione delle restrizioni potrebbe comunque essere complicata dalla difficoltà di distinguere un’ala militare ben precisa, e i suoi appartenenti. Proprio dall’Italia, con il ministro Bonino, è arrivata la richiesta di mantenere il dialogo con la parte politica di Hezbollah, nonostante la decisione sia stata comunque approvata per non intaccare la posizione europea di unità. Come prevedibile, il governo israeliano ha espresso grande soddisfazione nei confronti dell’Ue, mentre il ministro degli esteri libanese ha parlato di pressioni subite dall’Europa, da parte di alcuni stati mai nominati, per arrivare alla decisione.

La decisione dell’Europa è meno radicale di quella intrapresa finora dagli Stati Uniti, e più di recente da Gran Bretagna e Olanda che non hanno mai separato l’ala militare da quella politica.  Ma per questo resta contraddittoria, e il rischio è che i canali “politici” continuino a dialogare come istituzione libanese, senza poter intervenire per estromettere ciò che da oggi è diventato “terrorista”.

Oltre alla difficoltà oggettiva di separare gli appartenenti all’ala militare rispetto a quella sociale, assistenziale, e soprattutto governativa, per l’Italia si pone anche la questione della presenza militare con la guida della missione Unifil, United Nations Interim Force in Lebanon, dove rappresenta la principale forza di peacekeeping.

Come riportato nell’ultimo rapporto del Centro Studi di Politica Internazionale “Il Libano e la crisi siriana: le lezioni di Unifil per l’Italia e la comunità internazionale”, Unifil si è posta come temporaneo sostituto dello Stato libanese nel sud del paese per garantire sicurezza e legalità, proprio in quello stesso territorio dove Hezbollah aveva campo libero come “stato nello stato” già prima della guerra del 2006 con Israele.

Come continuerà ora il dialogo con le forze locali, dopo la ridefinizione di “status” dell’organizzazione? Le forze internazionali (e italiane) dialogheranno con i “neo terroristi”? Basti pensare ai rapporti dei vertici militari con le rappresentanze delle municipalità locali, pressoché continue. Andranno avanti? E a quali condizioni, visto che non si potrà evitare di sedere al tavolo con esponenti di Hezbollah? La vera sfida sarà distinguere la rappresentanza politica da quella militare, dove, se la storia parla da sé, un aspetto è in qualche modo conseguenza dell’altro.

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