L’attentato francese
e l’agenda politica della paura

Da Reset-Dialogues on Civilizations

La notizia che una persona, dotata di bandiere che professavano fede islamica, aveva messo a segno un attentato mortale in una fabbrica di gas vicino Lione ha gettato l’élite politica francese nel marasma, spingendo il presidente François Hollande a cancellare i suoi impegni per partecipare a un consiglio di difesa con esperti appositamente convocati.

Alla luce di quello che si sa oggi, ciò appare una reazione sproporzionata a un maldestro episodio criminale. Se lo si confronta con quello che è successo a gennaio a Parigi, quando tre uomini armati fino ai denti hanno colpito obiettivi di alto valore simbolico – la rivista satirica Charlie Hebdo e un alimentari kosher – l’attentato di venerdì è poca cosa. C’era un coinvolgimento personale – si sa che la vittima conosceva il suo assassino – e gli obiettivi erano molto limitati. I vigili del fuoco sono arrivati sul luogo impedendo danni peggiori e fermando il sospettato che, secondo i rapporti, cercava di innescare un’esplosione.

Eppure gli effetti di questo gesto inconsulto sono stati immediati e incendiari. La notizia si è sovrapposta sui media alle immagini di turisti europei morti e feriti in un altro attentato sulle spiagge della Tunisia, portato a segno con lo stesso tipo di armi con le quali i fratelli Kouachi hanno massacrato la redazione di Charlie Hebdo. L’attentato ha avuto luogo nell’anniversario della dichiarazione del nuovo califfato dello Stato Islamico di Iraq e Siria.

Persino questa debole scintilla, dunque, è sufficiente a infiammare un’atmosfera in cui gli strateghi della politica oscillano fra lo “spirito dell’11 gennaio” – quando 4 milioni di francesi sono scesi in piazza uniti, anche se per breve tempo, contro l’estremismo islamico – e lo spirito del 21 aprile. Giorno in cui più o meno lo stesso numero di cittadini votarono per il leader del partito di estrema destra, Front National, Jean-Marie Le Pen, che riuscì ad accedere al ballottaggio delle elezioni presidenziali del 2002, a sette mesi dall’11 settembre. Questo risultato elettorale ha spinto per anni il centro-destra francese a dare la caccia agli elettori del Fronte Nazionale, dividendo la sinistra in un blocco laico e secolarista e in uno multiculturalista, pur di differenti sfumature.

Il risultato è che nel dibattito pubblico in Francia la radicalizzazione violenta ha raggiunto un punto di saturazione. Soltanto in giugno, il parlamento francese ha approvato una nuova, più penetrante, disciplina di sorveglianza per l’intelligence e ha diffuso un rapporto di 500 pagine sul reclutamento jahidista in Francia, mentre si tenevano quattro importanti forum di discussione sulla situazione dell’Islam nella repubblica francese, tenuti rispettivamente dal ministero degli interni, dai due maggiori partiti politici e dall’associazione nazionale dei sindaci.

Ora, a differenza che in gennaio quando l’opposizione ha dimostrato un certo autocontrollo, c’è meno tendenza verso l’unità nazionale. L’attentato è accaduto poco tempo dopo le dichiarazioni del primo ministro francese che aveva affermato che l’Islam sarebbe stato uno dei temi della prossima campagna elettorale. Di rimando i Républicains, guidati da Nicolas Sarkozy, hanno accusato il governo di “sguazzare nell’ingenuità” riguardo al pericolo terrorismo e alla necessità di essere coscienti che “c’è una guerra in corso”. Il sindaco di Nizza ha suggerito che l’attentato conferma la presenza di una vera e propria quinta colonna operante nel paese e il Fronte Nazionale ha a sua volta denunciato l’inazione del governo.

Eppure, a partire da gennaio, si è sviluppata un’evidente tendenza da parte delle istituzioni verso un maggiore apertura e interesse nell’affrontare le cause soggiacenti del problema. Il primo ministro ha affermato risolutamente che è necessario mettere fine all’ “apartheid” nelle banlieue francesi. L’establishment politico, da parte sua, ha reagito con riforme nel campo dell’educazione e modificando il sistema di consultazione della federazione Musulmana e del network diplomatico che permette a centinaia di imam di pregare nelle moschee durante il mese del Ramadan.

Con le presidenziali in arrivo nel 2017, il governo ha ancora due anni per decidere se accettare i termini del dibattito posti dal terrorismo – una testa mozzata su un cancello – oppure continuare costruttivamente a concentrarsi su aree che necessitano una franca e immediata attenzione, per esempio la formazione e l’educazione teologica degli imam, la costruzione delle moschee, la diffusione del radicalismo religioso nelle prigioni, l’antisemitismo nelle banlieue.

La verità è che è molto improbabile che una qualunque tattica antiterroristica o strategia anti-radicalismo avrebbe potuto evitare le azioni del sospettato, Yassin Salih. L’uomo non è un pregiudicato, non frequentava la moschea locale e non era stato a combattere in Siria o Iraq. Ciò evidenzia una prospettiva inquietante: un qualunque trentacinquenne francese con una famiglia e un lavoro che voleva uccidere il suo datore di lavoro e far saltare in aria la sua fabbrica. Questo episodio alimenta un senso di allarme e preoccupazione perché è totalmente e frustrantemente familiare.

Fortunatamente, un recente sondaggio condotto dal Pew Research Center, dimostra una crescente capacità della popolazione francese nel separare gli atti di terrorismo dalla loro valutazione generale sui loro compatrioti islamici. In effetti la reazione militare nel weekend successivo all’attentato è stata limitata alla regione Rodano-Alpi, dove si è verificato l’episodio.

Tuttavia il presidente francese ha ancora bisogno di intraprendere un’autentica e franca discussione con la nazione nella quale spiegare le sfide e le ragione per le quali è necessario aiutare attivamente le comunità islamiche a difendersi contro l’ideologia dello Stato Islamico. È vero, si tratterebbe dell’ennesima discussione nel mare di discorsi già fatti sull’Islam. Eppure se a essa si accompagnasse una coerente agenda politica, supportata da appropriate risorse, potrebbe forse definitivamente “risolvere” il problema.

Quando la pressione degli eventi raggiunse un punto di ebollizione simile, nelle scorse presidenziali del 2012, gli elettori francesi scelsero di abbassare la tensione eleggendo il primo presidente socialista dagli anni Ottanta. Questa volta il corpo votante dovrà fronteggiare delle scelte sottilmente differenti. Sarkozy e Hollande probabilmente si affronteranno di nuovo nelle prossime elezioni, ma competeranno anche con un nuovo leader di un Fronte Nazionale che molti cittadini pensano sia stato riabilitato dagli attentati di gennaio. D’altro canto, Marine Le Pen sembra ora pronta per la grande sfida dopo aver espulso dai ranghi del partito il proprio stesso padre accusato di razzismo. La Le Pen ha accortamente corteggiato gruppi sociali che un tempo si sarebbero sentiti minacciati dai toni apertamente antisemiti e xenofobi del partito e che invece ora apprezzano la fermezza aggressiva espressa dal Front National.

Negli ultimi tempi, tutti i leader politici a turno sono saliti sullo stesso pulpito per denunciare la violenta radicalizzazione dell’Islam, dunque minimizzare gli eventi di venerdì significherebbe lasciare il ruolo predicatorio alla concorrenza. Ma l’uomo che ha a disposizione il pulpito più alto del paese siede nel Palazzo dell’Eliseo. Possiamo solo sperare che voglia cogliere l’opportunità per reclamare ancora una volta quella leadership politica che aveva ritrovato durante i tragici fatti parigini di gennaio.

Traduzione di Fabio Benincasa

Immagine: Il killer di Lione durante l’arresto

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