La nuova vittoria di Erdogan
nella Turchia sempre più polarizzata

Da Reset-Dialogues on Civilizations

A prescindere che lo si ami o lo si odi, Recep Tayyip Erdoğan ha dimostrato per l’ennesima volta il suo estremo talento di attore politico. Alle elezioni del 1 novembre 2015, il suo Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) ha ottenuto la maggioranza in seno alla Grande Assemblea Nazionale Turca conquistando il 49,4% dei voti, un incremento rispetto al 40,9% di preferenze (e ai quattro milioni e mezzo di elettori) che aveva caratterizzato le precedenti fallimentari elezioni del 7 giugno. L’AKP è quindi oggi in condizioni di formare un governo da solo. La Turchia si trova comunque nella stessa identica posizione in cui si trovava prima del voto di giugno: in balia di un potentissimo presidente a suffragio diretto guidato nel controllo della legislatura esclusivamente dalle proprie sfrenate ambizioni. ResetDoc ne ha parlato con l’intellettuale e opinionista turco Mustafa Akyol, autore tra l’altro del saggio Islam without Extremes: A Muslim Case For Liberty (2013).

Come si spiega un tale risultato?

I turchi hanno avuto paura. È questa la ragione del successo di Erdoğan. Il suo partito ha governato questa nazione per tredici anni, perlopiù in modo efficace visto che è riuscito a dare nuovo impulso all’economia. Quando lo scorso giugno l’AKP ha perso la maggioranza, al governo mancava una linea politica e la gente ha pensato che il Paese sarebbe andato fuori controllo e basta. Altro fattore determinante è stato rappresentato dal riacutizzarsi del fenomeno del terrorismo negli ultimi cinque mesi, e qui la colpa è principalmente del PKK. E il processo di pace si è arrestato.

Mustafa AkyolDa Ennahda ai Fratelli Musulmani. Perché l’Islam politico ha festeggiato la recente vittoria di Erdoğan?

Alcuni Stati islamici sono più moderni e laici di altri, ma hanno ancora un legame ideologico con la Turchia, nel senso che la vedono come un modello. Il problema con i siriani e anche con i tunisini da qui in futuro, è che l’Islam politico è il modello predominante nella società e non la trasforma, anzi ne esaspera la divisione. Sono in cerca di un contributo più intrinsecamente democratico alla definizione della società. Finora, solo la Tunisia è riuscita a realizzare uno scenario simile. La Turchia non ha ancora seguito l’esempio tunisino.

Che cosa vuol dire essere un giornalista, o comunque un intellettuale, nella Turchia di oggi?

È dura. Il panorama mediatico turco è dominato da voci “filogovernative”. I giornali sono passati di mano in mano più e più volte negli ultimi decenni, alla fine i nuovi proprietari sono risultati essere i migliori amici del presidente, e hanno licenziato editorialisti e redattori critici nei confronti del premier e del regime da lui instaurato. Centinaia di giornalisti hanno perso il lavoro perché non si uniformavano alla linea editoriale della cosiddetta “Nuova Turchia”. Inoltre, nel Paese si è estremamente acutizzata la polarizzazione. Ne deriva che in un contesto sociale così dicotomico qualsiasi posizione equa, oggettiva e scevra da pregiudizi banalmente non vende. Irrita la gente. “Da che parte stai?” è una domanda che mi fanno spesso, e tenete conto che al momento sono parecchio critico nei confronti del governo. Tuttavia, non prendo per oro colato qualsiasi cosa le opposizioni dicano sul governo, il che fa sì che la gente non capisca di che cosa sto parlando e io non riesca a collocarmi. A quel punto sei solo una voce fuori dal coro, che si fa sentire su Twitter, o su un blog.

Se dovesse dare un qualche suggerimento alle istituzioni europee, consiglierebbe loro di appoggiare Erdoğan?

Consiglierei di non appoggiarlo su tutto, perché ovviamente lui non ha tutte le risposte. Suggerirei di prendere in considerazione le soluzioni proposte, e di appoggiare Erdoğan quando ha ragione e di criticarlo/opporglisi quando ha torto. Per quanto riguarda i profughi siriani, la Turchia ha fatto un lavoro straordinario nel fornire ospitalità ai rifugiati e questo è un punto su cui Erdoğan andrebbe sostenuto. D’altro canto, ha monopolizzato la stampa turca e ciò è un qualcosa che va contro ogni diritto di espressione, per cui andrebbe anche criticato.

Nei suoi saggi descrive l’Impero Ottomano come entità statale pluralista che rispettava tutte le minoranze, come per esempio i curdi. Che cosa ne pensa del recente approccio neo-ottomano adottato dal suo Paese?

Beh, dalla transizione dall’Impero Ottomano alla Repubblica sono sorte diverse problematiche. Ai curdi e ad altri gruppi etnici è stata imposta l’identità turca, questo è incontrovertibile. Negli ultimi quindici anni, sotto il governo dell’AKP, si è registrata una nostalgia dell’epoca ottomana che è andata a investire anche un certo concetto di pluralismo intrinseco alla società. Ciò ha sicuramente aiutato, ha portato ad alcune riforme in merito alla lingua e cultura curda, sostanzialmente tutti i veti relativi all’uso della lingua curda sono stati cancellati; al momento la situazione nelle scuole è oltremodo incoraggiante. Allo stesso tempo però, le richieste dei curdi sono andate ben oltre la questione della lingua e dell’istruzione. I curdi chiedono autonomia, una qualche forma di federazione e così via. Di fatto per ora non si capisce cosa chieda il PKK, ma di certo vuole il potere e questa è tutta un’altra faccenda. Purtroppo, il processo di pace avviato tra il governo e i ribelli curdi, il PKK, che prometteva così bene, è invece fallito un paio di mesi fa. In parte è dipeso dalla guerra civile in Siria, che ha avvelenato anche la Turchia. Sfortunatamente ci ritroviamo in clima di scontri; è possibile che a un certo punto il processo di pace riprenda, in caso contrario attraverseremo un periodo di guerra civile latente, come negli anni Novanta.

Alla luce delle ultime vicissitudini, ritiene che adesso il processo di pace possa ripartire?

Potrebbe, ma credo che l’AKP voglia prima ottenere una forte risonanza sul PKK, in modo che questo accetti il rapporto di forza e magari rinunci al ricorso alla violenza. Se così accadrà, ripartirà il processo di pace. Non ho idea di come faranno a costringere il PKK.

Nel 2013 ha pubblicato il saggio Islam without extremes. Vedendo quanto si sta verificando in Turchia, Siria e nel Medio Oriente in generale, la presenza di estremismo nella regione è evidente. È preoccupato per il futuro del suo Paese?

In Turchia, il cosiddetto stato islamico non ha l’appoggio della popolazione. Solo cerchie ristrette di persone lo sostengono – soprattutto nella Turchia sudorientale e al confine con Istanbul – ne hanno sposato gli ideali e lo promuovono. Non credo che si tratti di una cifra degna di nota. Il governo turco non si è preoccupato del problema, e questo rappresenta per me uno dei principali motivi di critica nei suoi confronti. Non voglio dire che stiano favorendo lo stato islamico, perché sarebbe un’esagerazione, ma si sono concentrati solo contro una fazione, in Siria, e successivamente sulla questione curdo-siriana. Probabilmente non hanno agito contro lo Stato islamico con la necessaria determinazione. Quando c’è stato l’attentato ad Ankara, per esempio, da alcune dichiarazioni del governo è trapelato come gli attentatori fossero già noti alle forze dell’ordine, che a quanto pare però non si erano messe sufficientemente in stato d’allerta. La Turchia non sta appoggiando lo stato islamico, ma di certo dovrebbe prestargli più attenzione.

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