Lo scenario geopolitico della Turchia
dopo l’attentato di Istanbul

Da Reset-Dialogues on Civilizations

La pace indigesta sull’asse Ankara-Mosca-Tel Aviv

Nei giorni immediatamente precedenti l’attacco kamikaze che ha causato 45 vittime all’aeroporto di Istanbul, la Turchia aveva celebrato  il rilancio dei rapporti con Israele e Russia, partner importanti dal punto di vista economico, energetico e militare. Entrambi Paesi con i quali le relazioni erano crollate a zero in seguito, rispettivamente, all’assalto della flottiglia Mavi Marmara (2010) in cui morirono nove cittadini turchi, e  all’abbattimento di un jet russo al confine siriano (novembre 2015), episodio dal quale derivò la morte del pilota Oleg Peshkov.

Il giorno precedente l’assalto all’aeroporto, il procuratore di Ankara aveva chiesto la condanna a 100 ergastoli per 36 presunti jihadisti dell’Isis, sospettati di essere coinvolti nella pianificazione e nella realizzazione della strage in cui persero la vita 103 persone lo scorso 10 ottobre ad Ankara. Un passo che sembrava la fine del terrorismo di marca jihadista in Turchia. Nulla lasciava presagire che la Turchia si sarebbe ritrovata a piangere altri morti per mano di integralisti islamici. Poche ore dopo l’assalto a un aeroporto da 62 milioni di transiti l’anno, quinto in Europa, dotato di un sistema di sicurezza imponente, il premier Binali Yildirim alla televisione di Stato indicava l’Isis come l’autore dell’attacco. Per la prima volta, sorprendentemente, la pista curda, neanche menzionata, veniva scartata a priori.

È difficile mettere insieme in un unico quadro questa rapida successione di eventi, tuttavia che la minaccia jihadista abbia colpito Istanbul per mano di tre kamikaze provenienti da Paesi che nel passato hanno dato vita a movimenti terroristici ostili a Mosca (e ovviamente Israele) è un piccolo indizio. Un ceceno, un kirghiso e un uzbeko. Il terrorismo islamico nel Caucaso si è radicalizzato insieme alla violenza delle operazioni militari con cui la Russia ha crivellato la Cecenia. In Asia Centrale invece per anni un gruppo come Hizb u-Tahrir ha costituito una minaccia per Mosca e al contempo un network con i talebani e Al Qaeda nel vicino Afganistan.

È assai probabile che lo zoccolo duro del jihadismo ceceno e centroasiatico abbia abbracciato il sogno del califfato, transitando e mettendo radici anche in Turchia. Argomenti come questi inducono a pensare che la pace sull’asse Ankara-Mosca-Tel Aviv, e l’unione d’intenti dichiarata contro il terrorismo jihadista, abbiano costituito la molla che ha ispirato la strage.

Allo stesso tempo, il fatto che l’attacco sia coinciso con il secondo anniversario dalla proclamazione del ‘califfato di Raqqa’, seguendo di sole 24 ore il rinvio a giudizio dei jihadisti che hanno agito dietro l’attacco di Ankara, serve all’Isis a mandare un messaggio chiaro agli estremisti di tutto il mondo: “Siamo vivi, siamo in grado di colpire, unitevi a noi”.

Turchia vs Isis, una risposta tardiva

Per almeno due anni il confine turco siriano è stato un groviera attraverso cui salafiti, qaedisti e jihadisti provenienti da tutto il mondo hanno raggiunto i campi di addestramento dello ‘stato islamico’ e abbracciato il sogno del ritorno del califfo.

Tanti i centroasiatici, ma soprattutto i caucasici, che per le loro capacità militari hanno spesso occupato posizioni di comando nelle gerarchie militari degli uomini di Abu Bakr Al Baghdadi. Al contempo molti di questi sono rimasti in Turchia creando piccole cellule che per più di un anno sono state dedite ad attività di reclutamento e di propaganda, quasi del tutto indisturbate.

Quando Ankara è stata costretta a prendere atto della situazione, circa un anno fa, era già troppo tardi. Se è vero, infatti, che il governo ha chiuso le frontiere e dichiarato guerra all’estremismo islamico, è anche vero chel’Isis ha reagito, colpendo nel Paese sei volte in un anno con attentati kamikaze. Attentati imprevedibili, sferrati da cellule legate a Raqqa a livello ideologico e gerarchico, eppure indipendenti nella scelta di luoghi, modalità e tempi dell’azione terroristica.

Si tratta di un fenomeno di dimensioni difficilmente controllabili. Cellule attive nel Paese e risultato anche dell’ordine di priorità che il governo si è dato nella lotta al terrorismo.

Questione di priorità

In tutte le occasioni in cui il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha parlato della lotta al terrorismo e degli sviluppi della guerra in Siria, ha sempre dichiarato che fossero i curdi siriani del Pyd e il rispettivo braccio armato Ypg, la principale minaccia per la Turchia e per il futuro della Siria.

Il presidente e i membri del governo Akp hanno sempre inserito l’Isis nel medesimo contenitore in cui trovavano spazio innanzitutto i curdi turchi del Pkk e i cugini siriani del Pyd, la confraternita dell’ex alleato Fetullah Gülen e  in ultima istanza il califfato di Raqqa.

L’ossessione di Erdogan e di tutto l’Akp nei confronti dei curdi, “l’ordine di priorità” che la Turchia si è data alla lotta al terrorismo, deciso sulla base di dinamiche politiche ed equilibri di potere interni al Paese, hanno condotto alla situazione attuale. Il governo turco, impegnato ad accusare Usa e Ue di connivenza con i curdi, ha dimenticato che proprio questi ultimi hanno costituito la forza di opposizione militare che più di ogni altra si è opposta all’Isis sul campo. Peccato che ad Ankara ogni centimetro di territorio conquistato dai curdi a discapito dell’Isis sia stato visto come una minaccia e non come una vittoria, come accaduto con la recente conquista di Manbij, snodo strategico tra la Turchia e Raqqa.

La differenza essenziale tra le organizzazioni che hanno flagellato il Paese in questi primi sei mesi è comunque evidente.L’Isis ha sempre colpito civili; lo ha fatto nel 2015 a Diyarbakir, Suruc e Ankara, così come nel 2016 a Istanbul il 12 gennaio, il 19 marzo e il 28 giugno. Il Pkk, e il Tak, prediligono obiettivi legati alle forze di sicurezza turche, sferrando attacchi contro obiettivi militari, durante i quali i civili sono spesso rimasti coinvolti, come accaduto ad Ankara il 17 febbraio, il 19 marzo e lo scorso 7 giugno. Diverso è anche il fine ultimo delle organizzazioni: l’Isis manda segnali alla galassia jihadista, i curdi mirano a influenzare l’opinione pubblica e rispondere al pugno duro del governo nel sud est del Paese.
È possibile trattare allo stesso modo fenomeni tanto differenti? La risposta è nella tensione strisciante che attanaglia la Turchia in questi giorni.

Il colpo al turismo e all’economia

17 attentati in 12 mesi, 300 morti, circa 1000 i feriti. I kamikaze dell’aeroporto Ataturk hanno firmato il sesto attacco terroristico del 2016, una scia di sangue e morte che ha decretato lo stato di coma profondo in cui è finito il turismo in Turchia.

Non basteranno le parole del ministro del turismo, che ha garantito che “tutte le misure di sicurezza sono state prese per prevenire altri attacchi”, a riportare i turisti in Turchia. Un mercato importantissimo per l’economia di un Paese che appena due anni fa registrava introiti da più di 30 miliardi di dollari. Un giro da 42 milioni di turisti l’anno, che ha reso in passato la Turchia la sesta destinazione turistica al mondo.

Un collasso che riguarda turisti provenienti da tutto l’occidente, compresa l’ Italia (-56%),Germania (- 31,5%), Gran Bretagna (30%.), ma soprattuttola Russia  ( -96%),  già dall’abbattimento del jet a novembre.

Il governo turco sperava che con la normalizzazione dei rapporti tra Ankara e Mosca almeno questi ultimi potessero tornare a riempire le hall deserte degli alberghi di Istanbul e Antalya, ma l’attacco all’aeroporto ha spento questa speranza, mettendo la parola fine alla stagione turistica e inferendo un duro colpo all’economia non solo del turismo, ma di tutto il Paese.

Un ulteriore dato che il presidente Erdogan non potrà sottovalutare al momento di compilare la “lista delle priorità” che Ankara intende perseguire per assicurarsi un futuro senza terrorismo e il rilancio dell’immagine della Turchia. Riprendere la via del negoziato con i curdi e perseguire la linea di tolleranza zero verso gli jihadisti costituirebbe un cambio di rotta essenziale nella pacificazione di un Paese che, nell’ultimo anno, troppo spesso si è trovato a contare le vittime di stragi che forse si sarebbero potute evitare.

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