La scintillante Abu Dhabi: internazionale per chi?

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Per descrivere il mercato editoriale arabo alla fine degli anni Sessanta venne coniata un’espressione, poi diventata famosa, che così recitava: “L’Egitto scrive, il Libano stampa e l’Iraq legge”. A cinquant’anni di distanza, quella frase andrebbe aggiornata con l’aggiunta di una postilla: “…e gli Emirati investono”.

Negli ultimi decenni il panorama editoriale arabo è infatti molto cambiato: se l’importanza dei mercati di Iraq, Sudan, Libia e Algeria (gli Stati più popolosi del mondo arabo) è lentamente venuta meno per i problemi di politica interna di questi Paesi, è aumentata la dipendenza delle capitali dell’editoria araba, Beirut e Il Cairo, dai mercati della penisola arabica, Arabia Saudita ed Emirati su tutti. E tra gli Emirati spicca senza ombra di dubbio la monarchia di Abu Dhabi, micro-Stato con ingenti capitali da investire, la cui potenza si esercita non solo attraverso il potere economico, ma anche tramite quello culturale. E le ultime fiere del libro lo hanno dimostrato.

Nata nel 1981 come “fiera del libro islamico”, la fiera del più grande Stato emiratino diventa un appuntamento annuale nel 1993, ma è solo nel 2007, grazie alla creazione di una più che proficua partnership con la Fiera di Francoforte, la più grande ed importante del mondo, che quella di Abu Dhabi si trasforma da semplice “suq” di libri in evento dal respiro internazionale. I numeri di quest’anno ne danno un’idea: 500.000 titoli in esposizione in più di 30 lingue diverse; 1.000 espositori (in aumento del 13% rispetto al 2012) provenienti da 50 paesi; 90 sessioni in cui sono intervenuti 130 partecipanti (tra scrittori e professionisti) da 34 nazioni, di cui 15 arabe.

Ma è stata davvero una fiera “internazionale” come i numeri danno a intendere? In un Paese come gli Emirati Arabi Uniti, in cui gli “indigeni” rappresentano solo il 20% su una popolazione di 1,6 milioni di persone, la domanda è più che pertinente e la sua risposta conduce necessariamente a porsi degli interrogativi. Gli avventori infatti, erano in maggioranza emiratini.

La Fiera dunque è internazionale per chi?
Fino a 60 anni fa gli Emirati erano poco più che oasi e villaggi dediti alla coltivazione delle perle mentre oggi, Dubai e Abu Dhabi in testa, si presentano come delle realtà scintillanti e iper tecnologiche, a metà strada tra l’Occidente, il mondo arabo e lo stile dinamico delle tigri asiatiche. Quasi dei non-luoghi che, grazie alla presenza di ingenti capitali, hanno attirato espatriati e lavoratori dai quattro angoli del globo. Ad Abu Dhabi, lo skyline del centro città strizza l’occhio a quello di New York e Singapore; le scritte dei cartelli sono in arabo e inglese; sulle nuovissime super strade a 10 corsie sfrecciano SUV guidati da manager occidentali, taxi con conducenti bengalesi e pulmini sgangherati, che portano al lavoro le centinaia di migliaia di lavoratori asiatici che affollano gli innumerevoli cantieri edili sempre all’opera.

Qui il futuro sembra già presente: è un futuro ibrido, meticcio, ma allo stesso tempo incompleto: le culture e gli stili di vita del mondo arabo, occidentale e asiatico vivono l’uno accanto all’altro ma all’interno di una rigida gerarchia. Il nodo cruciale ruota tutto attorno al problema demografico: una minoranza indigena che controlla i posti chiave del potere e dell’amministrazione pubblica, mentre la forza lavoro straniera, che è la maggioranza, è considerata un’ospite di passaggio e non ha diritto di cittadinanza.

Allo stesso tempo però, e qui sta forse il paradosso, le politiche governative mirano ad aprirsi al mondo: l’aeroporto di Dubai è diventato lo scalo internazionale più frequentato al mondo, grazie non solo alle dimensioni ma anche alla posizione geografica strategica degli Emirati. Inoltre, in un’ottica di diversificazione dell’economia, in previsione dell’esaurimento delle riserve petrolifere di qui a qualche decennio, i governanti emiratini stanno puntando su finanza, turismo, e cultura: il primo è appannaggio esclusivo di Dubai, mentre il turismo è conteso tra Dubai e Abu Dhabi e la cultura tra Abu Dhabi e Sharjah. Probabilmente la spunterà Abu Dhabi: tra pochi anni verranno infatti inaugurati il Louvre Abu Dhabi e il Guggenheim Abu Dhabi, attualmente in costruzione sull’isola di Saadiyat, un nuovo e lussuosissimo polo turistico-culturale a cui stanno lavorando circa 20.000 operai, quasi tutti provenienti dall’Asia.

E si torna al punto di partenza: quanto ancora a lungo gli Emirati potranno ignorare la bomba demografica? Quanto ancora potranno resistere senza realmente aprire la società all’integrazione degli elementi stranieri?

Un segnale di apertura e di riconoscimento della questione è giunto quest’anno proprio dalla letteratura: il premio per la narrativa araba 2013, consegnato ad Abu Dhabi il giorno prima dell’inaugurazione della Fiera, è stato vinto da Gambo di bambù, del kuwaitiano Saoud al-Sanousi. Il libro affronta il tema spinoso delle condizioni di vita dei lavoratori asiatici nelle ricche società del Golfo, ed è raccontato dal punto di vita di un giovane meticcio, di padre kuwaitiano e madre filippina, che, vittima di pregiudizi e senza identità, non riesce a trovare il suo posto nel mondo.

L’ autore non dà una risposta alle problematiche sollevate dal romanzo ma pone molte domande a cui tutte le società interessate da questo fenomeno migratorio dovranno prima poi o rispondere.

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Le immagini sono state scattate durante la fiera del libro di Abu Dhabi, 2013

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  1. Non tutti gli Emirati hanno vissuto sul commercio delle perle, che comunque non sono mai state allevate, ma pescate fino a che’ in Giappone e’ stata introdotta la tecnica dell’allevamento , che ha ridotto drasticamente i prezzi e l’interesse dei commercianti verso queste sponde del Golfo.

  2. “E si torna al punto di partenza: quanto ancora a lungo gli Emirati potranno ignorare la bomba demografica? Quanto ancora potranno resistere senza realmente aprire la società all’integrazione degli elementi stranieri?”

    Negli UAE si viene per lavorare. I flussi di ingresso degli stranieri sono controllati e regolati, come legittimamente e’ giusto che un paese sovrano possa fare.
    Se alla fiera internazionale del libro c’erano pochi stranieri e molti emiratini be’ questo e’ un problema degli stranieri, che forse avevano fare altre cose da fare (?!) e che sono comunque numerosissimi!
    ecco le piu’ recenti indicazioni demografiche governative!:
    https://www.abudhabi.ae/egovPoolPortal_WAR/appmanager/ADeGP/Citizen?_nfpb=true&_pageLabel=P3000130241204212839465&lang=en&did=150258
    Demographic Indicators
    Population (mid 2011 estimates)
    2.12 million (Abu Dhabi Region: 1.31 million, Al Ain Region: 0.58 million and the Western Region: 0.23 million)
    UAE national population: 439,100 (more than 20% of total population)
    Non-nationals: 1,681,600 (nearly 80%)
    Urban Population: 1,292,800
    Rural Population: 827,900
    Average Annual Population Growth Rate (2005-2011): 7.7%
    —————————-
    Io credo che il problema della bomba demografica nei termini descritti per loro adesso non si ponga, o almeno non venga posto in questi termini: la forza lavoro, in base alle esigenze attuali del paese si va diversificando, mentre per quanto riguarda la reale integrazione degli stranieri nella vita del paese, essa e’ gia’ a livelli spinti avanzati e all’avanguardia per essere integrazione in un Paese musulmano, e credo inoltre che piu’ di quello che il Governo da’ e ha dato proprio non sia possibile che dia! questa e’ la mia opinione! e grazie Chiara per la tua comprensione delle situazioni e per aver messo a fuoco delle tematiche importanti in questa area del mondo arabo.

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