Le guerre in Siria sono almeno due

Articolo uscito su Europaquotidiano

La Siria va in pezzi. La mente torna indietro di un paio d’anni, ai tempi dell’intervento in Libia. Si diceva: non esiste una Bengasi siriana, una zona del paese sotto il pieno controllo dei ribelli. Oggi sì. Ma la Bengasi siriana non è in mano all’Esercito libero siriano, l’organizzazione ribelle riconosciuta dagli Occidentali. È controllata invece da diverse formazioni che si proclamano fedeli ad al Qaeda. Una fra tutte: lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante (indicato spesso con l’acronimo inglese Isil, o anche Isis, se a Levante si sostituisce il termine arabo Sham).

Dai primi di ottobre l’Isis ha proclamato la nascita di un “emirato islamico” nella regione a nord di Aleppo, la più grande città siriana, proprio al confine con la Turchia. E l’esercito turco, fino ad oggi uno dei più attivi sostenitori del fronte anti-Assad, ha fatto sapere in settimana di aver esploso quattro colpi di cannone contro una postazione dell’Isis oltre confine.

Finora la Turchia aveva seguito il principio che «con la minaccia qaedista in Siria si faranno i conti più tardi» (così almeno sostiene un discusso articolo del Wall Street Journal, pubblicato una decina di giorni fa). A quanto pare il «più tardi» è già arrivato.

Brandelli di Siria

La scorsa settimana ero con Lorenzo Trombetta, firma di Europa e collaboratore dell’Ansa da Beirut, a presentare il suo ultimo libro (Siria. Dagli ottomani agli Asad. E oltre, Mondadori). Eravamo ospiti dell’Università di RomaTre, in un seminario organizzato dalla cattedra di Storia dei paesi islamici della professoressa Anna Bozzo, con noi anche Azzurra Meringolo di Arab Media Report. Lorenzo è stato tra i primi giornalisti in Italia (ch’io sappia: il primo) a raccontare la frattura territoriale che la guerra civile siriana stava provocando.

La fascia costiera e le montagne alle sue spalle sono saldamente in mano agli alawiti, la minoranza da cui proviene la famiglia di Bashar al Assad. Molti degli episodi più cruenti di questa guerra si sono svolti proprio al limitare della regione alawita, quasi a marcare col sangue il confine tra una zona e l’altra. I curdi – impegnati in una sorta di guerra parallela – stanno delimitando nel nord-est del paese una loro sfera di influenza, confinante col Kurdistan iracheno e con la regione curda della Turchia. E poi c’è la regione della Jazeera, a maggioranza sunnita: «la più ricca di risorse», spiega Trombetta, elencando pozzi di petrolio e corsi d’acqua.

Quella parte di Siria è ormai controllata in larga parte dall’Isis. «Il mese scorso ero dall’altra parte del confine, in Turchia – racconta Lorenzo a RomaTre. – Le persone che escono dalla Siria raccontano che molti dei valichi di frontiera sono ormai controllati dall’Isis». Non c’è da stupirsi, allora, se la Turchia sta iniziando a preoccuparsi per il suo nuovo, ingombrante vicino di casa.

Di chi è la colpa?

Nel suo libro Trombetta prende di petto quello che lui considera un luogo comune del dibattito sui fatti di Siria: nell’era degli Assad, si sente dire, le diverse confessioni religiose convivevano pacificamente. Il raìs siriano sarebbe quindi un baluardo contro l’oppressione delle minoranze da parte del terrorismo di stampo sunnita.

La tensione tra le diverse comunità siriane – risponde Lorenzo – esisteva in Siria anche prima del marzo del 2011, anche se «non se ne parlava pubblicamente». Anzi – e qui Lorenzo ribalta il luogo comune – è stato lo stesso Assad a favorire la «confessionalizzazione dello Stato, del governo e delle sue istituzioni per salvar la pelle in caso il popolo gli si fosse rivoltato contro».

È una tesi che il libro difende con una mole di aneddoti, di dati, di impressioni raccolte in tanti anni di soggiorno in Siria. Arrivato in fondo al volume, però, mi rimane in testa il dubbio formulato da un abitante di un quartiere alawita di Homs: forse davvero è stato il regime a «metterci gli uni contro gli altri. Ma a questo livello di violenza mi chiedo se alla fine non sarebbe stato meglio rimanere sotto il regime. Quel che ci aspetta non sarà forse peggio?».

Ribelli buoni e ribelli cattivi

Anche qui, la risposta di Lorenzo la si legge tra le righe. Una Siria senza Assad può essere meglio della vecchia Siria grazie al desiderio di democrazia coltivato da una larga parte della società civile siriana. I siriani – dice Lorenzo a RomaTre – non lasceranno prevalere le forze del qaedismo: «Le torture, gli arresti dello Stato islamico sono gli stessi del regime. Cambia il colore politico, la minaccia è la stessa».

La storia di Abu Maryam gliel’ho vista raccontare più volte, con gli articoli e a voce. Sempre in piazza ad Aleppo sin dai primi tempi della rivolta contro Assad, oggi Abu Maryam è nelle carceri dello Stato islamico: «La rivoluzione vera non è ancora cominciata», diceva poco prima di venire arrestato dai qaedisti.

Lo stesso padre Paolo Dall’Oglio, secondo le ricostruzioni più accreditate, sarebbe stato sequestrato proprio dall’Isis. Padre Paolo – gesuita italiano da anni in Siria, espulso dal governo di Assad per il suo sostegno alla rivolta – era rientrato nelle zone controllate dai ribelli attraversando il confine turco. Era arrivato a Raqqa, che lui stesso definiva «la prima città della Siria liberata». Lì aveva incontrato alcuni leader dello Stato islamico, per negoziare la liberazione di alcuni ribelli arrestati dai qaedisti. Poco dopo che aveva lasciato il quartier generale dell’Isis, padre Paolo è stato fatto salire su una macchina (guidata, pare, da uomini della stessa organizzazione jihadista) ed è sparito. Era il 29 luglio scorso.

Ginevra 2: i dubbi…

Quando chiedi a Lorenzo cosa si dovrebbe fare, allo stato attuale, la risposta passa per l’intervento armato dell’Occidente. Un intervento massiccio, per azzerare il sistema di potere di Assad. E poi, eventualmente, aiutare le forze “democratiche” siriane a contenere l’avanzata delle diverse ali del qaedismo.

Gli chiedo come sia possibile mettere fine alla guerra senza un accordo tra gli sponsor delle parti in campo: Russia e Iran da un lato, Stati Uniti, Turchia e paesi del Golfo dall’altro. Negli ultimi tempi ci siamo trovati più volte a discutere di Ginevra 2, il tentativo di avviare un negoziato – siriano e internazionale – per una soluzione diplomatica della crisi. Lorenzo è scettico. Non crede che i rappresentanti dei ribelli al tavolo della trattativa siano rappresentativi delle forze in campo. Non crede che sia realistico l’obiettivo di medio termine di Ginevra 2, e cioè la formazioni di un governo di unità nazionale, con insieme gli uomini di Assad e i ribelli.

…e le speranze

Tutte preoccupazioni ragionevoli. Che non riescono però a convincermi del fatto che ci sia un’alternativa, un lungo assedio dell’Occidente alla montagna alawita, magari difesa da russi, iraniani e Hezbollah, mentre alle spalle infuria la guerra contro al Qaeda.

Intanto, all’interno dell’opposizione impegnata nella trattativa diplomatica, la linea dei duri e puri sembra prevalere. I primi a dichiarare il loro “no” categorico a qualsiasi accordo con Assad sono stati quelli di Jabhat al Nusra, l’altra grande sigla qaedista attiva in Siria. Si sono trascinati dietro, un po’ per volta, anche i gruppi che finora dialogavano con l’Occidente, come il Consiglio nazionale siriano.

Ma se la trattativa andasse in porto, i gruppi legati ad al Qaeda avrebbero molto da perdere. «La conferenza di Ginevra 2 – scriveva a inizio ottobre il quotidiano libanese As Safir, filo-siriano – potrebbe portare molte fazioni dell’opposizione a unire le forze nella lotta contro lo Stato islamico, come vorrebbero Russia e Stati Uniti, anche grazie alla formazione di un nuovo “esercito nazionale” delle opposizioni». Una prospettiva, ad oggi, ancora lontana.

Saluto Lorenzo, che riparte per Beirut. Torna alla conta dei morti: 31 a Hama in un attacco suicida, altrettanti negli scontri tra regime e al Nusra. Un giorno come tanti.

@lorbiondi

Nella foto: un soldato dell’Esercito Siriano Libero pulisce la propria arma

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